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Autore: Anna D'Auria
Mala Jin. Tulipani nel cemento
Fiction
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Mala Jin. Tulipani nel cemento
Socchiudi gli occhi, Doris. Ti mostrerò la forza che scorre nelle anime delle nostre sorelle. Şêr şêre çi jine, çi mêre - .
Mi ripete Estêre con le iridi nere come non mai. Questa mattina è venuta nella Mala Jin e mi ha condotto sulla collina prospiciente ‘La casa delle donne'. La nostra casa.
Sì, perché la Mala Jin è nostra, è la trincea di tutte noi donne.
Qui, a ridosso di un modesto rudere, scorgo in lontananza un'immensa distesa di colore scarlatto. Una tonalità vivida, accesa, uniforme. Evoca immagini di sangue, passione. Sacrificio. Gli occhi si spalancano, la mente vacilla.
Un brivido irrompe sul corpo e, in pochi istanti, divampa in una sensazione penetrante e soffocante. La paura mi invade l'animo, teso come una corda di violino.
Estêre è alla mia destra. Sento la sua stretta forte premere sul mio polso. Lei non vede, ma sa guidarmi con sicurezza.
Ci muoviamo in una dimensione parallela, uno spazio sconosciuto che mi avviluppa con voracità.
Ho paura, lo ammetto. Non si può non aver paura dell'ignoto, anche se affascina con un alone straordinario. E ciò, che vedo, lo è. Eccede i limiti del normale. I miei sensi non hanno mai percepito una visione simile. Una miriade di fiori dalle corolle chiuse, alcuni più tenui, altri di un rosso intenso, traboccante di vita. Un tappeto di velluto che riveste e avvolge completamente il terreno. Pregiato e fine. Resistente e caldo.
La paura si muta in stupore e mi spinge a riguardare quello scenario, quasi scaturito dal nulla. Un miracolo nel deserto della vita. Fiori sbocciati nel cemento della non-vita.
Mi meraviglio che possa esistere una tale bellezza in un luogo così arido.
- Vivono mille vite in questa terra, racchiude le voci di infinite storie - , mi spiega Estêre,
mentre un velo di trepidazione mi fa tremare i polsi.
- Non capisco - le rispondo, scuotendo la testa.
- Ogni fiore, Doris, equivale a una vicenda scolpita nel terreno e nel cuore. È ciò che resta di noi, madri coraggiose, figlie combattenti. Semplicemente donne. Donne che hanno
conosciuto il vero senso della vita. Qui, un giorno, potrai incontrare anche tua madre - .
Resto attonita, sconcertata da quella realtà che si palesa davanti al mio sguardo, quasi incredulo. Le parole di Estêre mi rimbombano nella testa, come un ronzio incalzante che, a poco a poco, si sfuma.
- Olan...Olan, no... - .
Una voce improvvisa mi fa sobbalzare. Chi
c'è? Grido, aggrottando le sopracciglia. Mi volto di scatto. Non vedo nessuno. Nessuno, oltre noi. Io e Estêre.
- Olan...Olan, no... - . La sento ancora. Eccola. Roca, fievole.
A chi appartiene? È una voce di donna che parla con un tono affannato. Ispeziono il luogo con l'olfatto sopraffino di un cane, che fiuta le tracce di una persona scomparsa.
Niente. Non c'è nessuno.
D'un tratto, uno dei fiori scarlatti si schiude davanti ai miei occhi perplessi. Un'intuizione lampo si fa spazio tra i miei dubbi. Che provenga da qui? Possibile?
Lancio una fugace occhiata ad Estêre. Con
un gesto della mano mi invita al silenzio. La voce s'intensifica, echeggiando con intensità nell'aria impregnata di mistero. Parla la mia
lingua. Cosa sta dicendo? Metto a tacere i miei pensieri e ascolto con apprensione, combattuta tra timore e stupore.
- Olan, basta! È proibito parlare, scrivere e insegnare la nostra lingua! Non possiamo! Non è permesso, non puoi, ti arresteranno! Gli ripeto ogni giorno. Ma lui niente. Sordo ai miei richiami, continua. Canta, scrive e parla in curdo. È contrario alla cultura e alle tradizioni locali, lo sai! ‘Ilham, sono fiero di usarlo', mi risponde con insistenza.
Eccolo, lo vedo, è ancora lì, seduto alla cattedra. Insegna la nostra lingua ai suoi giovani alunni. Non puoi, è severamente vietato! Gli grido con tutta la voce che ho in corpo.
Ho paura. Ma lui niente. Continua. Non mi ascolta.
Fa di testa sua. Mi pervade i timpani l'incipit della nostra canzone popolare, ‘'Ey Reqip''.
Ey reqip, her maye qewmê kurd ziman Naşikê û danayê topê ziman
Hey guardiano, è rimasto vivo e forte il popolo della lingua curda.
Non si infrange né declina sotto i colpi del tempo
Olan la ripete all'infinito, quale tacito patto per sancire un'identità negata che, nonostante continui abusi, sopravvive. Sopravvive disperata attraverso le nostre bocche e si anima con il nostro coraggio.
Fondante della propria identità di popolo è la lingua. E il curdo è il filo rosso che ci lega alle nostre tradizioni, ai nostri avi. Impercettibile, invisibile ma pur sempre esistente e resistente.
Il sole è già alto, illumina di intensi sprazzi di luce e vita le pareti dell'aula, tappezzate da disegni colorati, intrecci di linee e forme geometriche tra lettere e numeri che disegnano case, giardini fioriti e stelle celesti, tratteggiati da tenere mani.
Le voci armoniose dei piccoli risuonano ovunque nella scuola, recitano i celebri versi di un poema popolare della nostra letteratura, tramandato da tempi immemori. Lo struggente “Lamento di Khajeh”.
Perché piangi, Siyaband, perché piangi ancora? Mi hai lasciato, sei corso lungo l'abisso. Sapevi che senza di te non ho protezione, sostegno.
Come potrebbe la mia ferita guarire? Dormi, amor mio, dormi.
La morte non potrà porre fine all'amore tra la principessa Khajeh e il bandito Siyaband ma ne eternerà la memoria.
Lui l'ha rapita, sì, ma solo per poterla amare. Ha infranto ogni divieto esclusivamente per amore. Per poco tempo hanno goduto delle gioie del loro sentimento, perché il destino ha deciso che lui dovesse morire, spinto da un cervo giù da un precipizio. Siyaband però non teme la morte eppure è turbato per il futuro che attende la sua amata. Neanche lei ha paura dell'ombra nera della vita, anzi la cerca per abbracciare in eterno il suo Siyaband:
Oh Sipan, oh rocce di Sipan! Non fermatemi! Apritemi la via, portatemi da Siyaband!
Oh Sipan, apri un sentiero, un passaggio, fa' che io passi, che vada
sarò di Siyaband la tomba, non solo la sposa!
Disperata, si lancia nel baratro, cercando la sua libertà.
I bambini ripetono i versi. A voce alta. Li tengono ben a mente. Li hanno assimilati e li
amano proprio come amano la loro lingua dai suoni aspri e penetranti.
Ti pervade l'animo con la sua incisività, con la crudezza di parole genuine che ti insegnano a vivere con orgoglio in una realtà che cementifica ogni fiore della vita. Libertà, digni- tà, diritti. I nostri sogni sono morti. Devastati da un continuo diktat. Le manine si stringono e dalle tenere bocche si leva insistente un profluvio di libertà.
Sono suoni di vita. È un piacere sentirli.
Eppure tremo perché sono un presagio di sangue.
È il 1999. Io sono Ilham, ho diciannove anni e tutta una vita davanti. Almeno, così credevo, ma era solo una vana illusione. Tanti sogni coltivavo, fin da bambina, me li hanno strappati tutti, uno ad uno. Hanno prelevato Olan dalla scuola e non l'ho più rivisto. Poi sono entrati in casa, hanno abusato di noi, lasciandoci morte sul terreno.
Il nostro sangue, il mio e quello di mia madre, impregna questa terra. Raccontalo al mondo, per favore, non lo dimenticate. Non ci dimenticate! Dimenticaaaaateee! - .
Una lunga risonanza su per la collina spegne lentamente le parole di Ilham, come un'onda d'urto che, pian piano, si disperde. Segue un silenzio surreale. Mi fa accapponare la pelle. Vacillo nei pensieri. Sospiro in preda allo sconforto.
Un fiore, tra i più luminosi posizionati davanti al mio sguardo, nella prima fila del manto scarlatto, improvvisamente si chiude, serra ermeticamente la corolla di sangue.
Non mi sbagliavo poco fa, la voce che ho udito proviene realmente da qui, penso tra me e me. Lo stelo si china, come prostrato da un dolore interminabile, chiudendosi nel placido silenzio di un crepuscolo eterno.
Estêre capta il mio smarrimento e i dubbi che mi scuotono l'animo. Prontamente mi sostiene, sa tutto. E può tutto. Ha capacità sovrasensoriali, per altro acuite dalla cecità. Cammina appoggiandosi ad un vecchio badtone, uno scettro, segno di autorevolezza, simile a quello degli antichi aedi. Dotata di una saggezza che la rende infinitamente speciale, con le sue rivelazioni tempra il mio animo, tenero come un virgulto e impreparato alla nuova vita che mi aspetta. Sono una foglia tremante al vento, fragile e inutile rispetto alle sorelle curde, querce dalla secolare stabilità.
Talvolta mi sento d'intralcio a causa della mia impreparazione, non solo fisica ma emotiva.
Mastico polvere mentre loro, ormai avvezze alla durezza della vita, non mostrano alcun
cedimento né insicurezza. Tremo di notte ad ogni minimo rumore, non ho ancora imparato a distinguere i suoni.
Un fruscio o un calpestìo mi mettono ansia, li avverto come un pericolo. Sono sempre in dormiveglia. Non chiudo occhio se non per qualche ora, spossata dal sonno e dalla fatica dell'addestramento.
Il corpo lo alleni, lo prepari a tollerare ogni sforzo ma l'animo non è facile da fortificare. Difficile da plasmare. Ci vuole tempo, molto tempo ed io ne ho perso tanto, troppo.
Eppure è stata una mia scelta. Non l'ho mai rimpianta, non la rimpiango tuttora. Scegliere è una responsabilità.
Ci sono scelte che sono per la vita. Questa ormai, di fatto, è la mia vita.

Anna D'Auria

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