Infanzia in Marocco.
Mi chiamo Sana, sono nata a Lakrakera (Krakra, in dialetto indigeno), in Marocco. Questo stato dell'Africa settentrionale, con tutte le sue contraddizioni, è capace ancora oggi di suscitare in me un groviglio di emozioni e tanta nostalgia, anche quando ne pronuncio soltanto il nome...sarà il mal d'Africa, forse. Sono la primogenita di cinque figli. Mia madre Fatima si sposò giovanissima, non ancora maggiorenne. Mio padre Abdellah era poco più grande.
Del Marocco ho dei ricordi bellissimi. Abitavo in una casa a corte con i miei genitori, la nonna paterna (vedova) e la famiglia dello zio: dieci persone in tutto. Nel cortile di casa scorrazzavano le galline e noi bambini ci divertivamo a rincorrerle fino al pollaio. Le mucche e i cavalli erano tutto ciò che ci dava sostentamento. Le mie giornate erano scandite da una semplice e allegra monotonia: sveglia all'alba, faccende domestiche da svolgere prima che la calura del mattino prendesse il sopravvento, una ricca colazione e poi via, a giocare con i miei cuginetti e i coetanei del quartiere! I giochi erano molto semplici: mondo, giochi con la palla, salto con la corda. Tra noi bambini capitava di ingaggiare sfide di corsa a chi arrivasse per primo, oppure di arrampicarci sugli alberi da frutto che crescevano rigogliosi nella parte opposta del cortile: aranci, fichi, limoni...ne sento ancora il profumo. Talvolta la mamma ci mandava a raccogliere i fichi d'india, sfidandoci a gareggiare tra noi su chi fosse il più abile a prenderne di più. Finito di giocare, andavamo a portare a pascolare le mucche nel vasto terreno vicino a casa. Nel pomeriggio, per l'eccessivo caldo, facevamo una pausa per cercare sollievo all'ombra di qualche ulivo o del fico più rigoglioso. Verso sera, appena iniziava a calare il sole, tornavamo verso casa. Dopo aver cenato, si rimaneva nel cortile a chiacchierare, talvolta a ricamare, oppure a intrecciare cestini di iuta. Spesso chiedevo alla mamma la possibilità di andare a scuola, ma la risposta era sempre quella: il costo dei libri non potevamo permettercelo. E poi, perché far studiare una figlia femmina? Se una famiglia con tanti figli avesse potuto scegliere, senza dubbio avrebbe favorito i figli maschi per consentire un più efficace inserimento lavorativo. Attendevo il ritorno da scuola delle due bambine con cui giocavo al pomeriggio. Le guardavo con invidia. In compenso, avevo la fortuna di stare per tutta la mattina con la nonna paterna, la mia deda (che nel nostro dialetto è un nomignolo amorevole). Questa donna silenziosa e forte mi portava ovunque: alle feste di paese, ai matrimoni, alle feste post-circoncisione. C'erano giorni in cui le attività principali erano il ballo e i banchetti. In questi casi, erano le mie amiche a invidiarmi. Avevo la grazia di una ballerina, ma la stoffa di una lottatrice. Mia madre ride divertita quando racconta fiera che quando qualcuno mi trattava con prepotenza, lo prendevo per il collo, e, se era troppo alto, lo prendevo per i piedi e cercavo di buttarlo giù. Io e mio fratello dormivamo in cortile a “cielo aperto”, sotto le stelle, ma mai prima che la nonna ci facesse dire le preghiere. Erano le sue coccole ad accompagnare il nostro sonno. Rimanere in cortile si usava moltissimo perché consentiva di risparmiare sul numero delle candele: fino al 2005, non c'era la luce elettrica nel nostro villaggio. La televisione (alimentata con la batteria delle automobili) trasmetteva ancora in bianco e nero, due soli programmi comici ed era principalmente nella sala ospiti degli uomini (che mangiano separati dalle donne). Ripenso ancora con tenerezza a quando, sentendo passare l'inconfondibile carretto dei dolciumi, chiedevo a mia mamma i soldi per comprarne almeno uno. Eravamo poveri e ci si arrangiava con i mezzi disponibili. Senza risorse economiche, confidavamo su quelle materiali: barattavamo uova e latte in cambio di qualche dolciume. Non molti, a dire il vero, ma parlandone sento ancora in bocca il sapore delle mandorle pralinate che riuscivamo a conquistare. Tenevo in mano il sacchettino di carta coi dolci: lo guardavo come si ammira uno scrigno prezioso di cui si sta per scoprire il tesoro. In quella manciata di mandorle sentivo condensato tutto il meglio della cucina africana. Ero golosa e ostinata: mia madre mi racconta ancora divertita di quando mi impuntai per ottenere la foratura delle orecchie. Non volevo sentire ragioni: avrei indossato i miei primi orecchini, a tutti i costi! Così, mi trovai faccia a faccia con l'anziano che, seduto davanti a un braciere, si prendeva del tempo per rendere incandescente il fil di ferro con cui mi avrebbe forato i lobi. Serio, col volto illuminato dal fuoco, mi indirizzava cupe occhiate per scrutare il mio sguardo. Io, felice, rimanevo in attesa, ferma, senza timore. A un certo punto iniziai a stare male, senza capire cosa mi stesse accadendo. Non mi sentivo compresa e spesso la mia fatica fisica veniva sminuita. Dall'età di cinque anni, ho memoria di un'inspiegabile stanchezza in ogni mio sforzo, anche minimo. Venivo esclusa dai miei coetanei anche nel gioco in quanto non ero in grado di saltare o correre come le altre bimbe. Capitava che vomitassi subito dopo aver mangiato o di svenire o di lamentarmi per forti mal di pancia. Iniziai a uscire dal mio villaggio per essere visitata dai medici del luogo: ‘Passerà!', la rassicuravano sottovalutando i miei sintomi. A 9 anni venni portata nell'ospedale più vicino sul furgone dello zio, a seguito di un fortissimo malessere. La mamma mi sedeva accanto, io stavo con la testa appoggiata su di lei e un sacchetto per raccogliere il vomito (ho sempre sofferto di mal d'auto). Subito i medici videro che avevo la faccia gonfia e, dopo avermi auscultata, capirono che si trattava di un grave problema cardiaco. Fu deda a tenermi compagnia durante il ricovero, la mamma doveva badare ai miei fratelli minori e alla casa. Di quei dieci giorni d'ospedale, ricordo mia nonna seduta accanto a me su una sedia di plastica. Rimase lì, su quella sedia anche di notte. Quando il sonno la prendeva, lei portava la sedia vicina al muro di fronte al mio letto. Vi appoggiava la testa in attesa di svegliarsi alle prime ore del mattino. Che grandezza l'essere umano! E di quali sacrifici è capace quando è l'amore a condurlo! Ancora oggi, mi porto nel cuore la mia deda, anziana sconosciuta al mondo che usò un freddo muro scrostato di ospedale come cuscino. Chissà quali sogni abitavano la scomodità di quelle sue notti. Mamma mi racconta ancora oggi che per lei quel giorno il mondo si fermò. Ha subito pensato alla precarietà della sua situazione e al senso di impotenza che provava di fronte alla mia malattia. Mio padre mi racconta che il mio primo E.C.G. (ecocardiogramma) lo pagò l'equivalente di 54 euro. Fu dopo questo esame che gli dissero che avrei dovuto essere ricoverata nell'ospedale di Rabat per essere operata al cuore: il tessuto pericardico presentava un buco che andava chiuso. L'operazione all'epoca sarebbe costata 140.000,00 dirham (la moneta marocchina), cioè poco più di 13.000 euro. Mio padre sentì una stretta al cuore: le sue tasche erano vuote e la sua persona colma di impotenza. La sua terra e la sua storia non avrebbero aiutato la sua piccola gioiosa ballerina. Fu in quel momento che si arrese alle richieste della mamma che già da parecchio tempo insisteva affinché mi portasse in Toscana con sé, dove nel frattempo lui era riuscito a trovare un lavoro e la residenza. Lei lo sapeva: era necessario che la sua bambina giocasse tutte le sue chances, coi medici migliori e con la solidarietà di un sistema sanitario che non avrebbe permesso che la sua tenace e impavida figlia morisse senza colpa, per via del sistema economico di un continente incapace di difendere i più svantaggiati.
Nel villaggio si era sparsa la voce della precarietà della mia salute e i consigli alla mia famiglia si sprecavano (credo sia rilevante tenendo presente che il 90% dei nostri compaesani era analfabeta e che coloro che avevano avuto la possibilità di studiare erano emigrati da tempo verso la città). Uno dei consigli che fu dato a mia madre fu quello di farmi mangiare l'uovo crudo: ne ho ancora un ricordo davvero disgustoso. Quando giunse voce in paese della mia imminente partenza, molti scherzavano con me usando battute circa i vantaggi del mio soggiorno in Europa: avrei tagliato i capelli alla garçon, oppure avrei sperimentato i frisé, ma soprattutto avrei potuto studiare perché in Italia ci sarebbe stato l'obbligo d'istruzione. In poche parole, avrei goduto di una vita da donna libera. Io tacevo... stavo troppo male e sinceramente avevo smesso di immaginare e di sognare. Non sapevo nemmeno dove si trovasse l'Italia. Di quei giorni, rimane in me la granitica memoria di quanto mi sentissi infinitamente amata: chiunque dei miei familiari avrebbe fatto di tutto per salvarmi. Fu questa bolla d'amore a caratterizzare tutta la mia vita...A questo la lontananza ha aggiunto una mancanza costante, un vuoto che avrebbe accompagnato come un filo rosso tutta la mia storia, come un ricordo lontano da cui mi sento ancora strappata. Nell'attesa che mio padre concludesse le pratiche per consentire il mio espatrio, io purtroppo continuavo a peggiorare in modo significativo ed evidente. Trattenevo una quantità di liquidi tale da avere una pancia grande come quella di una donna in gravidanza. Il mio cuore era così appesantito che la maggior parte del tempo la passavo a dormire. Fu così che nel settembre del 2001, io e mio padre partimmo in macchina per l'Italia...
Sana El Aoud
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