Si può mantenere un po' di ironia, se la morte ti cammina al fianco? Sì, ho pensato, se diventa un modo per lottare contro la paura e contro la rabbia. Talvolta morire non mi spaventa, mi fa arrabbiare. La morte genera in me un forte sentimento di esclusione dal mondo e soprattutto dalla mia fa-miglia. Non sopporto l'idea di perdere la vita perdendo, in questo modo, quella dei miei figli e di mio marito. Cosa faranno? Chi diventeranno? Quando i ragazzi se ne sono andati da casa per inseguire i loro sogni, gli ho promesso che, malgrado la lontananza, il mio sguardo sarebbe rimasto piantato sulla loro vita, come si fa quando si osserva la linea dell'orizzonte: nell'assoluta impossibilità di perderla di vista. E ora mi fa rabbia non essere più in grado di garantire questa promes-sa. Mi fa rabbia dovermene forse andare, magari così presto, comunque in modo inaspettato, non previsto eppure non improvviso. Fosse improvviso, non ci sarebbe il tempo di arrabbiarsi. Così è inaspettato, ma non è improv-viso e fa male, perché la paura e il pensiero della morte ti camminano a fianco, ogni giorno. Così significa stare in attesa, sentire gli specialisti che ti dicono: ci vorrebbe la sfera di cristallo, ogni paziente è una storia a sé, la tua storia è tutta da scrivere. Così non si sa se guarirai, non si sa se morirai. Non si sa. Chi può dirlo? E tu sei lì, in balia del caso, dell'incertezza, dell'assenza di risposte e aspetti che le cose acca-dano e neanche sai quando. Non sai se dovrai aspettare un mese, un anno, dieci anni, per sempre. Questa è una malattia con prognosi sospesa e la sospensione ti lascia in un limbo. E mentre sei in questo limbo, sai solo che c'era un prima e che c'è un dopo e per quanto le cose possano andare bene, quel prima non ci sarà più. Ogni tanto vorresti che qualcuno ti dicesse che la scienza e la medicina hanno fatto progressi enormi, per cui certamente andrà tutto bene. Invece ti dicono: ci devi credere tu per primo, devi essere forte, devi essere positivo. E tu allora dici: va bene, ma come andrà? E loro: non si sa. Chi può dirlo? E se non riesci a essere positivo perché nessuno ti ha dato nulla a cui appigliarti? Come fai? Inizi a pensare che se morirai, se andrà tutto male, sarà stata colpa tua, perché non sei stato positi-vo, non sei stato abbastanza forte, non ci hai creduto tu per primo. Ma forte per cosa? Per sostenere le terapie? La loro crudezza? La loro fatica? Come se ci fosse un'alternativa. Ma nessuno, mentre sta sfuggendo a un destino infausto, si sottrae. Sei dentro e balli. Non esistono battaglie da combattere. Le cose accadono, ti salvi esattamente come ti amma-li: del tutto casualmente. E non dipende certo da come e quanto hai sopportato, dal coraggio che hai avuto. È stata forte, ha lottato come un drago. Ma in che senso? In che modo? Ti dicono che devi fare la chemioterapia e poi la radioterapia e tu vai a farle. Non vai armato fino ai denti, vai con le tue paure, con la tua nausea anticipatoria, con i tuoi dubbi. Ti sdrai su un letto e lasci che facciano di te quello che è necessario per avere una chance. Torni a casa e sopporti il dolore. Cosa puoi fare? Le ho provate tutte per cercare di fare in modo che salvarsi dipendesse da me. Non dipende da me, ma capisco che ci sia qualcuno che, per incoraggiarmi, voglia farmelo credere. Ah, ma tu non sai quanto conta la mente! E così, dicevo, io ci ho anche provato, all'inizio. Non sono credente e dunque non ho preghiere e non ho la speranza che ci sia qualcuno che dall'alto veda e provveda per me. Lo diceva anche Leopardi: chi potrà mai prendersi cura degli uomini, puntini in un universo infinito? Lo diceva anche Pirandello: chi vuoi che si occupi di noi “pallottoline”? E allora, se neppure conta la carie nella bocca di un astronomo, cosa vuoi che conti un cancro nel mio corpo di fronte all'immensità dell'universo? Ho pensato che le pratiche del training autogeno e del pranayama potessero aiutarmi. Lo dicono tutti che le tecniche di respirazione e rilassamento aiutano. Nelle mie ore di insonnia notturna ho scaricato dal web ogni genere di lezione. Ho eseguito gli esercizi suggeriti, praticato con determi-nazione ogni step. E più ho respirato, più ho cercato di concentrarmi sul respiro e sul mio corpo pesante e rilassato e abbandonato a sé stesso, più mi sono incasinata, più il respiro mi si è inca-strato in gola, ha perso il suo ritmo naturale e quanto allo sprofondare nella mia pesantezza, spro-fondavo certamente, ma mi immaginavo di sprofondare negli abissi marini: il mio corpo cadeva in una specie di fossa delle Marianne e arrivederci. La rappresentazione plastica della morte, in-somma. Allora ho pensato che mi potesse aiutare il buddismo, che ho iniziato a studiare: un sano distacco dal mio corpo, l'atarassia, la liberazione dalla schiavitù delle passioni terrene, dalle pau-re. Ma questo è assolutamente folle, dal momento che la mia lotta adesso è tutta per restare anco-rata a questo corpo, dentro a tutte le mie passioni, con la vita che mi scorre nelle vene, con le sue emozioni, le sue debolezze, i suoi dubbi, le sue angosce in cui sta tutta la sua essenza e la sua bel-lezza. Non è questo ciò che ci caratterizza come “vivi”? Perché devo liberarmi dal corpo e diven-tare un etereo essere fatto di spirito, se questo coincide esattamente con la morte? Io il mio corpo lo voglio tutto intero. E lo voglio sentire. E voglio tutto della vita. E se devo accettare questo do-lore perché fa parte della vita, ebbene lo voglio. Per cui... addio al buddismo. Mi sono tenuta solo l'acronimo RAIN della psicologia buddhista. Ci sto lavorando, anche se non sono ancora arrivata alla lettera N. R: riconoscimento. La malattia l'ho riconosciuta io per prima, prima di tutti gli altri. Lo sape-vo. Lo dicevo. Ragazzi, sto male. È la menopausa, tranquilla. Ma se la menopausa ha diciassette sintomi, possibile che io li abbia tutti insieme e tutti così esacerbati e tutti all'improvviso? Ragaz-zi, io ve lo dico, non mi sento affatto bene. Ho qualcosa. Vai dal dottore allora. Ci sono andata, ma mi è stato detto che se avessi avuto qualcosa di grave, sarei stata già morta. Dottore, ma se ho un cancro? Ma quale cancro?! Li ha fatti i controlli? Sì, sempre, non ne salto uno. Ed erano a posto? Ma certo! Perfetti. Allora non dica stupidaggini. Si rilassi, non ci pensi. Ma le pare normale che mi vengano le tromboflebiti con gli esami della coagulazione perfetti? Non avrò una sindrome paraneoplastica? Mi sanguina il naso, non respiro, ho la tosse da cinque mesi, non ho appetito, perdo peso, ho la nausea perenne. Ma la smetta, non dica sciocchezze! Insomma, io l'ho riconosciuta subito la fottuta malattia e li ho avvisati: ho la frase per la mia lapide, ragazzi: “Ve l'avevo detto che non mi sentivo tanto bene!”. E giù tutti a ridere. Anche io. A: accettazione. Io ho accettato subito, perché dopo due o tre settimane dalla diagnosi nei miei sogni sono diventata ammalata, in chemioterapia, con la vita incerta. A volte anche calva. Quella di prima non c'è più. Non me la ricordo neanche. Ma accettazione per me non è questo, è qualcosa di diverso, perché io ho pensato subito di voler essere la Ginestra di Leopardi che cresce sull'arida schiena del Vesuvio, vive e fiorisce finché una colata di lava le farà chinare il capo e la ucciderà. E lei non si sarà piegata codardamente per supplicare un dio che la tenesse in vita, non avrà eretto il capo con forsennato orgoglio verso le stelle ma, saggia, avrà accettato il suo destino, consapevo-le di non poter essere resa immortale in un aldilà o nel tempo tutto laico dell'uomo. Per me questo significa vivere una vita che sa essere all'altezza di ciò che le accade. Significa vivere il proprio presente accettando la realtà, sostando davanti alle proprie paure, osservandole, non negando il male, come ha scritto Recalcati da qualche parte, citando Deleuze. Significa che non posso certo dire “Io guarirò” nella assoluta convinzione che il destino sarà benevolo, ma solo “Io vorrei guarire con tutta me stessa”. C'è una bella differenza. Non posso avere certezze, che è quello che tutti vorrebbero da me dicendomi di pensare positivo, ma solo coltivare speranze. E poi viene la I: investigazione delle paure e delle proprie emozioni, correlate agli eventi. Qui mi sono un po'incastrata. Mi sono detta: e allora? Sto davanti a questa paura e che ci faccio? Che poi, come dicevo, talvolta non è paura, ma è rabbia. Cosa faccio di questa paura? Come le sopravvivo? È così che mi è venuta l'idea di combatterla: lei sì, la posso combattere, la malattia no. E di combatterla dandole un nome e mantenendo, quando possibile, un po' di quell'ironia che mi appartiene, che mi ha reso più sopportabili le difficoltà della vita. Almeno sarà stato meno do-loroso il tempo, poco o tanto, trascorso insieme alla malattia. A volte mi sono pure detta: ma vaffanculo anche a ‘sta Ginestra. Ma perché dovrei essere così presente a me stessa, accettare il destino, sostare davanti alla paura invece che nasconderla a me stessa? Ma perché non posso illudermi? Rimuovere il problema? Fare finta di niente? Dirmi che tutto passerà e che guarirò? Perché non posso dirmelo io, visto che non me lo vuole dire nessuno dei medici? Tra l'altro, quando ho provato a farlo, sono stata benissimo, però, subito dopo, mi so-no sentita una incosciente, uno struzzo. È evidente che non è un atteggiamento che mi appartiene. Poi c'è la N: non identificazione. Sono portatrice di una identità provvisoria, non posso assolutamente identificarmi con questa identità, né tantomeno con la mia malattia. Io non sono la mia malattia. Io sono io e la malattia è una cosa che mi è accaduta. Però non ci sono ancora arrivata e non so esattamente cosa voglia dire. Ci ragionerò. Per adesso, invece, io sono la malattia e la ma-lattia sono le mie giornate. Comunque, alla fine per me ora è chiarissimo che tutto dipende dal caso. È un caso veramente fortuito se ho incontrato nella mia vita Roberto, l'uomo meraviglioso che ho sposato e così per ca-so sono nati i miei figli, che per caso sono fatti come sono, una con gli occhi azzurri, l'altro con gli occhi marroni, non perché non c'entrino i geni e non ci sia una ragione, ma perché è a caso che i geni si sono combinati. La mia vita è andata avanti per puro caso. Ora lo so. Ho fatto delle scelte, ma il caso me le ha messe davanti, perché, ad esempio, se per caso una scuola non mi avesse chiamato una mattina per fare una supplenza perché per caso toccava a me in graduatoria, io pro-babilmente continuerei a lavorare in una casa editrice o comunque non sarei una docente. E così anche la malattia. A giugno tutto a posto, tutti i controlli, che non ho mai saltato, perfetti e a novembre diagnosi di cancro, aggressivo, al terzo stadio. Cosa avrei potuto fare più di quello che ho fatto per evitarlo? Credevo dipendesse da me non ammalarmi e invece no. Invece dipende tutto dal maledetto caso. E siccome non c'è modo di go-vernarlo questo caso, allora ci sono dei giorni che vorrei avere uno scanner. Una specie di attrezzo davanti al quale mi posiziono appena sveglia e questo fa una minuziosa e dettagliata scansione del mio corpo: organi interni, arterie, vasi, vene, linfonodi, tessuti, ghiandole, cellule, molecole, ato-mi, tutto. Poi suona un campanello e mi dice: vai pure, anche per oggi tutto bene. Non c'è niente. Il tuo corpo è libero dalla malattia. Una cosa che ho imparato è che non si dice cancro, che è una parola troppo dura, non si dice tumore, che è una parola troppo generica. Si dice malattia. I medici la chiamano “la malattia”. La malattia per antonomasia è il cancro. Così, dopo averle studiate tutte o quasi, ho pensato che, visto che non riesco a rinunciare alla Ginestra che voglio essere o che forse sono, la strada da percorrere è cercare di mantenere un po' di ironia di fronte alla probabilità della morte, in questo periodo spaventoso di una vita che forse a breve non mi apparterrà più e lottare contro la mia paura, convincendomi di quanto io abbia già avuto. Così che se anche morissi, potrò morire non dico contenta, ma abbastanza soddisfatta. Per-ché dopotutto chi lo ha detto che dobbiamo vivere fino a novanta anni e oltre? Ci culliamo con questo pensiero, ne siamo viziati. Io soprattutto. La famiglia di mio padre è caratterizzata da una grande straordinaria longevità, tutti trentini di ferro che hanno sfiorato o superato i cento anni. Mi ero convinta allora che questa longevità mi dovesse appartenere. Lo davo un po' per scontato. I geni di mio padre sono i miei geni, mi sono sempre detta. E però in realtà non sempre si arriva a età venerande tanto bene. Penso alla grave demenza di mio padre che ha avvelenato gli ultimi anni della sua lunga vita, ha cancellato i ricordi vicini nel tempo, gli affetti, la sua intelligenza. Penso agli acciacchi di mia madre che, ormai novantenne, la rendono infelice, le guastano la vecchiaia, la spaventano, impegnano tutta la famiglia nelle sue cure. Non voglio dare ai miei figli il dolore di vedermi molto anziana e persa in una nebbia di ricordi o non più autosufficiente o il problema di doversi occupare di me, trovarmi una badante, mettermi in una RSA. Non voglio condizionare la loro vita con l'impegno del mio accudimento. Perciò, va bene: posso anche morire prima. Me lo sono sempre detta. Non ho forse avuto scritto per anni nel mio profilo WhatsApp “I hope I die before I get old”, citando un famoso verso degli Who, salvo poi cancellarlo alla diagnosi di can-cro, del tutto convinta che mi avesse portato sfortuna? In realtà possiamo scrivere cose così, con questa leggerezza, solo perché ci crediamo o fingiamo di crederci immortali e scherziamo sulla morte. Io almeno, ci ho sempre scherzato. Invece ora provo a scherzare, ma non mi basta più e non sempre ci riesco. Allora chiudo gli occhi, faccio affiorare il passato, ripercorro nella mia mente gli episodi più importanti della mia vita e penso che questa mi ha fregato ancora una volta, si è presa la rivincita sulla mia presunzione. Quando sono diventata adulta ho creduto di avere la chiave. È tutta una questione di prepara-zione, mi sono detta: tu fatti trovare preparata e dirigerai il tuo destino. Puoi decidere tu, dipende da te. Allora mi sono arrogata il diritto di avere uno smisurato potere di controllo sulla mia vita. Ogni volta ho pianificato e programmato il suo corso, credendo così di imbrigliarla nel perimetro delle mie previsioni, ho studiato, mi sono preparata per fare in modo che lei andasse dove io ave-vo deciso. E ogni volta non è affatto andata così, perché lei non è certo lì a farsi fregare, ma io non l'ho imparato. Ho ripercorso ogni volta i miei errori. Come anche in questo drammatico passaggio: avevo coltivato la certezza della salute, perché ho fatto tutto per bene e figurati se mi amma-lo, figurati se capita a me, figurati se non va come dico io. Figurati... E invece ancora una volta la sorte ha soffiato sul mio castello di carte, le ha gettate in aria scombinando il gioco, lasciandomi attonita e ferita, come sempre, perché io questo non lo so im-parare e neanche adesso che la maledetta sorte la ossequio, la riconosco, mi ci inginocchio, le concedo l'onore della vittoria. E però questa vita che come un torrente in piena, nonostante i miei argini, ha proceduto nel suo percorso impetuoso, spesso giocando contro di me, violenta e dispettosa, mandando all'aria le mie aspettative come fossero birilli colpiti da una palla da bowling, ogni volta mi ha lasciato un dono più grande, una gioia più immensa, ha tramutato la mia rabbia feroce in una dolcezza nel cuore che me l'ha fatta amare di più, ancora di più, come la amo adesso, così tanto, perché mi dico che è vero che mi ha fregato ancora, ma qualcosa anche questa volta mi lascerà, ne sono certa. Allora rivivo i miei ricordi per tenere ben presente che in verità è stato bellissimo e può basta-re. Certo, può bastare. Così, se capiterà, me ne andrò meno arrabbiata. Già mi sento meglio, se ci penso. Mi basta questo per non avere paura di morire? Mi sembra di sì. Mi basta per essere un po' meno furiosa? Forse sì, anche.
Clara Lazzari
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