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Autore: Cristian Liberti
Novelle gucciniane. Volume I
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Novelle gucciniane. Volume I
Nell'ormai sconfinato insieme di articoli, recensioni, a volte anche sospettose, (ad inizio carriera ad esempio, Riccardo Bertoncelli) che hanno espresso un parere sui circa trenta dischi di Francesco Guccini, ne troverete centinaia e centinaia che ne parlano e ne raccontano le curiosità. Il premio Nobel Dario Fò, affermava che “nella sua opera c'è un discorso interminabile”. Ed interminabili saranno sempre le cose da scrivere sulle sue canzoni.
Non mi sono mai entusiasmato alle opinioni degli altri, seppur fatte da abili critici o esperti analisti. Personalmente ho sempre ascoltato i testi e la musica di Francesco Guccini, lasciandomi trasportare dalla sua allegoria, traslare da un piatto, dove facevo girare il disco in vinile, ad un luogo raccontato e mai visto, o addirittura immaginando di conoscere alcune personaggi descritti. D'altronde anche il Maestro afferma che “La canzone è una penna è un foglio così fragili fra queste dita, è quel che non è, è l'erba voglio, ma può essere complessa come la vita”. Insomma pur non discutendo l'onestà dei recensori, il tema non mi appassiona. Forse ho sempre preferito la raccolta dei testi, che magari svelassero le curiosità: potrei citare Stagioni a cura di Valentina Pattavina, edito Einaudi, o anche Francesco Guccini: il racconto di 161 canzoni, di Federico Pistone, edito Arcana o, per inseguire anche i nostri tempi, gli scritti di Antonio Morreale sul gruppo Facebook “Io Francesco Guccini”.
Mi è sempre interessato quello che di più aderente c'era al testo della canzone. Sapere, ad esempio, che S.F., canzone per un'amica, che ha sempre aperto i suoi concerti, era Silvana Fontana, deceduta in un incidente stradale, che il Frate esisteva davvero, che andare via a culodritto, vuol dire offeso. Poi un giorno ho pensato a Guccini, mentre scriveva i suoi testi, i suoi appunti, strappava ed aggiungeva fogli, cancellava e ripassava con la penna ed ho pensato che quelle canzoni, come i suoi meravigliosi romanzi e racconti, potessero esplodere in altre centinaia di parole.
Allora nel giorno dell'ottantesimo compleanno, di Francesco Guccini, decisi di scrivere una serie di racconti liberamente ispirati alle canzoni del MAESTRONE.
E da quel giorno ho continuato a scrivere ed alla fine ho deciso di pubblicare.
Diciamoci la verità, quelle del cantautore (sostantivo limitativo) non sono mai state solo canzoni: vere e proprie storie, racconti, immagini, pensieri che spargevano sapere, ed in alcuni casi, aprivano alla cultura. Anche fatti di cronaca da lui sapientemente trattati, sono diventati sotto la sua penna, un genere letterario, che racconta, quasi minuto per minuto, l'evento in questione.
Francesco è stato sempre Guccini, anche nelle sue metamorfosi ha portato con sé la sua parte modificata e l'ha resa funzionale per il passaggio successivo: da cantante ad attore, da sceneggiatore di fumenti a cantautore, da professore a scrittore. E non tradendo mai, soprattutto la sua immagine. Della quale ognuno può avere la propria percezione, ma restava e resta sempre la stessa, come il faccione con la barba che ci annunciava un suo concerto. Una volta in uno di questi mi sono preso anche una strigliata (A sedere!) insieme ad un migliaio di partecipanti.
Possiedo quasi tutti i dischi in vinile e tutti i libri scritti da Francesco Guccini (anche alcuni di quelli elaborati a quattro mani) e pensate che ho voluto imparare a strimpellare la chitarra, alle soglie dei quarant'anni, solo per far ancor di più mie le sue canzoni (che logicamente, canto, quasi tutte, a memoria). Ho conosciuto il maestro, grazie ad uno zio giovane ed al mio primo fratello maggiore, che ero un bambino, ma, in realtà, ho cominciato ad approfondire l'argomento nel 1987, quando consumavo il disco “Signora Bovary”. Pensate il primo disco, mio personale, e si trattava di Guccini (1983), me lo hanno regalato in un convento di frati cappuccini, dove stavo facendo un campo scuola, con l'azione cattolica della mia città.
Ma tornando al maestro, è proprio da una delle canzoni del disco Bovary (delle quali tutte potrebbero diventare un romanzo, anzi che piccole mie novelle) che ho cominciato questo mio esperimento, divenuto poi in corso d'opera, quasi una necessità. La canzone in questione è Keaton.
Scritta con Claudio Lolli, che inizialmente aveva creato un particolare album tematico proprio sul cinema, insieme ad altre canzoni, è una sovrapposizione di parole ed immagini che aprono la mente, oltre che il cuore. E poi, a mio parere, ci voleva proprio Keaton: un personaggio muto per cominciare a scrivere. Un personaggio muto per cominciare a raccontare. Insomma un personaggio, molto gucciniano.
Le novelle continuano con la Canzone per Silvia (Baraldini), persona nota per le sue vicende oltreoceano, per continuare con una persona, ai più, meno nota Mario Pieraccini, ma da tutti meglio conosciuta come “Al Fra”, ovvero il frate. E poi ancora Ritratti, con le parentesi di Cristoforo Colombo, Piazza Alimonda e la storia di Carlo Giuliani, Antenor con la suggestione della steppa patagonica, Primavera di Praga con l'eroe Jan Palach, Canzone per Piero con il racconto di un'amicizia nel tempo, Su in collina con ragazzi giovani che hanno dato la vita per la democrazia, Samantha ed il suo giovane è sfuggente amore di periferia ed infine Stefania e la sua città, appoggiata sul mare.
Insomma tutti i personaggi che Francesco Guccini ci ha fatto conoscere, a modo suo, tracciando sullo sfondo i loro luoghi, dove si muovevano: l'America, Milano, Praga, Genova, Venezia, l'Argentina, gli appennini tosco – emiliani.
Logicamente tutto questo nasce, come un gioco, che come quelli per i bambini non ha la pretesa di alcun fine immediato, se non quello dell'intrattenimento o magari per provare a dilatare quelle che sono le sensazioni quando si ascolta una canzone di Guccini.
Le scuse finali al Maestro sono dovute nell'eventualità il progetto dovesse risultare insolente.

KEATON
Il sorriso è l'arma di difesa e di offesa più potente di un qualunque esercito si possa immaginare. È come un abito casual che all'occorrenza puoi adattare ad una mise classica o una sportiva. È contagioso come un raffreddore in un asilo nido e si espande più velocemente del vento che accarezza spighe di grano, ormai mature. È splendente come una stella in un buio non inquinato ed è sfiancante come quando ti spegni, dopo una lunga bevuta tra amici. L'esistenza, di una qualsiasi persona, in qualsiasi parte del mondo, è piena di sorrisi: dolci ed amari, di gioia ed anche di paura, veritieri ed ironici, profondi e superficiali, acuti e bistrattati. Nonostante questa scontata considerazione, trovi sempre qualcuno che ride, che non riesce né ad arcuare le labbra, né ad emettere nessun suono. Nessuna mimica facciale, se non a stento occhi che si socchiudono come a mettere a fuoco, qualcosa di poco chiaro e flebile. O forse suoni impercettibili, se non ai quattro zampe.
Ed il nostro amico Claudio era proprio uno di quelli. Noi, invece, eravamo in quella fase della vita durante la quale, bastava guardarsi negli occhi, magari di riflesso attraverso il vetro di bicchieri di vino, per ridere. Dicono che gli anni tolgono il sorriso: allora significa che sono stati anni sprecati o comunque vissuti male. Personalmente le persone che ridono tanto o cercano di farlo fare, spesso mi annoiano, ma questo non vuol dire non riconoscere alla risata, in alcuni momenti, tasselli culturali. Basterebbe citare i sorrisi che vengono fuori da una commedia di De Filippo o da una considerazione gaberschiriana. O perché no, da un'azione keatoniana. Ecco lo chiamavamo proprio cosi, Keaton. Un uomo con pochi sorrisi, ma che te ne faceva fare tanti. Un uomo che ti faceva strapazzare dal ridere nonostante fosse sempre vestito, della sua stropicciata malinconia. Keaton, l'unico vero e grande attore di cinema muto. Ma noi lo chiamavamo solo Keaton, senza il nomignolo, Buster, affidato, a quello originale, per i suoi capitomboli, dal mago Houdini. Almeno leggenda così narra.
Il nostro, invece, non cadeva quasi mai. Anche nel cadere ci vuole una certa elasticità fisica e lui non ce l'aveva. Era alto, snello, lineare, schiena dritta e testa alta e quando talvolta si abbassava, sembrava volesse sorreggere il mondo, come il mito del titano Atlante. Ma l'unico mondo che poteva sorreggere a stento era quello dei suoi guai. Più di una volta mi aveva raccontato di aver suonato per strada per racimolare i soldi per un piatto caldo ed un letto pulito. E forse quella sera al Park Club, locale dove ci esibivamo alle tre del mattino e dove l'ho visto per la prima volta, forse oltre ad un pasto caldo, aveva cercato riparo dalla notte, preferendo quelle ex poltroncine da cinema degli anni settanta, a chissà quale pensione ad una misera stella.
Dopo il nostro ultimo pezzo, io avevo una voglia matta di andare a dormire, anche perché il giorno successivo avevo le lezioni private di chitarra con i miei ragazzi. Anche io non riuscivo del tutto a sostenermi con la mia fantasia e facevo di tutto. Mi si fece avanti questo signore con la barba fatta, ma male, cioè non sicuramente davanti ad uno specchio. Aveva in testa una specie di panama ingiallito dal tempo ed una giacca ed un pantalone che pareva ci avesse dormito dentro per qualche giorno. Ma la cosa che maggiormente mi colpì era quella malinconia infantile, che filtrava dal suo sguardo. Non sapendo dove metterle, infilò le mani in tasca, mi si avvicinò veloce e disse in modo diretto e quasi inducente, con venature di difesa: “Voglio suonare con voi”.
Io gli sorrisi, come se mi fossi trovato di fronte, una persona che avevo già conosciuto, ma in quel momento non individuato. Lui invece rimase serissimo e tirò fuori le mani dalle tasche e tolse immediatamente il panama dalla testa, stramazzandolo su di una poltroncina. Capii che non lo avevo mai visto, ma mi ispirò una totale simpatia e decisi di assecondarlo:
“Dai facciamo un pezzo”. E mi diressi verso il palco.
Sopra c'erano una chitarra, una batteria, un violoncello, un basso ed un pianoforte verticale Backstein, sul quale si catapultò immediatamente. Lo sfiorava sinuosamente come fosse il corpo nudo di una donna. A guardarlo sembrava un mobile vecchio da prendere a calci, con i tasti macchiati dalle dita di un secolo di arrangiamenti di casalinghe, ubriaconi e forse sacrestani, ma era un prodotto di ingegneria tedesca, con la finitura a mano della parte acustica. Prima di sedersi, quasi ci parlò e sembrava volesse giustificarsi. Poi suonò due volte il sol. Io nel frattempo, mi ero seduto, di fianco e tenevo sotto il braccio la mia chitarra come se fosse un libro pesante. Non ci guardammo mai. Si sedette e subito cominciò. Fece un'introduzione tipo you go to my head di Billie Holiday e dopo qualche urla di approvazione dalla platea, sorrette da fischi di incitamento, io cominciai a battere il piede e pizzicare le corde. Sembrava che in quel momento, nel mondo, ci fosse solo la nostra musica o meglio quello che stavamo suonando. Non avevo mai avvertito un silenzio così profondo nel club ed avrei suonato sino all'alba, ma dopo un po' lui fece chiusura ed io lo accompagnai. Non ci furono scroscianti applausi, anche perché, compresi musicisti e personale del locale, eravamo rimasti una trentina: ma tutti annuivano e qualcuno gridava con entusiasmo. Grazie a quella spedita esibizione ci guadagnammo qualche comparsata e poi ci spostarono ad inizio serata. Lui amava fare giass, proprio come diceva lui: giass. Guai a chiamarlo jazz. Ed io dietro di lui mi ci appassionavo e mi sentivo coinvolto. Come coinvolgenti erano le nostre discussioni, quando la sera non suonavamo. Andavamo in quei vecchi bar di provincia, aperti sino a tarda sera, perché cercavano di incassare quello che di giorno non riuscivano a tirare su. Cominciavamo a discutere sempre di politica.
“Ma che c'entra sono anche io un Socialdemocratico!”
“E tu credi che si possa arrivare alla democrazia, attraverso il socialismo?”.
“Certo. È l'unica strada”.
Lui tirò fuori dalla tasca una sigaretta a metà, spenta mezz'ora prima.
“Non esiste una strada per la democrazia. Devi ficcartelo in testa”.
Fece una grossa boccata e riprese
“Tu credi di vivere in un Paese democratico?”.
“Possiamo arrivarci”.
“E come? Con il voto? Le opinioni delle persone”.
“Ora ce l'hai con il voto? Con le opinioni”.
Spense la sigaretta, ma rimise in tasca quello che gli era rimasto.
“Non è che io ce l'abbia con le opinioni, ma ritengo che possano essere un'arma pericolosa contro la stessa democrazia”.
“Addirittura”.
“Le opinioni sono come le orecchie, ognuno ha le proprie. La questione diventa complicata quando queste si uniscono e con convinzione, nel senso pretestuoso del termine, si trasformano in grandi verità. In un'opinione universale. Inoltre l'unione, l'insieme di più opinioni, molto più probabilmente che sicuramente, genera la sua figlia più vanesia, egocentrica ed a volte cinica e perversa ... la comunicazione. Spesso l'opinione è la prima pennellata verso la realizzazione del quadro, del complesso, ma spesso rappresenta l'opposto della verità. Anche perché spesso è condizionata dallo spazio e dal tempo”.
Io continuavo ad ascoltarlo, a testa bassa, giocando sul tavolo con i sottobicchieri di cartone delle nostre birre:
“Questo certo, ... non esistono verità assolute”.
“Ma oltre allo spazio ed al tempo è condizionato, anche da un altro fattore:”
Alzai la testa, ma prima di continuare aspettò qualche secondo e sorridendomi mi disse:
“Le persone e la loro cultura. Vedi, dove nasce l'opinione? La sua parte embrionale è sicuramente l'insieme di alcuni elementi: l'emozione è la scintilla, il sentimento è il combustore e la cultura il propulsore. Il tutto ha una metamorfosi nel momento in cui la comunichiamo. Anche perché se non lo facessimo, sarebbe riflessione. Nelle piazze, tra bestemmie di anziani, nei bar, tra i rancori di passati “io sarò” come facciamo noi, sui muretti, tra i sogni giovanili, o sui balconi, tra raccomandazioni materne. Lì nascono le opinioni, che poi si mescolano, si evolvono e in questo corso, diventano verità, unica verità, menzogna, oltraggio, grido di popolo o silenzio per sempre”.
Io sbuffai, ma lui incalzò:
“Ti faccio un esempio. La vedi la mia tromba.”
“Si, mi sembri l'Arcangelo Gabriele, con quella cosa”.
“Lascia perdere quello che sembro. Noi siamo come questo strumento. In principio c'è il fiato, che potremmo definire l'incipit.” Mise lo strumento in bocca e senza picchiettare con la lingua, soffiò. Ne venne fuori un suono stonato.
“Io ho fatto una cosa in modo diretto, sincero, eppure il risultato non è stato eccellente, se invece aggiungiamo altre componenti come le mani, la lingua, la conoscenza delle note, il risultato cambia”.
Accennò alcune note di una canzone
“Ho capito, che vuoi dire”.
“Le opinioni, soggettive, dirette, sincere, possono distorcere la realtà, figuriamoci quando poi si uniscono”.
Io annuii e poi cambiai discorso
“Ehi ma quella che hai suonato era di Lee Morgan ... aspetta com'era?”.
“Roccus, lato a, disco Indeed, millenocecentocinquantasei”.
“Grande Lee. Ho imparato a conoscerlo attraverso Wayne Shorter”.
Come un bambino mi prese le mani:
“Che insieme a Joe Zawinul suonava nei Weather Report”.

Cristian Liberti

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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