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Autore: Cristian Liberti
I fiori di sofia
LGBT
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I fiori di sofia
Mi hanno raccontato una storia vera: la storia di Sofia.
Una donna meravigliosa che amava la vita, suo figlio ed i fiori. È inutile che provi a descrivervi l'eventuale ordine. I veri amori sono in sintonia, senza nessuna classifica da scalare.
Forse il tempo può darci una percezione diversa dell'intensità dell'amore che si può provare per questo o per quello, ma credo che questa, sia una cosa che debba succedere, naturalmente. Così come credo che certi amori, naturalmente, debbano affievolirsi, altrimenti quello che nasce come una passione intensa, può portarci alla pazzia.
Vi chiedo di non pensare che sia la solita storia di una donna forte che si batte contro le avversità della vita. Questa è la storia di una donna debole, che ha saputo godere di quelle fortune che durante la vita ci sfiorano ed attraversano la nostra esistenza. Gli eroi non sono mai esistiti, se non nelle leggende e nelle chiacchiere delle persone. Non posso dirvi oltre, anche perché la sintesi è totalmente in contrasto con il concetto d'amore: ci vuole sempre dedizione ed intensità.
Spero che le mie parole diano almeno un pò di giustizia, alla sua storia.
Mi hanno raccontato una storia vera: la storia di Sofia.

“La mia vita è nel riflesso di uno specchio: è lì che cerco sempre la mia immagine, la mia realtà. La mia identità. Ho sempre effettuato strani percorsi nella mia vita. Ho sempre pensato che il mio cuore, la mia mente e soprattutto il mio corpo, appartenessero a tre persone diverse, delle quali, forse non me ne piace neanche una.
Sofia era il mio specchio e soprattutto il mio percorso, era forse quella parte di me che avevo sempre ricercato e nella quale puntualmente mi perdevo. Io mi riflettevo in lei è stavo bene ed anche il mio percorso più strambo, al suo fianco, non scalfiva, neanche, la coscienza delle vecchie bigotte del quartiere.
Qualcuno dice che paragonati all'universo, non siamo che piccoli granelli di polvere. Ma a me piace pensare che Sofia fosse una grande stella: scegliete voi quale. Io sono ignorante, non conosco le stelle: non ho mai alzato la testa verso il cielo. Come i maiali”.
Saliva i vecchi gradoni di marmo di quella scalinata che si inerpicava avvolgendosi su stessa e lasciandosi abbracciare dalla ringhiera in ferro battuto, che riproduceva una pianta rampicante. Saliva con passo deciso, abbastanza veloce, forse perché voleva scrollarsi di dosso quella maledetta ansia. Al terzo piano, ebbe un attimo di indecisione, poi leggendo i nomi sui campanelli, premette quello giusto. Nessuna risposta. Suonò ancora e poi ancora, in modo più deciso. Qualcuno appostato dietro la porta, da qualche secondo, decise di aprire. Era una donna sulla sessantina, che cercava di tenere con se, quel poco di bellezza che le era rimasto o forse quel poco di bellezza che aveva sempre avuto. Una persona dura non potrà mai essere bella, proprio perché tale, non ti farà mai entrare dentro di essa. Aveva il suo solito sguardo acuto, che era sempre in sintonia con la sua bocca, dalla quale, in modo spietato uscivano le sue parole:
“Cosa ci fai tu qui, brutto mostro?”.
“Ti prego, non fare così. Vado via subito, ma fai venire con me il bambino”.
“Il bambino? E dove? Vai via, altrimenti chiamo la polizia”.
“Ti prego Marisa, Sofia è in ospedale è sta morendo, credo che sia l'ultima possibilità per rivedere suo figlio”.
“Suo figlio. Tu e quella baldracca, avete perso la causa. Leonardo è stato affidato a me e se lei sta morendo, evidentemente anche il Signore mi sta dando ragione”.
“Sei una viscida schifosa. Se il tuo Signore, fosse davvero un giudice giusto, dovresti bruciare all'istante. Ma io non sono qui per giudicarti e ti chiedo, proprio in nome di quel Signore, di fare un'opera di carità. Un gesto di vero amore. Vieni tu stessa in ospedale con il bambino, almeno Sofia potrà morire in pace”.
Dall'interno la voce di un bambino graffiò il colloquio:
“Chi è nonna?”.
Marisa si voltò in modo repentino e quasi chiuse la porta su di essa.
“Nulla, amore di nonna, torna in camera tua, che adesso ci rimettiamo a giocare”.
Nel dire queste parole Marisa si era voltata verso l'interno ed il bambino dal quel poco di superficie visiva, che la porta semi chiusa aveva lasciato, notò chi c'era sul pianerottolo delle scale. Si riconobbero. Si sorrisero leggermente ed i loro cuori crebbero.
Marisa ebbe quasi un gesto di follia. Sbatté la porta violentemente e trascinò, quasi con forza, internamente il bambino. Dopo qualche secondo, riaprì.
“Vai via e soprattutto non farti mai più rivedere da queste parti, altrimenti sarò costretta a farti una diffida”.
“Come si sta facendo bello”. Lacrime calde e grondanti, innaffiarono quelle parole.
“E soprattutto sta ricevendo una sana educazione ed una vita normale, cosa che voi non gli avete mai dato e non gli avreste potuto mai dare. Addio mostro”.
Il rumore dell'anta della porta, sbattuta rabbiosamente rimbalzava tra il primo e l'ultimo piano, sbrindellando il silenzio della tromba delle scale.
Che Marisa potesse avere quella reazione c'era da aspettarselo, anche perchè l'egoismo quando sposa il rancore, trasforma tutto in qualcosa di distruttivo. Noi uomini siamo delle creature molto complesse e la massima espressione della nostra macchinosità si cela dentro di noi ed è nascosta. Eventi improvvisi, situazioni inaspettate, shock, la lasciano venire fuori per qualche momento, ma poi lentamente torna nel suo nucleo. Anche l'assassino più efferato in molti momenti può sembrare gentile ed educato.
Siamo come le castagne. Pensate ai suoi strati: riccio, pericarpo, quella che noi chiamiamo buccia, episperma, quella fastidiosissima pellicina, e polpa. Ci sarebbero anche la cicatrice ilare e la torcia, ma le consideriamo parte del pericarpo. Noi essenzialmente siamo la polpa, la parte buona del frutto, mentre l'episperma è il nostro carattere che maschera, o ed a volte rende amara proprio la polpa. Poi c'è la buccia, il nostro schermo pregiudiziale, le nostre idee, quelle fisse e meno, le nostre manie, le nostre fisime ed infine il riccio, cioè quello che mostriamo. Partendo dalla polpa, buona, squisita e morbida, arriviamo a mostrare il nostro riccio, irto, difficile, sconveniente e soprattutto che riesce a far male.
Sarebbe stato difficilissimo arrivare alla polpa di Marisa, alla sua parte buona.

Passarono diversi anni. E diversi anni sono tanti se vissuti nella speranza che ogni giorno potesse essere quello buono per ritornare. Un giorno non è mai buono se lo accavalliamo con uno passato o con un giorno che verrà. Ma voleva a tutti i costi consegnargli quello che era rimasto di sua madre, oltre a cercare di riqualificare la figura della donna, nella sua testa. Stette sotto il palazzo per diverso tempo. Studiò tutti i movimenti, le semplici uscite e gli impegni improrogabili, che erano, d'altronde, quelli che davano più certezza sulla durata temporale. Non tralasciò nulla al caso ed un pomeriggio, quello definito quasi giusto, ma non buono, si decise a farsi avanti. Sapeva che aveva tempo, ma non voleva sprecare neanche un secondo, perché riteneva che avesse bisogno di tutti i momenti possibili.
Come fosse Leonardo, adesso, dopo tanti anni, lo poteva solo immaginare. Aveva visto uscire da quel palazzo, all'angolo di Via Goffredo di Buglione, diversi ragazzi, ed almeno quattro potevano essere i potenziali Leonardo.
Credeva che non lo avrebbe più rivisto, almeno quella era stata la decisione iniziale. Ma un seme robusto, supera tutti gli strati delle gestioni e prima o poi germoglia. Era giunto il momento di far assolvere la madre.
Aspettò che uscì dal portone, gli fece fare qualche passò e chiamò:
“Leonardo”.
Leonardo profumava di gioventù e di tenacia ad uscire, come le gemme delle mimose, che sfidano rigide giornate invernali, mostrando la loro pomposità. Era un ragazzo bellissimo, deciso e sembrava che ogni muscolo del suo corpo, lavorasse in sintonia con il suo cervello. Un'orchestra naturale e spontanea che rendeva partecipe anche l'indifferenza sprezzante dell'invidia. Correva con lo sguardo, mai con le parole, rifletteva sulla sua pelle il cielo, a prescindere dalle fasi della giornata e del tempo; ascoltava sempre sino in fondo, ma non si perdeva con le ultime cose e soprattutto aveva la capacità di vincere l'alta noia e la bassa quotidianità, con i sogni ed i suoi figli estroversi: i progetti. E tutto questo lo aveva ereditato dalla madre. Ricordi sfuggenti, ma comunque perseguibili. Foglie cadenti in un bosco di alta montagna, dove le chiome si confondono al terreno. Sapeva di essere stato bambino, non perché lo ricordava, perché non era stato cresciuto, subito come un adulto e perché aveva avuto tanto amore. Molti genitori, fanno ascoltare i loro discorsi ai figli, si fanno accompagnare dai loro figli in tutte le loro situazioni. Si fanno seguire in tutti i percorsi creando degli adulti in miniatura, senza la corazza dell'esperienza. Lui aveva ricevuto solo amore e ricordava tutto di questo, che è il particolare più importante della nostra vita.
Il ragazzo si fermò. Stette immobile qualche secondo e poi si voltò lentamente.
Ebbe la conferma che era lui e gli si avvicinò.
“Perdonami. Spero che tu ancora ti ricordi di me. Ti ho sempre pensato e volevo cercarti, ma non è stato facile. In tutti questi anni e poi con tua nonna, ancora tra i piedi”.
Leonardo si rivoltò come se volesse andare via:
“Lascia perdere mia nonna: è grazie a lei se oggi ho una vita normale”.
“Normale?” un cenno di riso ironico fece cambiare il tono della sua voce.
“Hai ragione: io sono il mostro, il fenomeno da baraccone e tua madre era la puttana o l'inutile malata”.
Il ragazzo si voltò nuovamente e sempre lentamente.
“Non ho detto questo, ma credo che siamo stati tutti un po' sfortunati nell'incrocio delle nostre traiettorie vitali. Ti saluto. Stammi bene”.
Velocemente gli mise una mano sulla spalla e lo fermò:
“Ti prego, concedimi solo un'ora. Non ho interesse a che tu rivaluti la mia figura, ma è giusto che tu possa sapere delle cose in più su tua madre. Eri troppo piccolo per comprendere l'amore immenso che ti ha donato”.
“Poteva aspettare che io screscessi”.
“Non essere crudele: anche se la sentenza di un tribunale non ti avesse portato via, ci avrebbe pensato la morte. L'ho giurato sulla sua tomba, quel giorno di solitudine al suo funerale. Solo un'ora e dopo, se lo vorrai, andrò via per sempre”. Un leggero sorriso annebbiò il suo volto: “È proprio vero i peggiori giudici sono i figli. Lo diceva spesso mia nonna”.
Fece quasi una giravolta per scrollarsi di dosso quella mano:
“Seguimi, ma ti avverto: solo qualche minuto”.
Camminavano lentamente, uno dietro l'altro a ridosso dei palazzi. Ad ogni angolo che svoltava, pensava di perderselo, come se il ragazzo, sfuggito dalla visuale, cominciasse a correre. Ed infatti in alcuni momenti la sua andatura assumeva le fattezze, di quella di un cavallo addestrato. Ad un certo punto, dopo un attraversamento pedonale, cominciava un portico, dove ordinatamente erano sistemati dei tavoli in alluminio di un piccolo bar. Le tovagliette, ampiamente pubblicizzate, sistemate sopra, erano rette dal peso di piccoli posacenere e distributori di fazzolettini, anche loro con la fatidica marca. Anche se c'era un leggero venticello, che faceva sventolare le estremità dei copritavoli, faceva caldo e siccome era la controra, in giro c'erano poche ombre ed il bar era vuoto. L'odore della miscela del caffè, si mescolava con il sapore autunnale dello scirocco e rendeva l'aria consistente, quasi come se fosse un bagaglio da portare sulle spalle. Con lo sguardo si comunicarono che quello potesse essere un buon posto per scambiarsi qualche minuto di conversazione. Leonardo tirò verso di se una sedia che fece un rumore da ferro vuoto, ma stridente e vi si scaraventò come un sasso affonda nella sabbia. Si sedette al suo fianco ed a testa bassa cominciò immediatamente a raccontare:
“Tua madre, oltre a darti la vita, ha cercato sempre di preservartela”.
Il ragazzo ebbe un leggero momento di inquietudine:
“Per favore, risparmiami un copione da film da realismo patetico”.
Alzò velocemente lo sguardo:
“Se hai deciso di concedermi qualche minuto, ti prego di farmi parlare. Anzi, innanzitutto credo che io debba darti questo”. Rovistò nelle tasche, come poteva fare solo un abile prestigiatore e lentamente da una catenina in acciaio fece pendere un piccolo ciondolo. Aveva una forma rotonda, ma schiacciata, come un bottone panciuto e sulla parte anteriore aveva un disegno intarsiato: un bambino o forse un angelo che dormiva su di una mezza luna, con piccole stelle che incorniciavano il tutto. Leonardo soffocò l'inizio di una commozione in un colpo di tosse, misto ad una smorfia di sofferenza. Da piccolo, non si addormentava se non stringeva tra le mani quel ciondolo ed ogni volta che si risvegliava al mattino se lo ritrovava ben steso di fianco al suo cuscino. La mamma gli diceva che gli era sempre piaciuto e che lo aveva sempre preferito a qualsiasi gioco che gli proponevano. E poi quel suono di campanellina che emetteva, lo rilassava tantissimo.
“Non te ne separare mai, anche quando ti diranno, che ormai sei grande per certe cose. Tienilo sempre con te. Promettimelo “.
Così gli ripeteva la madre, mentre il piccolo Leonardo annuiva con un sorriso.
Nonostante l'avesse già poggiato sul tavolo, il ragazzo non aveva la forza di muoversi, di tirare a se l'oggetto.
“Prendilo e tuo. Sofia sarà più serena ora che vede che lo possiedi tu”.
“Mia madre è morta”.
“Tua madre non è più qui, ma deve vivere nel nostro amore. Questa è la vera immortalità”. Gli prese la mano e gli strinse il ciondolo nel palmo con risolutezza, ma delicatamente. Leonardo lasciò fare.
“Quando rimase incinta di te, io le dissi di abortire e forse quello è stato l'unico momento in cui l'ho sentita distante. Ancora ricordo il suo sguardo impaurito, stralunato, perso nella sua coscienza e ricordo ancora la sua unica risposta sprezzante che io abbia mai avuto da lei. “Una persona che non potrà mai essere mamma, non può capire certe emozioni e non potrà mai rendersi conto, quanto è meravigliosa la vita”. E lo diceva avendo già la consapevolezza della sua malattia. Ecco non mi dispiace che tu non l'abbia conosciuta bene: in tanti potranno raccontarti di lei, ma forse nessuno, compreso io, potrà mai spiegarti del suo amore. Io ho girato tanto e ho conosciuto tantissime persone, di ogni specie e razza, ma mai nessuno aveva dentro di se, quella forza costruttrice che genera il vero altruismo”.
Mentre parlava, Leonardo faceva oscillare il ciondolo, mentre occhi indiscreti ed irridenti di passanti, roteavano attorno al loro tavolino.
“Senti, io non ho problemi, ma lo dico per te: forse è meglio che ci spostiamo da qui. Se lo ritieni opportuno, puoi venire da me. Ho preso qui dietro, in una pensione, una camera: lì potremmo stare tranquilli e parlare tutto il tempo che vogliamo”.
Leonardo alzò lo sguardo e vide che alcune persone quasi si erano fermati ad osservarli. In quel momento anche lui si rese conto che del poco tempo che avevano a disposizione, non avrebbero dovuto sprecare neanche un minuto. Si alzò di scatto, mise in spalla lo zaino che aveva portato con se ed aggiunse:
“Vada per la tua camera di albergo. Ma ricordati solo sino a quando avrò voglia di ascoltarti e comunque, dopo dovrai sparire per sempre dalla mia vita”.
“Io sono già parte della tua vita, anche se parliamo di quella già stata. Comunque, non ti costringerò a nulla”.

Cristian Liberti

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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