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Autore: Matthew Arkham
Nel Buio Piu Profondo
Horror
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Nel Buio Piu Profondo
All'ombra di una foresta scura d'abeti e querce Mario continuava a correre.
Non poteva vederlo ma poteva sentirlo da qualche parte dietro di sé. E lei invece dov'era? Dove diavolo s'era nascosta? Che strano dar la caccia a qualcuno, pensò, e al contempo esser cacciato. Muovendosi in fretta nel sottobosco tagliente di rovi, su foglie e aghi secchi che scricchiolavano come mucchi d'ossa calcinate, Mario sapeva, anzi lo sentiva, sì... sentiva il suo respiro pesante... la sua corsa animalesca... Non poteva vederlo ma poteva sentirlo, sempre più vicino... e quando infine lo vide dinnanzi a sé... era già troppo tardi...
All'improvviso uno squillo elettrico svegliò Mario strappandolo al buio profondo di un sonno simile a una piccola morte. Tra le nebbie del torpore egli realizzò, a fatica, che si trattava della radiosveglia posizionata come al solito alle 7 meno 10 del mattino. Allungandosi, cercò di spegnere quell'infernale marchingegno di tortura, o magari di lanciarlo fuori dalla finestra... s'allungò ancora un pochino sfiorando il pulsante con la scritta STOP... finché non rotolò giù dal letto. Si rialzò di scattò come una furia e con un pugno a martello disattivò la suoneria, scassandone l'altoparlante. Scrollò il capo e si lasciò andare all'unica parola che da anni segnava il suo risveglio.
- Cazzo... -
Per Mario era arrivato il momento di lasciar perdere sogni inquietanti in foreste scure e di andare al lavoro, il momento d'iniziare un'altra snervante giornata di frenesia e delirio, il momento di affrontare la vita maledetta del pendolare.
Dopo aver sgranchito le giunture Mario si avvicinò alla finestra per osservare i bagliori lattiginosi del primo mattino che s'insinuavano tra i giardini ancora gelati di brina e i casermoni alveare del quartiere. Accolse il nuovo giorno col solito ottimismo del condannato a morte che percorre "l'ultimo miglio". Ma sì sì, fai lo spiritoso, povero idiota, si disse, intanto però trascinati in bagno per lavarti via di dosso la solita nottataccia di incubi alla Stephen King. E lo fece, Mario si trascinò fino al bagno ancora intontito dal sonno, e tentò la maniglia della porta. La trovò chiusa. Sua madre si era già barricata dentro per compiere i suoi oscuri rituali femminili e allungare la giovinezza di qualche altro giorno, a settant'anni suonati.
Che cosa avrebbe potuto dirle?
- Cazzo... -
La giornata era appena iniziata ed era già alla seconda imprecazione. Ma non doveva disperare, perché di tempo ce n'era in abbondanza e la situazione poteva ancora peggiorare. Tra un'imprecazione e l'altra Mario considerò l'idea di sfondare la porta del bagno a spallate; ma infine, dando una scorsa all'orologio, rinunciò. Era tardi... tardissimo!
- Cazzo... -
E tre, pensò con una punta di scellerato masochismo. Era lo stesso tipo di perversa attesa, quel misto d'orrore e fatalismo, che doveva provare un condannato a morte (col quale ormai s'identificava perfettamente) prima dell'iniezione letale. Il tempo intanto stringeva. Saltellando su un piede solo Mario s'infilò i pantaloni, poi la camicia spiegazzata, la cravatta stretta e tesa come un cappio e infine la giacca color grigio topo di fogna morto. Si diede una guardata allo specchio e concluse che sembrava un incrocio tra Gordon Gekko in Wall Street e un becchino del cimitero di Prima porta dopo averne interrati almeno una ventina.
Bene. Era pronto per andare al lavoro.
Dopo esser uscito di casa sbattendo la porta, Mario volò giù per le scale del suo caseggiato, un alveare di triste cemento granuloso da "lapide" alla periferia di un'anonima cittadina a nord-est di Roma. In cinque minuti scese nel parcheggio condominiale e s'infilò nel suo vecchio crucco, uno sgangherato Volkswagen anni '90 compagno di mille avventure giovanili, tra lunghe nottate alcoliche con gli amici e complicati incastri sul sedile posteriore con qualche ragazza. Appena seduto "scomodo" sulle molle che gli punzecchiavano il sedere Mario vide l'ora sul cruscotto.
- Cazzo... -
E quattro, pensò; ma non prendertela, si disse, perché potrebbe anche andare peggio: potrebbe piovere grandine con chicchi grossi come meloni che sfasciano il tettuccio. Accese il riscaldamento, ma il parabrezza rimase gelido e opaco come una spessa lastra di ghiaccio. Allora Mario scese dal crucco e col raschiatore si ricavò una piccola fessura sul vetro. Poi tornò alla guida e uscì molto adagio dal parcheggio con la sensazione di essere alla guida di un Panzer tedesco della Seconda guerra mondiale. Appena s'immise nella direttrice principale rimase incastrato nel traffico mattutino insieme ad altri schiavi che correvano ai loro loculi-ufficio. Cercò di farsi spazio fino alla rotatoria che smistava la malabolgia, alternando colpetti di clacson, minacce e accelerazioni. Al sesto tentativo fu inevitabile il quinto...
- Cazzo... -
Alla fine, bruciando madri che portavano a scuola nidiate di figli, zombi da ufficio in completo scuro e occhiaie ancor più scure, ottuagenari svegli all'alba per andare chissà dove, Mario riuscì a sfilarsi dalla malabolgia per immettersi nella strada a scorrimento veloce e raggiungere la stazione ferroviaria dall'altra parte della città. Arrivato al parcheggio della stazione s'infilò tra le auto in sosta giusto un pochino, ma solo un pochino, fuori dalle strisce. Multa? Senz'altro. Ma lui andava al lavoro per questo, no?, per ripianare il bilancio comunale disastrato da amministratori incapaci e corrotti. Rassegnato, scese dal vecchio crucco, e, mentre chiudeva lo sportello, l'occhio gli cadde di nuovo sull'orologio.
- Cazzo... -
Era il sesto? Settimo? L'imprecazione è il tic nervoso del disperato, pensò, avviandosi verso la stazione. Appena Mario entrò nel fabbricato viaggiatori alzò lo sguardo sul tabellone. Il suo treno-bestiame stava per partire dal solito binario, l'ultimo. Ricominciò la sua folle corsa: schivò un gruppetto di pensionati ammassati davanti al bar della stazione, saltò un cumulo di trolley abbandonati nel mezzo, si lanciò nel fatiscente sottopassaggio e lo attraversò in dieci secondi. Riemerse accanto all'ultimo vagone mentre il capotreno fischiava impaziente. Con un balzo Mario s'infilò dentro un secondo prima che la porta si chiudesse. Sfinito e sudaticcio da fare schifo, ma dentro. Si lasciò andare sul primo sedile libero. Il tempo di un sospiro e poi prese a vagare con lo sguardo. Riconobbe il volto di altri martiri silenziosi, ombre senza né medaglie né targhe alla memoria, che come lui conducevano un'esistenza sempre in bilico tra sonno e veglia. Si accorse anche che la carrozza era fredda e puzzolente come una fogna di Reykjavík; ma era la prassi, una routine quasi rassicurante nel suo immutabile ripetersi. Mario spinse allora lo sguardo sulle cime dei monti che cingevano la piccola cittadina dov'era nato e cresciuto. Lasciandosi andare sullo schienale, la nuca nell'incavo del poggiatesta, fantasticò di smarrirsi tra i boschi di quei monti, magari di poter svolgere improbabili mestieri quali il guardiacaccia o il boscaiolo. Un sole ancora pallido e tetro come un fantasma illuminava debolmente le sagome di calcestruzzo cittadino e gli spazi rurali appena velati da una leggera foschia mattutina. Era arrivato il momento, adesso, di scivolare in una specie di “standby” per recuperare pochi ma preziosissimi scorci di sonno arretrato, almeno fino all'arrivo nella Capitale. Mario si infilò nei timpani gli auricolari dell'mp3 come fossero dei tappi. Desiderava solo di poter chiudere gli occhi e fuggire sui sentieri solitari che salivano tra i monti...
Dopo cinquantasette minuti di sferragliante treno, un quarto d'ora di infernale metro affollata e maleodorante, e settecentonovanta falcate (contate ogni giorno con maniacale costanza) da pedone-bersaglio sulle strade romane, Mario arrivò al lavoro miracolosamente in perfetto orario.
L'ultimo - cazzo... - , sospirato a pieni polmoni, fu un'autentica liberazione.
Un'estasi effimera, subito spenta dall'innaturale rumorio elettrico del timbra-cartellini al tor-nello d'ingresso, come ogni lunedì mattina. Bene o male, era fatta. I colleghi che incrociò nei corridoi lo bersagliarono subito di domande su cose che doveva fare o che doveva già aver fatto. Mario rispose con rapidi cenni e frasi di circostanza, un repertorio collaudato. Entrò in ufficio e valutò, per cinque minuti, di barricare la porta con assi chiodate. Ebbe a stento la forza di accendere il PC (simile a un Commodore 64) che il reparto informatico metteva a disposizione dei colletti bianchi. La linea interna prese a squillare e lo schermo venne sommerso da una valanga di mail.
Sarà una lunga, lunghissima, pensò, giornata di merda.
Prima di iniziare la sua quotidiana salita al Golgota, dopo aver allentato la cravatta a cappio e slacciato i primi bottoni della camicia, Mario si accostò alla finestra per osservare il fiume umano che scorreva lungo via Cola di Rienzo: chi scaricava merci, chi sollevava le saracinesche dei negozi, chi s'azzuffava per un microscopico parcheggio, chi chiamava un taxi gesticolando. Di quando in quando intravedeva lo sguardo assente di qualche commessa o il sogghigno beffardo di qualche "manichino" rampante (forse un avvocato o un commercialista) che chiacchierava al cellulare. La solita massa isterica e informe che come sangue fresco scorreva nelle vene della Capitale.
Staccandosi dalla finestra con un sorriso acre Mario cominciò il suo duro lavoro...
La giornata in ufficio trascorse spiacevole e turbolenta, come al solito. Pratiche da evadere, file Excel da compilare, mail da inviare a funzionari e dirigenti col vezzo perverso di torturare i sottoposti. Ma il peggio era passato. Nel tardo pomeriggio le giunture tornarono a gridare vendetta, rigide, indolenzite, come al termine di una maratona sostenuta in un clima caldo umido. Mario si alzò dalla sedia con la stessa elasticità di un novantenne artritico; ma, al contempo, rincuorato dal fatto che stava per riemergere in superficie per una boccata d'aria, per poche ore di vita, e poi tornare giù... giù... nel profondo. Otto ore di lavoro, tre di trasporto, sei di insonnia mista a un sonno agitato da strani incubi. E la vita? Pochi momenti rubati il fine settimana, un paziente in coma con sporadici risvegli. Ma la cosa peggiore era dover fingere, sorridere gioviale ai colleghi, soprattutto ai capi. Un ghigno perenne alla “Joker” che negli ambianti lavorativi costituiva una dote da curriculum, un prerequisito essenziale per qualsiasi velleità di carriera. Eppure Mario non riusciva mai a simulare una giovialità che in realtà non gli apparteneva. Mario non sorrideva spesso.
Mentre rifletteva sul fatto che i peggiori dittatori della storia si sono mostrati sempre allegri e sorridenti, almeno in pubblico, si rese conto che si erano fatte le 18.
- Cazzo... -
L'imprecazione piatta di un nuovo ciclo. Il topo gira, gira, gira sulla ruota moderna senza sa-pere dove va, rifletté Mario col sorriso sbiadito di fine giornata. Ma dove cazzo se ne va il topo? Da nessuna parte, concluse, solo che è troppo stanco per rendersene conto. Meglio non pensarci. Riprese la sua roba, giacca, zaino, pronto a scattar come un velocista. Niente straordinari? si chiese. Non finchè poteva evitarlo, o finché non veniva forzato con minacce, ricatti o fasulle promesse di vita eterna. Era più preoccupato per la sua salute che per le incazzature di un dirigente che si masturbava col Financial times o Il sole 24 ore. Poi, guardandosi riflesso nel vetro di una finestra dell'ufficio, Mario si accorse di non avere un aspetto molto salutare. Era pallido e aveva messo su qualche chiletto di troppo. La boxe, praticata un tempo, era ormai solo un ricordo. Le sue giornate si erano ridotte a un calvario di levatacce e orari fissi, un circuito vissuto in perenne stordimento, che non lasciava spazio al tempo libero, figurarsi a un'attività fisica agonistica. Nel mentre, l'età avanzava svelta e il metabolismo rallentava implacabile. Come si sentiva? "Vecchio di secoli".
La sirena di un'ambulanza riscosse Mario dalle profondità dei suoi pensieri e subito diede una scorsa all'ora. Tardi... tardissimo!
- Cazzo... -
La ruota del topo riprese a girare. E tu corri, Mario, corri, corri, si disse, hai visto mai che con un po' di fortuna il mondo non finisca con una bella guerra termonucleare. Lo sperò con tutto il cuore, mentre filava all'ascensore, e poi giù al tornello, per strada, alla metro... fino alla stazione.
Arrivato al binario – l'ultimo, naturalmente – Mario si infilò giusto in tempo nella carrozza col classico balzo disperato. I vagoni erano tutti un pandemonio di studenti schiamazzanti, lavoratori assopiti, immigrati molesti pieni di cianfrusaglie e altri dannati del girone dei "pendolari". Per un attimo Mario valutò di rintanarsi in qualche angoletto caldo della stazione Termini, magari in compagnia di qualche senza tetto, con le sue interessanti storie di vita. Quando ormai aveva perduto la speranza di sedersi, scorse un posto libero in fondo alla carrozza. Si lanciò nel corridoio saltando trolley e zaini abbandonati nel mezzo e arrivò alla meta. Mentre piazzava la sua roba nel portapacchi in alto, un bestione, con una spallata, lo spinse via e gli soffiò il posto a sedere.
- Senta, mi scusi - biascicò Mario a denti stretti - ma quel posto è occupato. -
Il tizio lo squadrò con un'aria strafottente. - Ah sì? E dove sta scritto il tuo nome? -
Era un tipo ben piazzato, pieno di tatuaggi da ergastolano. Sembrava fuggito fresco fresco da Rebibbia o da Regina Coeli. Ma il vagone era stracolmo e Mario decise d'insistere.
- Guardi... cerchi di essere ragionevole. Sono arrivato prima di lei. -
- A me non pare proprio, ciccio. Quindi fa una bella cosa: smamma e levati dal cazzo. -
Mario si avvicinò col volto tirato da una crisi nervosa imminente. - Senta - , disse piano ma con fermezza, - cerchiamo di star calmi. Che sono arrivato prima di lei lo hanno visto tutti. -
- Davvero? -
Con un ampio gesto il bestione fece una panoramica della carrozza, tanto per evidenziare l'indifferenza del prossimo, sempre trincerato al sicuro dietro smatphone, chiacchiere futili e sguardi evasivi. La stanca e sfiduciata indifferenza dell'uomo moderno, preso tra lavoro, famiglia e contribuiti da pagare. Ostentando una volgare soddisfazione, il bestione fronteggiò Mario, petto in fuori, sguardo truce e un sorrisetto gelido di pura minaccia fisica. Le implicazioni di quanto stava per accadere erano ben chiare a tutti.
- Te lo ripeto per l'ultima volta - , ribadì il bestione gonfiando il petto, - quel posto è mio, punto. Levati dal cazzo. -
Scrollando il capo, Mario, stanco ma anche tremendamente irritato, si lasciò scappare un - ma vaffanculo - appena percepibile. Qualcosa che solo l'udito ipersviluppato di qualche animale feroce della savana avrebbe potuto sentire. E infatti il bestione, che un animale feroce lo era davvero, sentì chiaramente l'invito di Mario a recarsi in un luogo "ben noto a tutti" e lo aggredì con uno spintone così forte da farlo scivolare di sedere sul corridoio. Per fortuna Mario non si fece alcun male, rimase però scosso dalla violenza di quel gesto esagerato. Non aveva mai picchiato nessuno al di fuori del ring, dove regole e precauzioni servono a garantire la sicurezza degli sportivi. Ma le risse sono tutt'altra cosa: niente regole, contusioni, fratture e l'opportunità di scegliere tra un soggiorno in carcere o in qualche reparto d'ospedale. Eppure... eppure Mario si rialzò adagio, molto calmo, con un sorriso indecifrabile che sbatté in faccia al bestione. In realtà non voleva far nulla, eccetto riprendere la sua roba dal portapacchi e andarsene. Ma qualcosa, un che d'incerto, d'indefinito, lo trattenne ancora un attimo di fronte a quell'uomo così spiacevole. Percepì una fitta alla tempia e una strana tensione aliena lungo i muscoli del corpo. Ma fu davvero un attimo... solo un attimo... e infine passò. Dopo essersi massaggiato il fondo schiena, Mario si guardò intorno, ancora un po' stordito. La gente spiava la scena in silenzio e alcuni avevano già iniziato a riprenderli con lo smartphone. C'era sempre da contare sul morboso voyerismo del prossimo. Lì per lì Mario si vide involontario protagonista di un gran bel video su YouTube che documentava l'inciviltà dei pendolari italiani. Frattanto, il bestione aveva incrociato le braccia gonfiando croci celtiche e svastichelle che gli adornavano i muscoli. Non vedeva l'ora di fare del male a qualcuno e Mario l'intuì chiaramente; ma la stanchezza, l'educazione, e tutte le altre scuse che di solito si usano per non affrontare situazioni rischiose e spiacevoli, lo indussero a rinunciare. Non è vigliaccheria, si disse, ho fatto pugilato per anni, è solo che non mi va di dare spettacolo. Cercò di convincersene, se pure qualcosa, da un angolo scuro e remoto del cervello, gli ripeteva tutt'altro. Scosse il capo per riprendere piena lucidità. Alla fine, preda della solita emicrania, decise che stava facendo la scelta giusta.
Dopo aver recuperato la sua roba mentre il bestione nazista si pavoneggiava col suo pubblico, Mario cambiò carrozza, accompagnato da fischi e risatine di scherno. Proseguì ancora finché non trovò posto nell'ultima carrozza in coda. S'adagiò mollemente sul sedile e poi assaporò il graduale rilassamento del corpo. Prese a massaggiarsi le tempie per quietare la solita dannata emicrania che gli cresceva in testa come una marea, quel tipo di emicrania bruciante che, di tanto in tanto, nei momenti di maggior nervosismo, lo affliggeva come una lama rovente. Capitava ormai da diverso tempo. - Una banale "cefalea da tensione" - gli aveva spiegato il medico di famiglia, un attempato azzeccagarbugli dalla perenne abbronzatura color biscotto. Riguardo invece a quello che era successo poco prima, Mario decise di assolversi perché, a suo giudizio, si era comportato civilmente. Come se fosse poi una colpa. All'inferno, si disse, cercando di rilassarsi sul sedile, lo sguardo fisso fuori dal finestrino mentre il treno s'allontanava dalla banchina. Certo, ripensandoci, quella bestia feroce di suo padre Matteo non sarebbe stato altrettanto conciliante, anzi forse avrebbe strappato a morsi la faccia di quel bestione. Ma suo padre era tutta un'altra storia. Mario preferì non pensare più a quell'episodio e si rilassò seguendo pigramente il panorama che pian piano iniziava a fuggir via nel finestrino. Nella carrozza molti si erano messi a sonnecchiare, o parlavano stancamente a bassa voce, altri invece si erano organizzati con tablet e PC portatili sulle ginocchia per un po' di "straordinario". Mario li osservava con un misto di fastidio e commiserazione, quel genere di sentimento riservato dai monaci anacoreti al resto dell'umanità sempre indaffarata in cose futili. Lasciamoli fare, pensò. Meglio allentare la cravatta e farsi un'oretta di sonno agitato, sperando che non si verifichino incidenti, ritardi o maledetti suicidi sui binari. Con un gesto automatico prese l'mp3, tirò fuori i soliti auricolari e poi si sparò al massimo nei timpani I still haven't found what i'm looking for. Proprio come diceva Bono Vox nella canzone, anche Mario non aveva trovato quel che cercava, piuttosto si era accontentato di quello che tutti infine bramano disperatamente: un po' di sicurezza. Tutti sono disposti a barattare la felicità con la sicurezza, pur di sopravvivere. Una sicurezza che, a lungo andare, lo stava logorando. La sicurezza ti taglia via gli attributi, penso, ma è il prezzo di una vita regolata, fatta di lavoro, vacanze nei week-end e shopping compulsivo che gratifica l'ego degli schiavi moderni. Gli acquisti su Ebay e su Amazon, erano diventati per Mario, come per tanti altri, una sorta di eutanasia mentale. Perché farne a meno? E perché vergognarsene? L'alveare è pieno di api industriose, e io, concluse, sono soltanto un'altra ape industriosa: lavora, mangia, dormi e poi lavora ancora. Ma abbi pazienza, non disperare, Mario, si disse, sii ottimista. Un infarto o un bel cancro possono salvarti da tutto questo!
- Sì, sì - , mormorò tra sé ridacchiando, - sono il fottuto topo che corre sulla ruota... -
E così, scivolando nel quieto torpore del dormiveglia, un po' sorridendo e un po' maledicendo il mondo e l'umanità intera, Mario riservò un pensiero speciale alla sua ragazza "Lizzy", alias Elisabbetta, alle sue forme invitanti, al suo sorriso caldo. Le uniche cose che riuscivano a consolarlo. Pensò ancora un po' a lei, sciroccata segretaria in un'azienda di trasporti alla periferia di Tuscania, pensò al tempo passato insieme, alle vacanze, ai giochi sotto le lenzuola, alle mille distrazioni che si erano concessi per ingannare la vita. Pensò alla felicità condivisa come a un'efficace droga anestetica. Eppure, dietro a quei momenti di leggerezza, condivisi nei week-end per via della distanza e del lavoro, si celava il ricordo di qualcosa che si era abbattuto nelle loro vite con la potenza distruttiva di una cometa. Una cosa banale ma allo stesso tempo terribile, come può esserlo un incidente stradale. L'incidente in cui Marina, la madre di Lizzy, aveva perduto la vita.
La cometa si era abbattuta in una fredda serata di fine inverno. Marina, contabile in una ditta parastatale, aveva tardato per ricontrollare alcuni bilanci. Le strade erano zuppe di fanghiglia per via di un diluvio che flagellava il centro Italia da parecchie ore. Era stata una giornata estenuante e Marina ne era uscita provata. Ma il camionista che veniva dalla corsia opposta doveva esserlo anche di più. Non era ubriaco, ma aveva bevuto quel tanto che bastava per intorpidire i sensi. A una curva mal segnalata, il tir invase la corsia opposta e Marina non ebbe nemmeno il tempo di frenare. Il tir centrò in pieno la sua Fiat accartocciandola come un foglio di carta. I vigili del fuoco impiegarono mezz'ora per tirarla fuori ma per Marina era già troppo tardi. Quella misteriosa alchimia che chiamiamo "vita" se ne era semplicemente andata, così, in un istante, come uno schiocco di dita. Dopo la tragedia Lizzy aveva cercato di mostrarsi forte, ma nei momenti in cui lei e Mario restavano da soli esplodeva tutto il suo dolore e la sorda frustrazione per una tragedia vissuta come un'ingiustizia insopportabile. In quei momenti Mario non poteva fare altro che tenerla a sé stretta stretta, come se cercasse di proteggerla da un'oscura minaccia, qualcosa di invisibile che incombeva su di loro.
Dopo aver sepolto la madre, Lizzy non si interessò al processo penale del camionista per "Omicidio stradale". Potevano infliggergli l'ergastolo o assolverlo, non le importava. Marina non sarebbe tornata indietro dalla sua fredda tomba. Il resto per Lizzy era rumore di fondo. I famigliari rimasero scossi da quella indifferenza, ma Mario no, poteva capirla. Una parte di Lizzy era morta e lui doveva cercare di salvare quel che restava. Perciò le dedicò tutta la vita; e presto, si convinse Mario, molto presto sarebbero riusciti a conciliare i loro impegni lavorativi per vivere insieme. Lo giurò all'orecchio di Lizzy, una Lizzy fredda, rigida, il giorno del funerale di sua madre, sotto un cielo basso e scuro che li tormentava col gelo liquido della pioggia. Quel triste giorno erano tutti presenti, immersi nell'umida penombra sotto le nubi, parenti, amici e conoscenti. Non mancava nessuno. Erano tutti presenti eccetto lui, il grande segreto... il padre di Lizzy.
Su quel particolare argomento, Mario aveva captato solo dei sussurri, brusii indecifrabili fra le mura domestiche di Marina e Lizzy nel loro appartamento alla periferia di Tuscania. Ma tutte le famiglie hanno i loro segreti; spesso si tratta di stupidaggini, episodi imbarazzanti che si tengono nascosti in attesa che il tempo li cancelli. Il padre di Lizzy però rappresentava qualcosa di diverso, era come una nube che incombeva nel cielo sereno delle loro esistenze. Lizzy e Marina non parlavano mai volentieri di quell'uomo e Mario non era certo tipo d'avventurarsi in territori così ostili. "Sarà uno stronzo come mio padre Matteo", aveva concluso all'epoca, senza troppa fantasia.
Il controllore si accostò a Mario e lo toccò sulla spalla, ridestandolo dal dormiveglia affollato di ricordi. La mano nella tasca e il consueto gesto per esibire l'abbonamento; la fredda e distaccata ritualità di un carcerato. Mario diede poi un'occhiata all'ora. Ancora venti minuti. Poteva dormire un po' e magari sognare una vita spensierata, sì, in qualche paradiso terrestre, un'esistenza libera e felice con Lizzy. Distese le gambe, reclinò la testa e chiuse gli occhi. Cinque minuti furono sufficienti; il respiro si fece lento e regolare, la coscienza scivolò di nuovo nel torpore. Lo smartphone prese a vibrare, ma Mario era altrove, non poteva sentire. Lizzy lo conduceva per mano attraverso morbidi prati di erba canina e tarassi, su una montagna assolata, sotto un cielo limpido e azzurrino. In un attimo si ritrovarono immersi in quella verzura soffice, profumata, accarezzati dal vento mentre il sole occhieggiava pigro tra le nubi. Si guardavano l'un l'altra giocando con i loro corpi. Erano sorridenti, sudati, liberi da ogni male.
Ma qualcosa... qualcosa d'oscuro, un essere imponente, ai margini di una foresta buia e intricata, li spiava morbosamente. Una creatura minacciosa, irrequieta, che se ne stava in disparte, nascosta nel buio più profondo. Tormentava la corteccia di un albero graffiandola con lunghissime unghie affilate, mentre spiava Mario e Lizzy col suo sguardo gelido e nero d'abisso.
E intanto, un feroce sorriso cresceva tra le sue labbra...

Appena Mario infilò la chiave e la girò nella toppa, si rese subito conto che sua madre Serena era rientrata in casa. Masticò un paio d'imprecazioni. Era appena tornato da una mezzora di jogging (la prima dopo settimane) che gli era quasi costata un infarto. Non se la sentiva di affrontare il solito match con una veterana della guerriglia verbale. Scivolò in casa silenzioso come un ladro e poi richiuse la porta, molto adagio. Andò subito in punta di piedi verso la camera cercando di evitare gli agguati che lei poteva tendergli. Nel suo procedere silenzioso, come un killer della mala, Mario non si interrogò neanche più sull'origine dei dissidi con sua madre, sulle piccole liti che, col passare degli anni, erano degenerate in scontri sempre più sanguinosi. Raggiunse la camera sano e salvo, ma anche snervato, desideroso soltanto di una bella doccia calda e di una lunga dormita che somigliasse a una piccola morte.
Appena dentro, al sicuro, Mario si lasciò cadere sul bordo del letto, pronto a togliersi le scarpe da ginnastica che erano diventate tutt'uno con i piedi infradiciati di sudore. Aveva appena sciolto il primo nodo quando sua madre irruppe nella camera.
- È troppo disturbo per te salutare? - lo aggredì lei, col viso contratto, arrotolato, come il muso di un pitbull ringhiante. - Entri e ti barrichi subito in camera da letto. Non parli. Non saluti. Non capisco mai che cosa pensi. Dio mio, non so neanche se sei veramente qui... -
Mentre lei attaccava con la solita manfrina, un letale miscuglio di passività-aggressività, Mario pregò Dio di perdere la capacità uditiva per un po' di tempo. Venti minuti sarebbero bastati. Ma la grazia divina non arrivò e sua madre lo mise in croce delicatamente. Gli anni vigorosi dell'adolescenza, in cui riusciva a darle battaglia, a tenere testa, pur senza capire il livore di lei, erano passati ormai da un pezzo. Mario si sentiva troppo stanco, demoralizzato. "Vecchio di secoli", amava prendersi in giro con Lizzy, scherzandoci su. E anche sua madre, a dispetto dei suoi misteriosi rituali femminili per l'eterna giovinezza, pareva invecchiare inesorabilmente. Merito dell'odio reciproco, concluse. L'odio può rovinare la pelle più dell'alcol e del fumo.
- Per te - riprese Serena col volto livido - è troppo disturbo anche ascoltare? -
- Suvvia, non ricominciamo. Sono sfinito. Ho fatto due ore di treno e mezzora di metro, otto di ufficio, almeno due di incazzature coi dirigenti. Non ho nemmeno la forza di mangiare. -
- E che vuoi fare, digiunare? Qualcosa devi pur mangiare! -
- Basta con questa ossessione per il cibo. Sembri tua madre. -
L'epressione di Serena passò dal livore all'avvilimento. Il ricordo della nonna era sempre doloroso, per lei. Un colpo basso. Senza neanche guardarla Mario smise di denudarsi. - Allora - chiese con un sonoro sbuffo - te ne vai fuori sì o no? Oppure devo finire lo spogliarello? -
Nel volto contratto di Serena si rincorsero frustrazione, stanchezza, livore e solo Dio sa cos'altro. Alla fine ricambiò suo figlio con uno sguardo sdegnato.
- Complimenti, Mario, davvero - replicò tetra. - Sei diventato esattamente come tuo padre. -
A un colpo basso sua madre aveva risposto con un colpo ancora più basso, un uppercut ben al di sotto della cintura, di quelli che lasciano in ginocchio. Paragonarlo così a suo padre... Il peggior insulto in assoluto. All'ennesima provocazione, sommata a molte altre per mesi, anni, da quando lui era scomparso nel nulla, Mario non seppe più trattenersi. La inquadrò con due occhi che sfumarono all'improvviso nel nero assoluto, come tal volta accadeva, come tal volta Serena stessa notava con disagio. Così simile... così simile...
Con un ringhio animalesco le disse: - Davvero vuoi litigare, Serena? Strano. Sai, pensavo che ti fossi avvelenata abbastanza con quel pazzo bastardo di tuo marito. Pensavo vi foste divertiti abbastanza con la guerriglia in casa. Le urla, le cattiverie, le ripicche... tutto il male che vi siete fatti... e che aveta fatto a me... -
Di colpo la faccia di Serena sembrò crollare in tanti pezzi, come un puzzle cui veniva tolto un tassello alla volta. Gli ultimi caddero a terra con la sua speranza.
Non si dissero altro, forse perchè non c'era nient'altro da dire. Uno spettro maligno, le cui risate echeggiavano da un luogo sinistro, aleggiò ancora un po' nella stanza prima di dissolversi. Ma sapevano che prima o poi sarebbe tornato. Andando via Serena non guardò nemmeno suo figlio, non lo salutò neppure. La porta si aprì e si richiuse mentre Mario si massaggiava un momento la tempia. Quelle fottute emicranie andavano e tornavano, salivano in picchi e poi svanivano con la regolarità ciclica di una giostra. Che altro poteva fare? Semplice: finire di spogliarsi e, nudo come un verme, girarsi verso la parete e prenderla a testate, ripetendosi "fottuto animale coglione imbecille testa di cazzo e ancora una volta animale". Dopo l'ultima testata Mario s'appoggiò coi palmi alla parete e cercò di scacciare la spiacevole sensazione di somigliare davvero a suo padre. Quando la fronte finì di dolergli, passando dalla rabbia all'irritazione per essersi fatto fregare ancora una volta dall'atteggiamento passivo-aggressivo di sua madre che lo faceva passare per un prepotente, allora, solo allora, sgusciò fuori dalla camera e filò in bagno. Si chiuse a chiave dentro e poi si maledisse altre cento volte per quelle scene del cazzo, così assurde, snervanti, che doveva sopportare sua madre a settant'anni e lui a trenta suonati. Era così umiliante. Anche se la guerriglia tra loro era una barzelletta rispetto alla guerra vera e propria che suo padre aveva dichiarato contro tutto e tutti. Al lavoro, per strada, ovunque. Contro il mondo. In casa invece era solitamente taciturno e indecifrabile. Come se non ci fosse. Gli unici ricordi che Mario aveva di suo padre era quando da piccolo lui gli raccontava quelle storielle assurde, a metà tra l'orrore e la favola nera, su mostruose creature aliene, demoni o divinità di un mondo lontano chiamati gli Abitatori. Strane storie che quello stronzo si inventava per spaventarlo. Per il resto suo padre era troppo preso dai suoi molteplici passatempi, come montare il veliero in legno di noce rimasto in garage, rimettere a punto la vecchia Honda da enduro, leggere i suoi preziosi classici ancora impilati nello studio, o guarda-re gli incontri di boxe in tivvù. Qualunque stronzata, pur di non passare del tempo insieme a loro.
- Vattene all'inferno tu e le tu stronzate, papà - sputò fuori Mario aprendo il rubinetto del lavabo. - Vai all'inferno di cuore, sì, ovunque tu sia. - E ficcò la nuca sotto il gelo liquido.
Rialzò la testa infradiciata e si guardò allo specchio. Eppure doveva ammetterlo: una certa somiglianza, purtroppo, c'era. Le orecchie un tantino a sventola, il naso leggermente camuso e poi... gli occhi. Il medesimo taglio allungato. Anche lo stesso colore di foresta, tra il verde e il marrone, a seconda dell'angolazione della luce.
- Ma solo questo, perdio - si rincuorò Mario ringhiandosi addosso nello specchio.
Del carattere taciturno e morboso di suo padre per fortuna non aveva preso nulla, zero assoluto, ne era certo. Il suo vero problema se mai erano le "emicranie nervose" che da tempo lo affliggevano. Nient'altro. Per quelle però bastavano chili, anzi quintalate di aspirine. Aspirine, aspirine e nient'altro che aspirine. Aspirine per le emicranie e per i cattivi pensieri. Tutti hanno dei cattivi pensieri. Gesù cristo, pensò Mario, chi è che di tanto in tanto non odia suo padre e sua madre? A volte vorrei strangolare Serena, lo giuro, pensò, ma è soltanto un attimo. Un brutto pensiero. E i brutti pensieri passano... come le emicranie.
O no?
Ma sì sì, certo che passano, si disse. Nonostante tutto quello ch'era successo, nonostante i misfatti di suo padre e i tormenti a cui l'aveva sottoposto sua madre, tutto alla fine sarebbe passato. L'odio e i pensieri cattivi. Tutto passa, soprattutto dopo una bella doccia calda.
Non ci pensò oltre; e dopo qualche secondo Mario era già nel box, sotto il sifone, dove il getto tiepido lo accarezzava come una mano misericordiosa. Lasciò che quel tocco fluido gli massaggiasse prima la nuca, poi la schiena, il braccio, infine il polso, sempre lo stesso, ancora dolorante per quel maledetto infortunio. Col pugilato aveva chiuso da diversi anni. Merito di un incidente stradale, quando, a una curva mal segnalata, era stato sbalzato via dalla moto di un amico per atterrare rovinosamente sull'asfalto, fratturandosi il polso in cinque punti. Non aveva mai recuperato del tutto e così aveva dovuto abbandonare il pugilato, proprio quando stava per iniziare con gli incotri da dilettante. Qualcosa di simile era successo anche a suo padre, durante una sessione d'allenamento in cui un professionista l'aveva colpito allo sterno provocandogli una microfrattura che non si era mai rimarginata bene. Un'altra assurda coincidenza nelle loro vite, forse la più bizzarra a pensarci bene. O forse... forse non era stata una coincidenza. Forse s'era trattato di un inconscio desiderio d'emulazione. Sì, col cazzo, si disse seccamente Mario, ricordando che sua madre aveva ringraziato Iddio per quel provvidenziale incidente. Lei odiava il pugialto. Ed era contenta che quella disgrazia l'avesse allontanato da un'altra sgradita eredità paterna.
Che l'incidente sia stato provvidenziale o no, rifletté Mario, mi ha privato di una delle poche cose che mi facevano stare bene. Adesso doveva accontentarsi di correre al parco sotto casa e ogni tanto di tirare qualche cazzotto al sacco da boxe in garage, ma non più di venti minuti, altrimenti l'osso carpale iniziava a gridare vendetta. Per fortuna che a consolarlo c'era Lizzy.
A proposito...
In camera stava squillando lo smartphone. Doveva essere lei, a quest'ora.
Legandosi l'asciugamano in vita Mario uscì rapidamente dal bagno ed entrò in camera da letto. Prese lo smartphone e accettò la chiamata.
- Salve - , disse con un tono impostato, - ho chiamato prima questo numero che ho trovato sul sito Giovani escort. Ho chiesto di "Samantha che fa tutto per euro cinquanta". È disponibile? -
- È disponibile quella vacca di tua sorella, maniaco sessuale - replicò Lizzy, smorzando una risata. - Senti, a parte adescare giovani escort, che stai facendo? -
La voce di Lizzy era calda e allegra come il giorno in cui si erano conosciuti, in quel bar di Viterbo frequentato da studenti, dopo una lezione di storia classica alla facoltà di Lettere.
- Ho appena finito di fare la doccia - le rispose.
- Cena? -
- Non ho fame. Sono sfinito. -
- Colpa del treno? -
- Colpa di mia madre. Ha deciso di mettermi in croce coi soliti chiodi arrugginiti. -
- La solita guerriglia casalinga? -
- Più o meno. Il Vietnam in confronto è stato una gita per pensionati. -
- Eddaiii. Ci sono morti e feriti, piuttosto? Devo chiamare il 112? -
Scherzare con Lizzy era l'unico vero analgesico capace di curare i suoi tanti mali, dalle emicranie alle nevrosi di Serena. Una piccola magia alchemica.
- Tranquilla, tranquilla - , riprese lui, - tutto bene. Sono fisicamente integro. -
- Sicuro che non ne vuoi parlare? -
- No, tutto a posto, fidati. -
- E vabbe'. Il lavoro invece? Com'è andata? -
- Al solito, mi sono divertito come un pazzo. Ma che me lo chiedi a fare? Lo sai che quel lavoro è una gran rottura di palle. -
- Ah, ma sei impossibile! Ti posso chiedere almeno com'è andata col treno? -
- Miracolosamente bene. Niente da segnalare, a parte... -
- A parte? -
- Niente, un bestione che mi ha fregato il posto all'ultimo momento. -
- Sei rimasto calmo, spero. Sai che non vale la pena di discutere per certe stupidaggini. -
- Sì, sì, sono stato un vero gentlemen. Mi sono spostato pur di evitare scenate. -
- Hai fatto bene. Non mi piace quando t'arrabbi. Di solito sei sempre gentile, ma a volte... -
- A volte? -
- Niente, è solo che... - Lizzy esitò un attimo e poi riprese. - Non ti offendere, ma certe volte... ecco... metti paura. Quando ti arrabbi ti vengono certi occhiacci scuri che... e poi quella voce... -
- Ma che cavolo t'inventi? - la interruppe lui ridendo. - Ho fatto pugilato, va bene, ma mica sono un violento. Non ho mai fatto male a nessuno. Da come parli sembro uno squilibrato! -
- Eddai, non prendertela. È solo che il tuo sguardo diventa... non so... freddo, cattivo. Per fortuna però passa subito e torni lo scemotto di sempre. -
Tal volta Lizzy era impressionabile come una bambina. Da parte sua Mario si considerava una persona assolutamente educata, pacifica, che cercava di evitare scontri e conflitti con il prossimo. Soprattutto se potevano causargli quelle dannate "emicranie nervose".
- Sì, sì, certo - , riprese lui ridacchiando, - giusto uno scemo come me può stare a sentire i deliri di una povera pazza come te. -
- Vedi? Siamo fatti l'uno per l'altra! -
Risero ancora, con complicità. Lizzy era sempre il suo miglior antistress. Prima di ricominciare a scherzare Mario sentì uno strano rumorio attraverso lo smartphone.
- Ehi - , chiese, - cos'è questo casino? Sembra il motore di un trattore. -
- Sì sì, è proprio un trattorino! - esclamò Lizzy con una vocetta da ragazzina.
- Oh no! Che palle! Sarà mica quella bestiaccia? -
- Sì sì. È proprio lui. È il gattone che fa le fusa. - Lizzy lo avvicinò allo smartphone. - Dai, facciamo una video chiamata. Così puoi salutare il gatto Nerone! -
In pochi secondi Lizzy convertì la telefonata in una videochiamata. Sullo schermo dello smartphone di Mario comparve il faccione del gatto Nerone schiacciato in qualche migliaio di pixel.
- Per carità, Lizzy - , protestò lui, - toglilo di mezzo. Voglio vedere te, non lui. -
Sparito il gatto Nerone, sullo schermo apparve una bella brunetta, dallo sguardo verde ipnotico e il sorriso caldo e luminoso. Lizzy era davvero una visione celestiale.
- Sesso telefonico? - propose Mario.
- Non ci pensare nemmeno. Sono troppo stanca e anche tu. E poi, non davanti al povero gatto Nerone. Potrebbe rimanere traumatizzato. -
- Maledetta bestiaccia. Prima o poi lo faccio fuori. -
- Mmh! Come sei acido! Guarda che sei tu ad avermelo portato a casa, ricordi? -
- Sì, me lo ricordo, l'ho raccattato per strada in un giorno di pioggia. La mia buona – e sciagurata – azione quotidiana. Ora mettilo via, o la prossima volta commetterò un gatticidio. -
- E va bene! Come siamo nervosetti! -
Messo giù il gatto, Lizzy, tornando a guardare Mario, sentì il bisogno di cambiare argomento.
- Senti, animalista - , riprese, - questo fine settimana vengo io? -
- Certo. Perché? -
- Be', sai, non vorrei incomodare tua madre. -
Era sempre la solita storia. "Incomodare tua madre". Certe volte a Mario sembrava quasi una scusa di Lizzy per non vedersi, come se avesse qualcos'altro da fare. Un atteggiamento che lo innervosiva. E quando Mario s'innervosiva con la sua ragazza...
- Senti, Elisabetta, dacci un taglio con questa stronzata! Non ti va di venire da me? Basta dirlo. Ma non c'è bisogno che tiri sempre fuori questa scusa. -
- Ahi, ahi - sospirò lei. - Mi hai appena chiamato per nome. Elisabetta. Di solito lo fai quando sei arrabbiato con me. -
- Non sono arrabbiato. Solo... -
- Cosa? Coraggio, dillo. -
- Ho voglia di vederti. -
- Mi piace quando lo dici. -
- E a me piace quando gongoli come una ragazzina cerebrolesa perché te l'ho detto. -
- Accidenti, ho fatto una figuraccia - ridacchiò lei.
- Tranquilla, che ti farai perdonare - le assicurò Mario ripensando alle scene bucoliche mentre dormiva in treno. - A proposito, ho sognato noi due. Eravamo stupendi. -
- Ah sì? E dov'eravamo? -
- Su un magnifico prato in mezzo alle montagne. -
- Come sei scontato. E cosa facevamo? No, aspetta... ci arrivo da sola. -
- Bella e intelligente. Che altro posso chiedere dalla vita? -
- Niente. Però sei monotematico! Pensi sempre a quello! -
Risero ancora, guardandosi l'un l'altro attraverso i pixel dello schermo.
- Ci penso eccome, tesoro mio. E non sono l'unico. Anche stavolta non eravamo soli - ricordò Mario ad alta voce. - Anche stavolta c'era lui... -
- Ancora quella presenza nascosta? -
- Sempre lui. Il guardone del mistero. -
- Lascia stare. Sai, certi sogni sono assurdi quanto inquietanti. È difficile interpretarli. Che sia una cosa alla Freud o alla Stephen King, di sicuro è una stronzata su cui non devi fissarti. -
Forse aveva ragione Lizzy, anche se era una cosa che capitava ormai da diverso tempo. Nei sogni di Mario si insinuava spesso una strana presenza. A volte rimaneva in disparte per spiarli, altre invece sembrava dar loro la caccia, ma non riusciva mai a vederlo chiaramente. Poteva solo... percepirlo. Sì, forse aveva ragione lei. Che si trattasse di qualche ansia irrisolta alla Freud, o di qualche presenza fantasmagorica alla Stephen King, era comunque una stronzata priva di alcun senso. Una cosa su cui non avrebbe dovuto fissarsi.
- Ha ragione lei, cara la mia psicologa - concordò Mario. - Chissenefrega di quello che mi rappresenta questo guardone. Ho già abbastanza problemi con la gente reale. -
- Conclusione ragionevole. Ora, da bravo, vai a cenare. Poi sdraiati sul letto e pensa intensa-mente a noi due. Nudi e avvinghiati. -
- Sì, bella pensata, così non chiudo occhio. Dai fammi andare, si sta facendo tardi. -
- D'accordo, amore. Ci sentiamo domani. Buonanotte. -
Si scambiarono un bacio attraverso i cristalli dei display. Prima di attaccare, Mario vide le labbra carnose di Lizzy sullo schermo, poi il suo volto, il suo bel sorriso. Attaccarono... e l'immagine sbiadì nel nero. Quando posò lo smartphone Mario vide la sua faccia riflessa nello specchio della camera. La fissò con uno strano senso di déjà-vu.
- Non può essere - , mormorò tra sé, - no, è assurdo. -
Una sensazione assurda, per una somiglianza del tutto improbabile. Quella faccenda stava diventando sempre più un dramma kafkiano.
Nel mentre si stava facendo tardi e Mario era stanco, con un centinaio di ore di sono arretrato da recuperare. Doveva darsi una mossa perché l'indomani la giostra sarebbe ripartita come sempre alle prime luci dell'alba. Alzò gli occhi al cielo e proprio non poté fare a meno di dirlo.
- Gesù mio, ti prego... uccidimi... -
Le preghiere di Mario vennero interrotte dal brontolio del suo stomaco. Forse Lizzy aveva ragione, doveva mettere qualcosa sotto i denti almeno per quietare lo stomaco. Spense la luce della camera e, prima di uscire, si volse un attimo per guardare il buio. Attese, cercando di percepire se qualcosa si muovesse in quel buio così pieno di pace e privo di sofferenze. Fottuto idiota, si rimproverò, nella tua testa bacata, sì... è solo nella tua testa.
Chiuse la porta e poi se ne andò in cucina.

Matthew Arkham

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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