"È molto caldo. Ho caldo. Forse siamo vicinissimi al nostro astro. O forse perché avanzo con l'età e sopporto sempre di meno questa calura estiva. Beato il mio imperatore e beato chi può godersi le Feriae Augusti. Dicono che il viaggio per tornare in qualche luogo, è sempre più bello, più breve e forse più piacevole, ma in realtà è l'emozione, già contaminata dall'abitudine. Nel bene e nel male, la prima volta è sempre la più intensa. Credo che se potessimo morire più volte, anche la morte ci annoierebbe. E poi questa polvere, mi toglie il respiro. Che fastidio la polvere e pensare che sin dai tempi in cui gli Dei abitavano sulla terra, essa c'era. E ci rimarrà, anche sino a quando non ci sarà più vita. Non avrei dovuto accettare nessun consiglio. Essi sono appunto come i granelli di polvere: li trovi dappertutto, proprio quando non ti servono. Avrei dovuto prendere la via Salaria e non la via Flaminia. Avrei dovuto prendere, la vecchia strada essenziale per il mare. Già il fatto che non porta il nome, di nessun imperatore, di nessun artefice megalomane, mi è anche più simpatica. Ma Claudio mi ha consigliato la Flaminia: mi ha detto che era più sicura e confortevole. Se fossi andato per la Salaria, sarei già sul mare. Sarei già al municipio Castrum Truentinum, con la brezza marina ad asciugare le mie membra. Ed invece, mi trovo sperduto qui, in mezzo alle montagne tra Roma ed Ariminum, squallido avamposto bellico. Si anch'esso è sul mare, ma è troppo caotico. Il nostro imperatore ci ha fatto costruire anche un arco, in nome della sua Pax Augustea. Ma a cosa serve un arco senza porta? Una fornice così ampia? Solo per sorreggere la sua statua di bronzo? Che si sbrighino, almeno a costruire il ponte, affinché si possa agevolmente passare il fiume e poter prendere agevolmente la Popilia Annia”. Erano questi i pensieri che affollavano la mente di Tito Livio Patavium. Ed era diretto proprio a Patavium, con partenza da Roma. Erano quasi giunti a Nuceria Camellaria ed avrebbe fatto piantare lì la sua tenda, per la notte. Era inutile affrettasi alla meta, tanto anche le motivazioni erano già sciamate verso il mare. “Comunque è sempre stupido lamentarsi: la vita è il frutto delle proprie azioni. E l'azione ha sempre una conseguenza, altrimenti non sarebbe tale. Certo è che bisogna fare attenzione a quelle azioni che possono sovrastare le nostre e quindi modificare la nostra vita. Le azioni degli Dei, che poi sarebbero la loro volontà, sovrastano tutte quelle degli altri. Quella di uno schiavo, invece, a stento la sua”. Pallante al suo fianco, nel carro, leggendo delle carte, continuava a ciondolare per l'incedere delle ruote sulla quella strada di sassi. Ogni tanto annuiva alle parole del suo signore. La strada sprofondava tra colline ricolme di vegetazione. Su di un lato c'era erba prominente, che ad una certa altezza veniva sostituita da rovi. Più su, cominciavano i rami di giovani platani e si creava una parete naturale che trovava discontinuità solo negli slarghi creati, per far fermare le carrozze. Il più grande architetto del mondo resterà sempre la natura. Sull'altro lato terreni per lo più incolti come, d'altronde, quelli che si nascondevano dietro la parete di piante. Al bivio tra Asisium e Nucera, la visuale si apriva al cielo terso, ma con qualche cirro che sembravano graffi di angeli ribelli. “Pallante ti sarei grato se una volta accampati, non mi facessi vedere nessuno. E manda qualcuno a dire a Druso che purtroppo non potremo essere ospiti nella sua meravigliosa casa e nel suo Municipio, ma che ci accamperemo solo per riposare pochissime ore nella notte, per poi ripartire come il cielo comincia a sbiadire ad est. Digli che nell'Impero c'è la pace e non ci sono problemi. Ah, fai salutare tutte le famiglie dei Patrizi e manda a tutti un dono”. Scese lentamente dalla carrozza, mentre un gruppo di persone cominciava a preparare la tenda. Poi, passando lentamente una mano sulla fronte, come per disperdere la lieve patina di sudore, aggiunse. “Ah, per cortesia, non ti dimenticare di inviare dei denari per la costruzione del nuovo tempio. Non vorrei provocare le ire degli Dei, ma soprattutto degli umani, che forse sono peggiori”. Pallante prendeva appunti. Non ne aveva bisogno: la sua memoria era più forte del suo cuore e questa cosa rasserenava il suo signore. Un tempo era stato uno schiavo, ma era proprio grazie alla sua memoria, che era diventato un liberto. Con un cuore ed una memoria forte, vivi più a lungo e sei sicuramente anche più libero. Era nato ai confini dell'impero di quel tempo, figlio di un pescatore che tirava su le reti, quando il Mar Nero era in abbondanza. Quando l'imperatore Augusto conquistò la Moesia, rendendola una provincia imperiale, Pallante ancora adolescente, fu fatto schiavo e portato a Roma. Fu venduto e marchiato a fuoco nel mercato di schiavi dell'isola di Delo e quando Tito venne a conoscenza, della lingua che parlava, il greco, eredità avuta dalla madre, lo volle come insegnante nella sua dimora. Dopo qualche anno, lo stesso Tito avrebbe voluto liberarlo, dandogli addirittura in dote due sacchi d'oro, ma Pallante rifiutò. Riteneva che la libertà era semplicemente un fatto mentale e non fisico. Con gli anni accettò la condizione di Liberto e soprattutto divenne lo scriba personale di Tito. Tutto passava sotto la sua mano. Tutto, eccetto i suoi pensieri più intimi. Lentamente avvolse la pergamena e scese anche lui dalla carrozza: “Signore volete che vi faccia preparare qualcosa che vi rilassi o che vi distragga? Un bagno, qualcosa da mangiare, una schiava o uno schiavo?”. Tito continuava a fissare quei graffi nel cielo: “No, ti ringrazio. Rischierei di annoiarmi ancora di più”. Pallante stava per andare via, quando per la prima volta dopo diversi anni fu colto da un sentimento di pena. Pessima debolezza per chi vuole essere e rimanere libero. Mai aveva visto il suo signore sotto questa luce e mai aveva cominciato lui un discorso o aveva argomentato una situazione, ma in quella circostanza non riuscì a fermarsi. “Signore, ma è la lex Papia Poppaea, che vi turba e vi preoccupa? Perdonatemi, ma la scorsa notte, mentre ero in biblioteca a leggere e studiare, l'ho sentita agitarsi e dimenarsi tra il letto ed il patio”. Tito rimase una statua e la sua espressione era di totale smarrimento: “L'altra notte? Ah si, era l'altra notte... è vero. No, forse era a causa del caldo. E poi cosa vuoi che m'importi di rimanere celibe e di andare incontro a sanzioni o di vedere deturpata la mia eredità? Credo che questa cosa possa interessare più a te, che a me”. Pallante arcuò leggermente la bocca. “Signore io ho già avuto la più grande ricchezza che potessi chiedere e questo grazie a lei”. Abbassò leggermente la testa, socchiudendo gli occhi. Tito sentì i graffi del cielo dietro la schiena, che gli lacerarono il respiro: “Scusami Pallante, non era mia intenzione offenderti. Hai perfettamente ragione e forse in questo senso io sono più povero di te”. Il liberto rimanendo nella stessa posizione: “Maestro lei è uomo di cultura. Il nostro impero non ha mai avuto una persona del suo spessore. Lei è un pompeiano ed avrà sempre lo splendore nella sua vita, come nella sua storia: passata e futura”. “Non sarà così, ma ti ringrazio”. “Lei è il padre della Ab Urbe condita, un'opera imponente che non solo è servita a gente disinformata come me, ma servirà a tutti quelli che vorranno imparare per davvero, sino a quando ci sarà vita nel nostro impero. Tutti leggeranno, studieranno e si tramanderanno i suoi scritti”. “Come la favole”. Immediatamente lo freddò Tito, che per la prima volta, mostrava un sorriso ironico. “Signore, ma lei ha ricostruito la storia e ci ha tramandato dei fatti facendo ricorso...”. “...facendo ricorso spesso, al deus ex machina...”. Gli si avvicinò gli mise una mano sulla spalla e ricominciò a guardare il cielo: “Ti ringrazio Pallante, per quello che dici, dettato da quel sentimento di pena che provi per me e che leggo nei tuoi occhi, ma questa sera neanche gli Dei potrebbero sorreggere la mia anima. Fai fare quello che ti ho chiesto. Ci rivediamo alla partenza”.
Erano le 7 e 28 e nel giro di pochi secondi la radio sveglia digitale, avrebbe cominciato a suonare. O meglio avrebbe irradiato qualche canzone degli anni 80 che, a quell'ora del mattino, andava per la maggiore. Carlo era sprofondato sul materasso del letto da circa tre ore. Aveva fatto alcuni aggiornamenti per tutta la notte, al suo sito. O meglio, non era un sito e non era il suo. Si trattava del blog della sua compagna, ora giornalista freelance, dopo una gavetta in decine di redazioni. In questo blog, raccoglieva tutti i suoi articoli, i suoi approfondimenti, i suoi reportage, ma tanto era brava a scrivere, tanto era imbranata per il web. Ed in questo logicamente, Carlo, l'aiutava volentiri. Carlo Isidoro, di anni 32, lui invece ancora faceva il collaboratore di una piccola redazione in un giornale regionale. Anche loro erano sbarcati sulla rete, ma come tanti vi erano solo rimasti intrappolati, come degli stupidi pesci. I loro uffici erano stati ricavati da una ex sede, molto grande, di un sindacato nazionale: una parte l'avevano lasciata per farci un piccolo ufficio di patronato, mentre, il resto, lo avevano dato in affitto, appunto, al giornale. La libera scelta, questo il nome della rivista che il direttore, Alberto Ferrali, aveva vagliato per il suo cartaceo giornaliero Carlo si occupava della sezione culturale nel senso più ampio del termine. Il suo direttore riteneva che la cultura passasse da tutte quelle manifestazioni e quegli aspetti che possono insegnare qualche cosa. E quindi, spesso il nostro inviato, si ritrovava a fare il corrispondente in una sagra di paese, oppure la cronaca per un saggio di danza, la presenza per l'inaugurazione di un comitato o un'associazione per la salvaguardia o la diffusione di qualsiasi cosa. Quasi sempre, lui cercava di fare un lavoro storico, cercando di risalire alle radici di quella manifestazione, di ricostruire i fatti antecedenti e scoprire da dove derivassero. Ma accertarsi della differenza del brodo ottenuto dalle zampe di gallina o quelle di gallo, alla festa patronale della “La visione contadina”, era davvero un'impresa ardua, anche per lui. “Vamos a la playa oh oh oh oh oh, vamos alla playa oh oh oh oh oh”. Alle 7 e 30 in punto la sveglia aveva cominciato ad emettere il ritornello di una canzone. Carlo non ce la faceva ad alzarsi e praticamente strisciò sul pavimento cercando di alzarsi, arrampicandosi alla spalliera del letto. Ebbe giusto il tempo di fare un paio di sbadigli e di grattarsi leggermente la testa che la sua porta d'ingresso si aprì: era la sua compagna Eleonora. “Sei ancora in questo stato? Ma guardati. Spero che tu almeno abbia caricato tutti i dati sul blog?”. Carlo si sedette sul letto. “Buongiorno Eleonora, vedo che sei contenta di vedermi”. La ragazza inspirò, posò la borsa sul tavolo e cominciò ad ispezionare alcuni sportelli dei mobili della cucina, per cercare tutto l'occorrente per preparare una tazza di caffè. “Devo preparare un'inchiesta sull' immigrazione africana nel nostro paese: la dovrò corredare anche di foto, ... ma dove lo tieni il caffè?” Carlo si era tolto la maglietta e dava una controllata olfattiva alle sue ascelle “Nel frigorifero”. “Ma perché continui a tenerlo nel frigorifero”. “Perché è un alimento, mantiene gli aromi e comunque e l'unico posto dove le formiche non arrivano”. Eleonora riempiva il filtro della moka quasi come un'operazione di torchiatura. “Non è che mi dispiaccia l'argomento, anzi, ma dovendo approfondire ed appunto fare foto, dovrò spostarmi. E questo è un modo per tenermi lontano dalla città, dalla redazione. E mentre io sono al lavoro, qualcuno vorrà farmi le scarpe”. Carlo stava infilando i calzini della sera prima che aveva abbandonato nelle scarpe. “Magari le facessero a me, queste cominciano ad essere un po' vecchie”. La ragazza picchiettava il cucchiaino sui piattini del caffè. Carlo capì che era il momento per cercare di rassicurarla. “Ma dai, ma perché devi essere così: hai il tuo lavoro, la tua bella professione, hai il tuo blog ... hai un compagno come me”. E questa sua ultima affermazione l'accompagnò allargando le braccia: era in piedi solo con dei boxer morbidi e quei calzini, dal color grigio, che arrivavano sino a metà polpaccio. Lei crollò su di uno sgabello davanti alla cucina: “Carlo per una volta sii serio: la vita non può essere sempre un gioco. E poi guardati, ma quant'è che diventerai maturo?” “Quando sarò pronto per il salto” “Il salto?” “Eh si, quando si è maturi, si va giù: pronti per il salto”. Fece crollare la sua testa su di una mano: “È inutile. Hai aggiornato il blog? ” Si mise a rovistare alcune maglie che erano ammucchiate su quella che forse sotto doveva essere una sedia di fianco al letto: “Tutto bene, l'unica cosa è che devo ricevere l'aggiornamento di un plugin, per poter effettuare quelle modifiche che mi avevi chiesto all'aspetto di alcune pagine”. “Con te c'è sempre qualcosa”. “Sono un uomo dalle tante risorse”. “Comunque in questo caso non posso che fidarmi: non capisco nulla di siti”. Carlo ormai si era vestito, ma aveva un aspetto più trasandato di quanto si era svegliato. Si mise a spulciare dei documenti sulla penisola centrale della cucina: “Allora mi stavi dicendo del tuo reportage sull'immigrazione. Non sei contenta?” “Certo che sono contenta. Vorrei impostare il lavoro in questo modo...“ E mentre parlava Carlo, smise di sfogliare le carte e si pose ad osservarla, ma senza ascoltarla, così come faceva spesso. Ne era follemente innamorato. Erano due modi differenti lontani e divisi come due angoli alterni esterni. Lei era completamente presa da quella frenesia quotidiana tipica di chi vuole sempre stare con il piede sull'acceleratore: sempre in movimento. Aveva finito presto gli studi e ancor prima aveva trovato lavoro. Per come lavorava e per la professionalità e la passione che ci metteva, meritava davvero di diventare una grande giornalista. E poi usava un flusso razionale nell'articolare le frasi che pochi sapevano fare nel Paese. Lui computer, lettura, disordine a volte incompiutezza: era dotato di una perspicacia istantanea, ma spesso la utilizzava per la sua ironia e non per il suo operare. Si era laureato a stento con voti bassi, ma proprio perché riteneva di fare il minimo indispensabile: come in tutte le cose della sua vita. Della sua posizione lavorativa non si lamentava, anzi ne era quasi contento. Essere un lavoratore precario gli consentiva di fare altre cose, che logicamente, secondo Eleonora erano solo delle perdite di tempo. Un rapporto che secondo molti, a guardarli dal di fuori, non poteva avere né testa, né coda, ma Carlo immediatamente ripeteva che tutto ciò che non aveva né testa e né coda o era testa, o era coda. Infatti lui le ripeteva spesso: “Io e te siamo testa e coda di un corpo chiamato amore, che ancora ci sfugge, ma ben presto sarà nostro”. Lei era aggressiva, lui un pacifico, lei amava la quotidianità, lui era un nostalgico, lei aveva quasi sempre gli occhi bassi sul suo telefonino o sul suo tablet, lui era sempre con il naso all'insù, anche in uno sgabuzzino. Insomma all'apparenza sembravano opposti, ma quando diventavano intimi, oltre il corpo, anche le loro essenze si mescolavano in un'unica soluzione: una vera e propria fusione umana. E forse proprio questa è la prima cosa che si dimentica di un rapporto: quanto è stato bello essere intimi con una persona. L'intimità ci rende completamente umani e indiscutibilmente capaci di amare. Era meraviglioso per lui sfiorare la sua mente. Toccare una mente è assai più complicato che toccare un corpo, perché un corpo puoi stringerlo, ma una mente no. Una mente va dove vuole. Quando resta, una mente, vuole darti tutto, vuole darsi davvero. Oltre presenze e assenze, oltre distanze e vicinanze, oltre quello che puoi dire o non dire, fare o non fare. È ubiquamente tua. Sa sorriderti più delle labbra, quando si accorge che non vuoi possederla, ma prendertene cura. Possesso è l'esatto contrario del prendersi cura. Ed è questo il miracolo profondo, il senso denso di un vero incontro. Questo l'apice di ogni corrispondenza d'anima. Questo il senso di vera appartenenza. Partire per restare. Viaggiare senza spostarsi, ma andare insieme dappertutto. Mantenersi forse sempre un po' selvatici, ma farsi attraversare oltre i limiti dei propri confini. E lasciarsi finalmente contaminare gli occhi, da radici felici. Mentre lei parlava, la sua mandibola scivola sempre più giù e i suoi occhi quasi perdevano la loro forma arcuata. “..., ma questo mi comporterà stare fuori per almeno due settimane. Capisci due settimane”. “Sono sicuro che farai un buon lavoro. Stai tranquilla. Credo che tu debba smetterla di essere scontenta per quello che hai”. “Veramente io sono scontenta per quello che non ho. Ad esempio ho un compagno che non solo non mi ascolta, ma quel poco che recepisce, neanche lo capisce. Vorrei da parte tua un po' più di comprensione”. Carlo sorrise, ma non aggiunse nulla. Aveva da tempo capito, che la migliore comprensione per una donna era farla parlare, guardandola negli occhi. “Per me è fondamentale questo lavoro: vorrei presentarlo per il World Press Photo”. “Il World Press Photo. World Press Photo?” “Si Carlo, proprio quello: il più grande e più prestigioso concorso di fotogiornalismo mondiale. Credo che sia arrivato il momento di spiccare il volo”. Il World Press Photo era la massima aspirazione. Se vinci un premio del genere sono due le cose che ti possono succedere: o tutti cominciano a parlare di te indistintamente, a prescindere tu cosa possa fotografare e scrivere con l'immagine, oppure potrebbe succedere che tutti cominciano a criticarti. Nel nostro paese esistono cinquantanove milioni di critici: letterali, artistici, sportivi. E dalla critica, fatta, da tutti questi mai in modo costruttivo, si passa appunto alla distruzione. Nel giro di pochi anni non ti leggerai neanche tu stesso. Logicamente per Eleonora quel premio significava avere una “patente” in più. Un'ulteriore medaglia da mettere al petto e da sfoggiare durante qualche parata, in una decadente festa di piena estate. L'errore di Eleonora era quello di confondere il proprio essere, la propria anima, i propri valori con il proprio curriculum. Nella vita, riteneva che più titoli si possedessero, più ci si doveva ritenere soddisfatti. Carlo tutto questo lo aveva capito e cercava sempre di accontentare questo suo modo di essere, o meglio forse di non essere. Sapeva che un giorno si sarebbe ricreduta, ma era un passaggio che, riteneva, dovesse compiere da sola. A volte il migliore aiuto e quando riusciamo a far decidere da sole le persone. “Questa volta darò tutta me stessa. È molto importante che io ci riesca”. Carlo si alzò e le appoggiò le mani sulle spalle: “Io sarò al tuo fianco e qualsiasi cosa potrò fare per aiutarti, agevolarti o anche assecondarti, la farò. Ricordati, però Eleonora, che a percezione d'uomo, nessun volo è eterno. Prima o poi bisogna planare e scendere. Fare un balzo può essere non difficile, atterrare può diventare problematico”. La strinse leggermente: “Comunque non preoccuparti: ci sarò io sotto a prenderti”. La ragazza si lasciò andare ai suoi occhi e cadde tra le sue braccia. Lo baciò con tanto amore, lasciando la passione solo alle mani. Nella stanza cominciò a spargersi l'odore intenso dell'aroma del caffè. Eleonora cercò di far scivolare quelle parole, che le erano sprofondate nel cuore. “Credo che sia venuto su il caffè!” Carlo si guardò attorno in modo fanciullesco: “Impossibile io non ho visto entrare nessuno”.
Cristian Liberti
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