Avevo un motorino arancione
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Scrivere un'autobiografia è un po' come andare dallo psicologo, mettersi a nudo, regredire alle proprie ancestrali paure, tornare indietro nel tempo con i ricordi, alla ricerca dei traumi, per sfrondarli di ogni implicazione e coglierne il senso profondo, cercando di capire quanto intensamente abbiano condizionato la tua esistenza. E non è facile farsi vedere senza protezioni, offrire al lettore la tua parte più privata, abbassare i veli dell'intimità mostrando il tuo lato più umano, senza pudore, senza vergogna, io che ho sempre tenuto in gran conto la mia privacy mostrando poco o nulla di me all'esterno. Ma ho scoperto di non avere difficoltà a farlo. È la mia vita, sicuramente ho commesso degli errori, come tutti, e a essere un po' più magnanimo con me stesso avrei potuto sfumare le parti più dolorose dando di me solo l'immagine odierna, quello di un uomo ormai pienamente a suo agio con l'esistenza. Ma la penna, si sa, è un po' come la lingua, batte dove il dente duole e ha avuto la tendenza a soffermarsi sugli aspetti più problematici del mio vissuto. Volevo scrivere questo libro a trent'anni ma sarebbe stata l'opera di un ragazzo non quella di un uomo. Un ragazzo che ancora doveva imparare, conoscere, apprendere la via. Sarebbe stata un'opera incompleta, priva dell'intero capitolo 6, quello della consapevolezza. Il mio percorso di apprendimento è durato tanto e ancora prosegue ed è andato di pari passo con il mio percorso di difesa, di costruzione, di formazione di quelle guaine protettive che, bene o male, in un momento in cui mi sentivo piuttosto ammaccato, mi hanno protetto dagli urti ulteriori che avrebbero potuto disarcionarmi. Non ho nulla da rimproverare ai miei genitori che non mi hanno mai fatto mancare il loro sostegno anche se, a volte, in loro prevaleva il giudizio più del consiglio o del suggerimento. Forse questo è un po' mancato in famiglia. Un miglior dialogo avrebbe portato a soluzioni più efficaci e a risposte più rapide. Mi rendo conto che, per un genitore, è difficile e che tutte le scelte che i miei hanno fatto erano pensate in funzione del mio bene così come le mie lo sono ora per il bene dei miei figli e poi anch'io ho avuto le mie colpe con i miei ermetismi, le mie chiusure che hanno sempre impedito aiuti esterni. La somma di questi fattori ha creato attorno a me un gorgo dal quale è stato difficile uscire, una sorta di sabbia mobile perenne. Alla fine, però, come un monaco tibetano sono riuscito a raggiungere un certo grado di “atarassia”, di distacco dalle cose. Come dice una mia collega, io sono quello che se un palazzo crolla si scansa, si toglie la polvere dalla spalla e continua a fare quello che stava facendo senza mostrare alcun turbamento. Un po' è vero, anche se questa, chiamiamola indifferenza, non è mai portata alle estreme conseguenze. È che ormai, come dice Jep Gambardella ne La grande bellezza, non posso perdere tempo appresso a cose che non mi va di fare. Non mi va di arrabbiarmi per sciocchezze o spendermi per persone per le quali non vale la pena. Questo tempo, per noi, è poco; non possiamo sprecare energie per cose inutili. Ho voglia di conservarmi, di attivarmi per le cose belle, per le persone che mi amano. La nostra esistenza è un briciolo cosmico nella vita dell'universo, siamo attimi inconsistenti nella vastità dello spazio e del tempo, siamo un minuscolo presente schiacciato tra un passato infinito e un futuro eterno. Eppure, questo poco è prezioso per noi. Dobbiamo dare dignità alla nostra microscopica esistenza, elevarla al rango delle cose eterne, trasmettere il nostro sapere, donare la nostra generosità, aiutare chi ne ha bisogno, salvare il bello, conservare il ricordo, gustare l'emozione altrimenti restiamo solo dei contenitori di DNA che trasmettiamo ai nostri figli e che, a loro volta, trasmetteranno ai nostri nipoti quasi che, questa manciata di basi azotate che fanno copie di se stesse, propagandosi con piccole differenze tra un individuo e l'altro, sia solo un virus egoista che ci parassita e ci sopravvive. E allora ho voglia di godermi le cose piacevoli della vita perché, poi, capita che ti piombi addosso una pandemia e tutte le prospettive cambiano. Siamo costretti a isolarci e se non abbiamo un guscio forte andiamo in frantumi. Siamo costretti a ridurre la nostra socialità, il contatto umano e se siamo fragili ci sbricioliamo. Il distanziamento al fine dell'autoconservazione, il vivere diventa sopravvivere e perdiamo molto della nostra essenza. Quasi tutti gli esseri viventi hanno bisogno del contatto. Provate a distanziare una mandria. L'unione fa la forza mentre la disgregazione rende deboli. Provate a separare le api o le formiche. Ogni singola unità è insignificante ma, tutte insieme, sono un esercito indistruttibile. Ma non parlerò qui del Covid-19 avendoci dedicato un libro intero, anche se è innegabile che il Coronavirus abbia cambiato le nostre vite e che quello per cui ci siamo battuti improvvisamente non esiste più, la percezione dei valori che contano cambia e il tempo delle nostre autobiografie, inevitabilmente, muta. Alla fine la vita di ciascuno di noi è molto simile a quella di tutti gli altri esseri umani. Ci svegliamo, mangiamo, andiamo a scuola o al lavoro, facciamo sport, incontriamo persone, andiamo a dormire. Ogni giorno tutti percorriamo strade che ci consentono di arrivare ai nostri obiettivi e se anche i giorni veramente decisivi nella vita di un uomo, quelli che indirizzano il suo destino, sono pochi, forse non più di dieci e quasi mai siamo in grado di prevederli, ogni singolo giorno vissuto è un importante tassello verso la completezza del mosaico. Noi siamo le scelte che facciamo e dai nostri sbagli impariamo e agiamo seguendo un credo, costruendo la nostra morale, plasmando quella filosofia che ci consente di non arrivare impreparati a quei giorni decisivi, quando il destino ci farà incontrare un terremoto, ci metterà di fronte al rifiuto di una ragazza che pensavamo di amare, al tradimento di un amico che ci rinfaccerà cose mai avvenute se non nella sua testa, a una vittoria insperata, alla diagnosi di una malattia, all'inizio di una guerra o a quando incontreremo, senza ancora sapere che sarà lei, la madre dei nostri figli o quando infileremo un dito nella manina del nostro cucciolo appena nato e gli diremo: - Piacere, papà. - Che cosa sarebbe successo se non fossi andato al mio primo appuntamento con Francesca? Quel giorno pioveva, io ero stanco e non mi sembrava una buona idea andare a un incontro al buio. Ci aveva messo in contatto su Facebook un mio collega, suo ex compagno di scuola ma, al momento, lei era solo un'amicizia virtuale. Se io non fossi andato, avrei cancellato in un colpo solo dalla faccia della terra Elena e Riccardo. Eccolo il significato della frase: - Un battito d'ali qui, può provocare un uragano a chilometri di distanza. - Eventi apparentemente insignificanti hanno incalcolabili riflessi futuri, sta a noi riuscire a cogliere il nesso che si cela dietro le nostre azioni. Io ho avuto la fortuna di incontrare Francesca e il merito di riconoscerla, l'ho amata e da lei ho avuto amore. Dopo tredici anni che stiamo insieme ho ancora voglia di fotografarla e rivedere con lei le immagini, realizzandone quadri da stampare, desiderare il suo corpo, amarla senza limiti, guardarla negli occhi andando in profondità. Voglio addormentarmi vicino a lei e risvegliarmi con le sue braccia al collo, voglio carezzarle il volto mentre dorme. Sopra la mia torta di compleanno c'è un numero tondo che un po' fa paura ma spero che il meglio debba ancora venire. Anche se quello che mi è successo fin qui è bellissimo e meglio di Elena e Riccardo non so cosa possa esserci, forse solo riuscire a vederli crescere. Tutto sommato quello che ciascuno di noi desidera è che la bilancia della vita sia in equilibrio. Ci lamentiamo quando pesa troppo dal lato delle cose brutte e abbiamo paura quando il piattino delle cose belle è carico, temendo che la fortuna finisca da un momento all'altro. In fondo, sino a ora, la mia è stata una bella vita. Se mi chiedessero: - Sei disposto a rinascere ora e rifarla tutta daccapo, esattamente con le stesse persone e gli stessi eventi senza cambiare nulla? Credo che direi di sì anche se l'idea di rifarmi cinque anni di “quel” Liceo mi atterrisce ma se sono sopravvissuto la prima volta, probabilmente ce la farei anche una seconda. Ma non è tempo per ricominciare, qualunque sia la vita nuova che ci aspetta dopo di questa, è tempo di continuare al meglio il percorso iniziato il 16 maggio 1972. Ho cinquant'anni e ancora voglia di scrivere la mia storia con Francesca, Elena e Riccardo. Viverla giorno per giorno, assaporarla, sentirne la mancanza in ogni attimo che siamo distanti, ricordarla e poi ricominciare a viverla, oltre l'attimo che ci lega, oltre il tempo di questo momento.
Giuseppe Pensieroso
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