“Potrebbe togliere gentilmente quei suoi piedi zotici dalla mia sottoveste?” “Ma se lei si ferma ad ogni passo, non arriveremo mai da nessuna parte”. “Che villano insolente!” “Guardi che io sono un cavaliere?” “Ma certo, allora io potrei ancora partecipare ad un'edizione di, com'è che la chiamano? Ah si concorso di Miss Italia”. “Si, forse non sono un cavaliere, ma sono uno scudiero di un antico cavaliere errante, ed un giorno, non molto lontano, allorché non dovessero piovere dal cielo regni, io diventerò il re ed avrò a governare la mia terra, con la mia amata regina”. “Addirittura una regina? Ottimista”. Lei era una nobildonna, con i capelli raccolti in due grandi camelie, una bianca ed una rossa, che s'intonavano in un modo quasi genetico con il colore della sua pelle. Aveva un vestito che le lasciava scoperte le spalle e il copri spalle lo aveva che le scendeva sui fianchi, con le braccia che reggevano le estremità. Nella mano destra un ventaglio di stoffa, con la parte finale in merletto nero e che maneggiava ogni volta che cominciava a parlare. Il suo vestito frusciava, come uno stormo di uccelli che va incontro allo scirocco. Il cavaliere, lo scudiero o lo stalliere come lo chiamano in senso dispregiativo, era uno di quei classici uomini che al massimo può scaturire un sentimento di commiserazione, se non sopraggiunga prima l'antipatia. Aveva una barba incolta, che colorava ulteriormente quel suo viso tondo e olivastro ed i suoi occhi sembravano appoggiarsi sul tessuto adiposo in eccesso sugli zigomi. Aveva una scamiciata bianca, molto larga per impedire la visuale delle sue rotondità ed un pantalone, tenuto con lo spago e corto, o meglio strappato, sopra i polpacci. “Mi scusi se mi intrometto, ma sa, siccome io tengo molto, diciamo, all'estetica, anzi diciamo che in un certo senso la rappresento, credo proprio che la signora abbia ragione”. Il giovane aristocratico intervenuto alla discussione era di una bellezza disarmante, ma era ancor più disarmante il modo di come la indossava. Era elegante, non solo per il vestito, ma anche per le sue movenze e per come si poneva. Su tutto il suo corpo non si sarebbe trovato neanche un minimo di imperfezione. “La ringrazio giovanotto, ma questo mezzo uomo che aspira a diventare re, dovrebbe imparare prima le basi, l'educazione: chi non sa strigliarlo un cavallo, non riuscirà mai a cavalcarlo”. “Si, voi giovani, che poi signora scusi, almeno lei tanto giovane non mi pare. Il ragazzotto, si mantiene bene, anche se per essere un uomo, anche troppo. Voi giovani, vedete solo ciò che è scontato e quella scatola distributrice di immagini, vi ha peggiorato la situazione”. “Guardi io sono un giovanotto che ci tiene alla propria immagine e si cura ed, in riferimento a quella scatola che, per sua informazione, si chiama televisione, non è altro che lo specchio delle brame del terzo millennio, dove ci sono delle figure, ma in realtà ci si specchia tutta l'umanità. E si fidi di me, che di specchi me ne intendo”. “Ma perché chi è lei? La strega di Biancaneve?” “Va bene, lasciamo perdere. Lei non è un villano, ma l'importante è che mi liberi la sottoveste, così andiamo avanti”. L'uomo, nel buio, non sapeva neanche dove avesse i piedi, ma fece un piccolo e lento movimento in avanti, cercando di non avvertire nulla sotto la suola dei suoi stivali. Poi, più in fondo, nel buio si sentì un piagnucolio misto a singhiozzi di trepidazione. “Ma da che parte viene? Una donzella ha bisogno di aiuto. Devo sellare il mio ronzino”. “Calmatevi stalliere. Eh pardon, volevo dire cavaliere. Si tratta della nostra amica russa. Sappiamo benissimo che questa è la sua parte”. “Benedetta donna, ma perché non capisce che deve avere una visione diversa dell'amore. Come si può essere piagnucolosi senza avere coraggio ad amare una persona?” “Mi piace questo vostro concetto, madame, anche se io, come dire, lo allargherei, maggiormente”. “In che senso, giovanotto?” “Nel senso che sono pienamente d'accordo con voi sul coraggio, ma ritengo che nella vita si possono amare anche più persone, o addirittura si può amare anche per pochi minuti”. “Che meravigliosa concezione bohemienne. Ma penso che l'uomo non riuscirà mai a fare propri questi concetti”. “L'uomo!” Il cavaliere li guardava stupiti: “Sentite io questa concezione buona e niente non la conosco. Io di questi concetti e discorsi astratti dei giovani ci capisco poco e niente. Ma comunque vi manderei tutti a lavorare”. “Sbaglio o anche lei faceva il barbiere e poi invece ha lasciato il suo lavoro, per perseguire il suo sogno? Sbaglio o lei voleva diventare governatore di un'isola? Io di questi concetti e discorsi distratti delle persone di una certa età, ci capisco poco e niente”. Dietro all'ultimo scaffale un grande occhio era intento ad osservarli.
Quel primo giovedì di ottobre si presentava insolitamente fresco. Il mattino non aveva ancora preso la forza del suo splendore, mentre la gente per strada, sembrava aumentare ad ogni battito di palpebre. Il tram aveva fatto il solito giro: forse aveva caricato le solite persone, molte delle quali riconoscevano la loro fermata dallo stridio delle grosse ruote di ferro, che strisciavano con forza sulle rotaie. C'erano addirittura persone che salivano e se trovavano posto a sedere, o comodi in piedi, si mettevano a dormire e per magia, alla loro fermata, si risvegliavano. Vedevi la loro testa ciondolare, in modo, a volte, a dir poco innaturale e, quando il grosso bestione di ferro strattonava prima a destra e poi a sinistra per poi decidere di fermarsi, li vedevi recuperare la realtà e fiondarsi attraverso la porta che li separava dai sogni. Eh già, i mezzi di trasporto: sudici, sempre pieni, in ritardo, insomma, anche nel più totale disservizio sono il contenitore più grande dei nostri pensieri e dei nostri sogni. Saliamo e sappiamo benissimo che non dobbiamo fare altro che aspettare la nostra fermata, concedendoci ai nostri pensieri ed ai nostri sogni. Ognuno aveva i propri, così come ognuno aveva il proprio strattone. Ad esempio il giovane dalla pelle olivastra, nerboruto, con la sua maglietta bianca, o meglio, ingiallita e con la barba di qualche giorno, sapeva benissimo che quel grosso strattone che c'era stato non era il suo, ma aprì leggermente un occhio, come per controllare che la vecchia signora, vestita di ricordi e di abitudini, scendesse alla sua fermata, cioè quella. La fermata di Cary era particolarmente facile da capire, visto che le radici di grossi platani sui marciapiedi al fianco delle rotaie, avevano creato dei rigonfiamenti sull'asfalto. Erano circa dieci anni che faceva quella strada, da quando ancora frequentava l'Università di Lettere e Filosofia, indirizzo letterature e filologie europee. Cary riteneva che era importante studiare i testi letterari, cercando di arrivare ad una interpretazione che fosse la più corretta possibile. Ed era anche per questo che aveva accettato quel tipo di contratto in quella storica biblioteca del centro. Aveva la possibilità di stare in mezzo a tanti libri e, dopo la laurea, aveva cominciato a coltivare quello che era il sogno della sua vita: scriverne uno. Scese alla sua fermata, al suo strattone e, come suo solito, seguì il flusso educatamente, senza cercare di superare nessuno. Attraversò la strada e si ritrovò nella piazzetta centrale: un vecchio e grosso platano, il chiosco dell'edicola e quella piccola e calda osteria, dove, ogni tanto, all'inizio del mese, quando i soldi della paga, ancora non prendevano la strada dei sogni, ci andava a mangiare. Ed oltre al cibo si godeva quell'ambiente, dal sapore semplice e rassicurante. Quella della piazza, era un'immagine che giornalmente rincuorava Cary: tutte le cose, erano in quel posto da oltre cento anni, rimaste quasi intatte, senza la presunzione di avere il lusso di sprecare il tempo. E conservava sempre quell'atmosfera, sia di notte che di giorno; sia se il cielo era sereno, sia se era bianco, sia se era arancione, sia se era grigio e sia se era nero. Il cielo non è azzurro, racchiude tutti i colori: basta saperli cogliere. Al lato della piazza c'era il vicolo che il ragazzo imboccava; in realtà lo imboccavano in tanti in quanto risultava un percorso breve ed affascinante verso il centro storico. In quelle stradine tutti cercavano cenni storici, ma in realtà risaltavano maggiormente le ambientazioni, metro per metro che si erano create: un'edera decennale che mascherava un palazzotto dell'ottocento; dei mattoncini, ormai di un rosa antico, che provavano a venire fuori da un intonaco, ricercato, ma pur sempre troppo moderno; delle tapparelle in legno, quasi sempre chiuse, anche se all'interno c'era sicuramente vita. Erano perfette cornici della spensieratezza. Cary, avrebbe voluto proseguire, ma non perché non amava il suo lavoro, ma perché avrebbe voluto godersi quello sciame e quel ciarpame umano, che giornalmente si dirigeva verso il centro. Qualche volta aveva provato di sera, quando usciva. Ma le persone, i ritmi e persino gli spazi sono completamente diversi tra l'inizio del giorno e la sua fine. Insomma lui doveva continuare per la sua strada ed imboccò il suo vicoletto. In realtà con dieci passi sarebbe arrivato e quindi in pochissimi secondi davanti alla porta, ma tutte le mattine, puntualmente come se lo stesse aspettando, la signora Oblast, con chiari origine russe, insieme al suo cane, un vecchio Bedlington Terrier, dal pelo nero, gli si facevano davanti e gli facevano perdere almeno il triplo del tempo. Uscivano dal loro piccolo portoncino: lei con il suo cappottino di astrakan dal colore nero, che a volte si confondeva con il suo cane che, con quell'incedere stanco e rassegnato, sembrava un animale senza padrone. Ebbene si, ci sono persone che hanno bisogno di punti di riferimento, mentre ci sono animali che hanno bisogno di padroni. E credo che i punti di riferimento non debbano mai fare i padroni e quest'ultimi non possono pretendere di fare i punti di riferimento. Insomma Cary, cordialmente si faceva da parte, sorrideva e lei passava diritta senza neanche rivolgergli lo sguardo. Anche il cane non lo degnava del ben più minimo cenno di considerazione, se non il fatto che come arrivava alla sua altezza, abbaiava. Ogni mattina si ripeteva questo rito, tant'è che il ragazzo ormai poteva comprendere il suo arrivo con quell'accadimento. Cary era molto legato ai suoi, diciamo accadimenti, che erano per lui delle meravigliose abitudini non determinate dai propri interessi. E la differenza è notevole. L'abitudine, a volte è un fardello, un peso, una palla al piede e come dicono i nostri padri è dura a morire, mentre l'accadimento, diciamo quotidiano, anche se ripetitivo è quella piacevole manifestazione che ci ricorda che siamo vivi. Io credo, d'altronde che se l'abitudine è la cosa più pesante, la cosa più leggera è proprio la vita stessa. E per Cary il tragitto sino alla porta della biblioteca era tutti i giorni un sorprendente accadimento La porta esterna era talmente piccola che non sembrava che dietro dovesse aprirsi un ampio locale con migliaia di libri. Un tempo quel posto, così come veniva tramandato da una leggenda metropolitana, era una specie di ovile, come spesso se ne trovavano nel centro della capitale e dove di notte trovavano rifugio centinaia di pecore. Fu una trovata di grande ingegno: i lupi non si sarebbero mai spinti sino al centro abitato e le pecore avrebbero raggiunto facilmente il fiume, che distava qualche centinaia di metri. All'epoca, poi, le auto non c'erano e scorrazzavano meno calessi di quelli turistici di oggi e non esistevano neanche le alte sponde di marmo, che sembrano le mura di cinta di un'altra città. In realtà fu il barone Attilio Urbino, che decisosi a trasferirsi nel suo paesino di origine, Casazza, anche perché gli avevano consigliato l'aria del lago per la sua vecchiaia, a lasciare l'edificio ad un istituto benefico che ne fece un orfanotrofio. Sin dalla costituzione, l'istituto oltre ai suoi operati, dai quali riceveva piccoli emolumenti, accettava ogni forma di introito, sia economico, che alimentare. In quegli anni, sia per la sua importanza che per l'ampia circolazione, il grano, aveva quasi lo stesso valore della moneta e l'istituto riceveva come forma di pagamento, oltre che come elemosina, il cereale. Ben presto i depositi, ed anche molte altre stanze erano colmi di grano e soprattutto erano degli ottimi rifugi del punteruolo, che oltre a svuotare il seme, avevano trasformato l'edificio in un posto, molto poco igienico. Ci fu anche un incendio di un'ala del palazzo a decretarne il definitivo abbandono. Nel giro di qualche anno, il luogo divenne fatiscente ed alcuni pastori, cominciarono ad usarlo come ovile. Dopo la Seconda guerra mondiale, cominciò la ricostruzione e la città cambiò fisionomia. Un gruppo di tre giovani studenti, decise di assumersi la responsabilità operativa di un progetto per la divulgazione della scrittura, della lettura e dei libri: insomma decisero di aprire una grandissima biblioteca. Fu il ministro in persona, il dottor Ernesto Benvenga Della Guardia, ad inaugurare l'apertura e pare che era talmente entusiasta dell'operato dei giovani che fece arrivare migliaia e migliaia di libri da tutto lo Stato e qualche volume che ancora giaceva nei confini coloniali, rendendo il luogo, nel giro di pochi mesi, una meta importante per chi volesse informarsi e documentarsi con una certa attenzione su di un qualsiasi argomento. Insomma quella piccola porticina ne aveva vissute tante e forse ancora, ne stava per vivere. A Cary non bastava girare la grossa chiave di ferro, ma doveva dare una bella spallata prima di entrare. E tutte le mattine sembrava che venisse giù un pezzo di porta ed ogni volta era investito da quello odore pungente di carta umida.
Cristian Liberti
Biblioteca
|
Acquista
|
Preferenze
|
Contatto
|
|