La coda delle stelle e il lupo che riuscì a prenderla
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C'era una volta, in un regno al di là del mare, un potente sovrano dalla pelle color caramello e gli occhi neri come l'ebano. Governava da sedici anni con pugno di ferro e aveva dieci figli. Il primo, abile guerriero, comandava l'esercito. Il secondo, valente arciere, addestrava la Guardia Reale. Il terzo, saggio studioso, era scomparso dopo averlo pubblicamente sfidato. Al sedicesimo anno di regno, quando il più grande degli altri sette figli non aveva ancora raggiunto le sette primavere, le sue mogli diedero alla luce due bambini in una notte senza luna. Una di esse proveniva dal deserto infuocato, dunque il figlio apparteneva alla sabbia. L'altra giungeva dai ghiacci perenni, e il figlio nacque così pallido che il deserto l'avrebbe ucciso. Un giorno la madre del Principe delle Sabbie fuggì verso nord portandoli entrambi con sé. I due bambini non crebbero più come principi: un tugurio fatiscente ai margini di una città lontana, con le onde blu del mare al posto delle dune sabbiose, sostituì il palazzo sfavillante. Non gustarono più squisite pietanze, era già tanto se racimolavano del pane raffermo. Non indossarono più vestiti ricamati con splendenti fili d'oro e ornati di pietre preziose, ma stoffe di lana grezza così logore che si sfilacciavano continuamente intorno alle cuciture. Quando le tre stelle di Orione tramontarono definitivamente sotto l'orizzonte dopo aver dominato il freddo inverno, nacque una bambina con i capelli dorati come il tiepido sole di quella prima alba primaverile. Quel giorno, il contadino che viveva con loro si arrabbiò talmente tanto che percosse furiosamente la donna accusandola di tradimento. Sembrava uno spirito maligno del deserto, con i capelli neri e ispidi e gli occhi rossi come il fuoco, e i principi si spaventarono molto. Quando la principessina compì il suo primo anno, la madre morì sfiancata dall'ennesima violenza dell'uomo. Allora, il Principe delle Sabbie raccolse una grossa pietra e la scagliò contro di lui: era una mattina di sole come se ne vedevano spesso sulla riva del mare, e quel giorno morì anche il contadino. I due bambini presero la principessa e fuggirono prima che qualcuno potesse trovarli. Il Principe dei Ghiacci propose di tornare dal khalīfa loro padre, ma il Principe delle Sabbie si infastidì molto: se la madre aveva lasciato quel bel palazzo, tornarci sarebbe stata una grave ingiustizia. Allora disse cose che non si dovrebbero dire a un fratello, e questi lo abbandonò. Rimasto solo con la sorellina in braccio, senza sapere come avrebbe fatto a sopravvivere e proteggere entrambi, fu sfiorato dal dubbio di essere in grossi guai. Cominciò a esserne più sicuro quando fu costretto a lasciare la terra sulla quale era nato per timore di perderla, e lo comprese definitivamente quando la perse davvero. Allora si sentì spezzato in due e smise di lottare. Lui era il Principe delle Sabbie, e tra le sabbie fu rimandato. Lì ritrovò il Principe dei Ghiacci, scoprendo che aveva cambiato nome. Oran lo chiamavano: il bambino pallido. I fratelli tornarono insieme e anche lui ricevette un nuovo nome.
- Dimmi, Loidóren - esordì questa senza mezzi termini - cosa sai del vento gelido degli Alti Corni? - - Il vento degli Alti Corni? - - Quello di stamattina. - - Ignoravo che provenisse da quella regione. Dovrei sapere qualcosa in particolare? - Altea alzò un sopracciglio. Quella perplessità non lasciava dubbi: la sua allieva non stava mentendo. - Sai cosa è accaduto stanotte nella Terra di Mizard? - provò ancora. Loidóren abbassò lo sguardo. Evidentemente la maga voleva sapere qualcosa da lei, il problema era che non aveva la più pallida idea di cosa stesse parlando. Ma, adesso che era lì, aveva finalmente l'occasione per liberarsi di un peso enorme. - Non so nulla di quello che mi sta chiedendo. Ma stanotte ho fatto un sogno. - La donna s'incuriosì. - Racconta - la incoraggiò. - Ho sognato un volo d'uccello, ed era notte. Non ricordo il colore delle stelle, ma il fuoco sulla terra era altissimo. - - E questi uccelli cosa facevano? - - Erano accanto a me e volavano alti. Non so come facessero a volare così bene, c'era anche il vento, e bruciava. Ecco... - - Continua. - - Il vento, in realtà, era il respiro dell'inferno, era fatto di urla e lamenti che non avevo mai sentito. Ma la cosa peggiore... non so se riesco a descriverla bene... - - La cosa peggiore qual era? - - L'odore, direttrice. Sentivo un odore profondo come la nebbia, ma tinto di nero, e ci inseguiva, me e gli uccelli. A loro sembrava non importasse, ma io ero terrorizzata: era odore di morte, quello. Ha mai sentito l'odore dell'inferno? - - No, Loidóren. Spesso quello della sofferenza, o anche dell'angoscia. Ma dell'inferno mai. - - Beh, sembrava proprio che fosse quello. Non che io lo possa dire con sicurezza. Insomma, mi sono svegliata e sono andata alla finestra, avevo bisogno d'aria. La luna ancora scintillava in fondo al pozzo del cortile, quindi la notte era appena iniziata. Ma anche lì, con la finestra aperta... - - C'era qualcosa alla finestra? - - Sì, due piccioni che sono subito volati via e quell'odore. Ho avuto paura. Non potevo nascondermi e quindi ho provato a scappare fuori dalla stanza, ma era ovunque, mi sentivo braccata. E quell'odore gridava come se gli stessero straziando le carni. O qualsiasi cosa di cui fosse fatto. È stata lunga la strada per il mattino. - Altea le lanciò un'occhiata penetrante. Il volto della giovane non tradiva alcuna emozione, si limitava a guardarla di rimando. Con un sospiro, si alzò dalla sedia avvicinandosi alla libreria accanto al letto. Ne trasse un pesante libro dalla copertina di cuoio color verde bottiglia e lo poggiò sulla scrivania. - Quel vento è giunto fin qui a rivelare che i giorni di pace sono ormai finiti - affermò, grave. - Ho da raccontarti parecchie cose, di cui stamattina non ne conoscevo che la metà. - La ragazza osservò per un attimo il grosso libro, poi riportò lo sguardo su Altea la quale si era nuovamente seduta di fronte a lei. - Questa notte - continuò la donna - a Mizard si è conclusa l'ennesima battaglia tra le città di Andras e Alderamin . Non è mai stata una regione tranquilla, la rivalità tra la capitale dei mezzuomini e quella dei vampiri affonda le sue radici nella notte dei tempi e da allora non trova soluzione. Quella terra è colma di sangue che costantemente viene rinnovato, è un luogo maledetto, e i popoli della Terra se ne tengono ben lontani. - La maga aprì il libro verde, cercò una pagina precisa e girò il grosso volume verso la sua allieva. - Questa mattina dopo la tua visita mi sono recata dalla profetessa Hellinor. Da tempo i maghi Custodi sono al corrente di un'oscura e terribile profezia, ma la profetessa non ne aveva mai svelato l'intero contenuto. Leggi. -
Se non avesse saputo che era impossibile, avrebbe giurato di vedere di fronte a sé il mare. C'era un'aria nebbiosa, una luce soffusa che confondeva i contorni e nascondeva l'orizzonte; la notte si stava lentamente allontanando e l'est si schiariva sempre di più all'approssimarsi dell'alba. Erano occhi stanchi quelli che pensavano di scorgere il mare. Occhi che avevano visto troppo. Occhi che ancora indugiavano in un tempo che non c'era più, un tempo rimasto incastrato, probabilmente, tra le onde del mare. Quegli occhi scuri screziati d'oro appartenevano a un giovane mezzuomo, ed erano stanchi. E disperati. Il mezzuomo si chiamava Moran. Non era un nome comune a Mizard, eppure egli non aveva mai messo piede al di fuori dei suoi confini. Né l'avevano fatto i suoi genitori. Il segreto di quel nome stava tutto in una meravigliosa città: Laguna. Laguna la magnifica, l'opulenta, la chiarissima: non esisteva alcun luogo sulla Terra che non ambisse a instaurare buoni rapporti con essa, si diceva addirittura che vi si potessero trovare oggetti appartenenti agli dei e che genti di ogni razza l'abitassero. In quello splendido borgo i bambini possedevano nomi particolari, esotici, e a lui era toccato quello: un nome proveniente dalle Isole Maris, lontane e selvagge. Laguna aveva anche le rive più azzurre che lui avesse mai visto, e i suoi amici più cari, e la sua infanzia. Già, la sua infanzia. Nient'altro. Non aveva che sette anni, Moran, quando la città fu rasa al suolo dai vampiri e lui fu costretto a fuggire ad Andras. E adesso, dopo ben undici anni da allora, ancora fuggiva. Il mezzuomo si fermò giusto un attimo per controllare che nessuno lo stesse seguendo. La foschia si stava lentamente disperdendo, l'aria era diventata più chiara e lì attorno non si vedeva anima viva. Dopo un grosso sospiro riprese a muoversi, in poco più di un mese di cammino aveva quasi raggiunto la sua meta. Moran era infatti fuggito dall'assedio di Andras da parte dell'esercito vampiro di Alderamin, e ora stava attraversando furtivo la terra buia di Mizard dirigendosi verso l'ultima roccaforte che i mezzuomini ancora difendevano strenuamente: Eltanin, la “testa del drago”. L'aveva visitata spesso da bambino per via dei frequenti viaggi che effettuava con la madre, commerciante di tessuti, ma non la ricordava così bene. Solo un particolare era rimasto saldamente impresso nella sua memoria: i tetti aguzzi e slanciati dei monumenti principali che si stagliavano altissimi nel firmamento, sembravano tanti aghi che tentavano di infilzarlo. Avevano inoltre una peculiarità: terminavano sempre con una sfera dorata che interrompeva bruscamente quell'ascesa infinita al cielo, come a ribadire che gli esseri viventi potevano anche aspirare alle stelle, ma non le avrebbero mai raggiunte. Ed era proprio il cielo la stranezza di Mizard: turchino, azzurro, accecante, limpido. Durante il giorno non esisteva pioggia o tempesta o brezza di vento, solamente al tramonto gli agenti atmosferici tornavano a farsi sentire. Moran non aveva mai visto questo cielo così splendente, lo poteva solo immaginare dai racconti degli stranieri che per un motivo o per un altro attraversavano la regione. Esso, infatti, era completamente ignoto a vampiri e mezzuomini, che per loro natura non tolleravano lo splendore del sole. Una tenue luce rosa illuminò l'est. Era quasi l'alba e da quel momento avrebbe potuto proseguire con più tranquillità: quella sottile luminosità non feriva ancora i suoi occhi ma era sufficiente a indurre i nemici a ritirarsi. La chiamavano, infatti, l'“ora dei mezzuomini”. Adesso doveva aumentare il passo, tra non molto anche lui avrebbe dovuto cercarsi un riparo e riposare. Gettando un'occhiata al cielo grigio e indaco cominciò a correre, leggero e silenzioso. Pian piano, i timidi raggi che salivano sempre di più dietro la linea confusa dell'orizzonte coloravano di mille riflessi vermigli i capelli bruni del ragazzo, mentre gli occhi scuri rimanevano concentrati sulla strada. Erano occhi stanchi e disperati. E vuoti. Erano gli occhi di chi aveva perso tutto e non capiva più che senso avesse continuare a vivere.
Angela Eleonora Calarco
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