Dillo alla polvere.
È rientrata nella casa di suo padre dopo un mese. Tutto è fermo e coperto di polvere. Va alla finestra e il fumo della sigaretta le cancella il viso riflesso sul vetro. Delle unghie morde quel che è rimasto. Si volta verso l'interno. Su un ripiano vede una foto di lei con Sergio, suo fratello, e un pass del concerto dei Pink Floyd di vent'anni prima, con una dedica di Gilmour. Percorre il corridoio e apre la porta della camera vuota, investita dall'odore dei vecchi. Torna indietro e si siede in poltrona aspettando il momento giusto per telefonare in reparto, e chiedere di un padre che non può né vedere né sentire. Chiama. Il medico è nella zona sporca. Il medico ha cambiato turno. Il medico non può rispondere. E quando lo fa le dice cento volte purtroppo. Ascolta il sommesso brusio del non detto, interpreta inflessioni e silenzi. Piange. Lo vuole vedere. Ci vuole parlare. Signora non può. Lei grida che adesso prende la macchina e va. Signora non venga. Non può. In ospedale, un corridoio illumina stanze buie che dormono un unico faticoso respiro. Nell'ultima, davanti a un vecchio con l'ossigeno in faccia, un medico e un'infermiera con la tuta verde, maschera e guanti. “La febbre non cala”. Fa presente lei. “A fine turno chiamo la figlia”. Dice lui stanco, impotente.
Escono dalla stanza e il vecchio apre gli occhi. Nel buio lo vede, seduto ai piedi del letto. “Sergio”. Gli dice con voce sottile allungando una mano. “Come sei entrato?” Prova a tirarsi su con la schiena, vorrebbe togliere la maschera che gli serve per respirare e che gli ha segnato la faccia. È in affanno. Il figlio avvicinandosi gli sussurra di stare tranquillo accarezzandogli la fronte. Gli rimette la coperta sopra il braccio rimasto nudo dopo i suoi movimenti scomposti. “Come stai? Quanto tempo? Irene l'hai vista? Sentita?” Senza dargli il tempo di rispondere aggiunge “non è mai potuta venire, non la fanno entrare. Prova a portare anche lei”. “Ci sono io, non preoccuparti. Irene non può venire ma chiama tutti i giorni. Vedrai che tutto andrà bene”. Il padre si rimette a dormire. Sergio si alza e va in corridoio, si ferma e si affaccia sul cortile interno. Una coda passa di sotto, attaccata al suo gatto rosso.
Irene sente che il telefono squilla. Non lo vede e seguendo il richiamo insistente lo trova. Il numero che appare ormai è familiare e le stringe lo stomaco. “Si”. Dice dall'abisso senza riuscire a sciogliere la gola. Dall'altra parte la investono tutti i purtroppo di sempre insieme ai nuovi mi dispiace. Il medico affranto le dice che non c'è altro da fare. Lei si siede, si alza, si siede. Ascolta in silenzio il silenzio. “Abbiamo fatto tutto quello che potevamo. Ho parlato adesso con l'anestesista ma non c'è niente che possiamo fare ancora”. Il medico scava per trovare le parole . Ma non esistono parole per chi sta ascoltando. Irene chiede quanto tempo rimane. “Poco”. Risponde lui. “Cosa posso fare?” Chiede lei. “Niente. Le assicuro che non soffrirà”. Irene piange. Lo vuole vedere. Ci vuole parlare. Signora non può. Lei grida che adesso prende la macchina e va. Signora non venga. Non può. Psicologicamente stremato il medico le dice che non può prometterlo ma se riesce più tardi proverà a fare una videochiamata.
Quando Sergio rientra vede, nell'angolo in fondo, un braccio che esce dal buio. È a fianco dell'unico letto nella stanza oltre a quello di suo padre, dove dorme un'altro vecchio, molto più magro ma con lo stesso respiro. Il cono di luce proveniente dal corridoio lo illumina. Afferra la sedia per spostarla piano e mentre lo fa appaiono gli occhi neri nel viso rotondo di una ragazza molto giovane, contornato da due trecce che le ricadono sulle spalle. Ha la pelle abbronzata e il corpo leggero sotto una camicetta bianca e un paio di jeans. Si siede, appoggia i gomiti sopra il materasso, accarezza la coperta lungo il braccio esile che sta sotto e che si intuisce a malapena. Scopre delicata la mano secca con la pelle macchiata quasi trasparente sopra le vene blu e grandi. La avvicina alla guancia e la bacia gonfiando il petto di un respiro profondo, chiudendo gli occhi. Il vecchio immobile non da nessun segno.
Sergio sta attento a non fare rumore mentre si siede, per non disturbare quella intimità. Ogni tanto con la coda dell'occhio la guarda, ma lei non si muove. Intanto ascolta il rumore pesante del respiro di suo padre. Lo sente, irregolare, lungo e ostinato come di chi ha fame d'aria e non la trova, corto e stizzito quando la libera controvoglia. Si alza e si avvicina per accostare le labbra alla sua fronte che brucia. Si sentono lontano rumori di passi e una porta che sbatte. Oltre le finestre un'ambulanza nel buio scheggia il soffitto di blu mentre si allontana cominciando il suo canto. Si volta un momento.
La ragazza sussurra all'orecchio del vecchio. Gli accarezza la guancia scavata e la testa pelata. Gli sistema meglio la maschera sul naso. I suoi occhi incrociano quelli di Sergio. I due si fissano immobili. Si scambiano un sorriso complice. Non dicono niente. Le bocche aperte su parole perdute. Lui esce nel corridoio al neon, lo percorre fino in fondo e si appoggia al davanzale. Passa qualche minuto, lei lo raggiunge e si mette al suo fianco. Il gatto rosso in cortile muove piano la coda mentre li guarda e miagola muto attraverso il vetro. “Mi chiamo Caterina”. “Mi chiamo Sergio”. Dall'altra parte una porta si apre con un certo frastuono.
Irene osserva lo schermo del suo telefono che strilla un numero sconosciuto. “Si”. “Signora Irene, sono il medico. Sono fuori dalla stanza di suo padre. Gli abbiamo tolto l'ossigeno e può stare solo un minuto”. Le dice da sotto una maschera con sopra una visiera trasparente, intanto che cammina. Tutto è confuso, sgranato, i movimenti meccanici e sconnessi. Immagini veloci. Lei che anche se è sola si chiude nella stanza. Sa che non deve crollare, non può. Sa che deve essere bugiarda. L'inquadratura del telefono passa dalla porta della stanza insieme a quel che si vede della faccia del medico, verde come un alieno. “Ecco sua figlia”. Rivolgendosi al vecchio con voce squillante. E lei lo vede obliquo, impreciso. “Papà”, grida forzando un sorriso. “Irene, amore”. Si arrampica lui nell'aria frenetica. “Come stai?” Aggiunge mentre il telefono nelle mani del medico perde quasi completamente l'inquadratura. “Papà, stai tranquillo. Domani vengo a prenderti”, gli dice accorata. “Domani torni a casa”, aggiunge mentre lo sente urlare incazzato che non la vede più e di tenergli il telefono dritto. Il medico allora si avvicina anche se non avrebbe voluto. Lei vede suo padre senza labbra perché non ha la dentiera. Il naso rosso e le guance strisciate dal segno della maschera. La barba bianca, gli occhi spaesati carichi d'angoscia. Irene vorrebbe piangere. Gli ripete che domani verrà per portarlo a casa, di stare tranquillo. Altre parole non trova. “Ma insomma mi vuol tenere questo cazzo di telefono dritto che non vedo niente” grida lui con l'ultima aria che ha dentro. Il medico si avvicina ancora. Lui aggiunge, “non ti preoccupare amore, c'è Sergio qui.” Lei non riesce più a parlare. “Capito?” Gli chiede. “C'è Sergio” insiste in affanno mentre allunga una mano per strappare il telefono. “Lo dia a me” grida. “Non vedo mia figlia”. Ma è lei che ha spostato la faccia per non farsi vedere. “Va bene papà, ho capito”. Lo rassicura dopo essersi sforzata e ripresa un momento. “Allora ci vediamo domani. Ciao papà. Ciao amore mio. Ci vediamo domani.” Ripete mentre il medico dice che si devono salutare. “Ciao. Ma non ti preoccupare. C'è Sergio ti ho detto”, mentre l'immagine si allontana e quasi non sente finire la frase. “Grazie dottore.” “Mi dispiace Signora.”
Irene si accascia sul letto spossata e guarda il soffitto mentre il rumore di una macchina passa. Piange muta mentre pensa a suo padre infuriato col medico. Pensa a suo padre che è ancora lui fino alla fine. Pensa a suo padre che gli dice di Sergio che è lì. Pensa a suo padre che strappa il telefono. Succede allora che la situazione sia talmente tragica e assurda da fare il giro su se stessa fino all'ilarità. Allora Irene comincia a ridere. Irene vomita risate. Ride via tutta la sua disperazione. Si deve tenere per non cadere dal letto da quanto ride. Ride tutte le lacrime che ha. Piange Irene. Piange fino a che non le manca il fiato. Fino a che non si addormenta. Fino a che non si addormenta e sogna. Sogna di quando era piccola e Sergio le accarezzava i capelli.
“È la prima volta che torni?” Chiede Sergio dopo qualche minuto. “Si”. Risponde Caterina. “Anche per me è la prima volta. Come per quasi tutti”. Dice l'altro. “Già”. Annuisce. “Me ne sono andata ormai quasi sessant'anni fa e non si era reso mai necessario tornare fino a qui.” Aggiunge che il vecchio nella stanza, quello che è venuta a prendere, è suo fratello. Sergio le dice che è tornato per suo padre e poi le chiede, “come te ne sei andata?” Dopo una pausa risponde che erano al mare, giocavano sulla spiaggia e la palla è caduta in acqua. Ha cominciato a nuotare per prenderla anche se non sapeva farlo bene. Non si è accorta della corrente che l'ha portata via e non c'è l'ha fatta più'. “E tu?” “Vent'anni fa. La miglior serata della mia vita. Quasi un sogno.” Ricorda. “Facevo il servizio d'ordine sotto al palco del concerto dei Pink Floyd. Mi sono anche fatto fare la dedica da David Gilmour sul pass. Guarda.” Dice d'un fiato mettendo una mano nella tasca del giubbotto e tirandolo fuori per farglielo vedere. “Tornando a casa in moto, ancora cantavo la mia euforia quando un camion all'incrocio non si è fermato.”
“Tornare per portarli via senza che nessuno possa accompagnarli fino a un certo punto come è sempre stato. Tornare fino a qui per non lasciarli soli e spaventati senza una carezza, un abbraccio di chi gli vuole bene.” Dice Caterina mentre guarda il pass e sorride. “Si.” Replica lui pensando a sua sorella disperata, mentre due infermiere passano correndo concitate, senza vederli. “Adesso devo andare,” le dice Sergio carezzandole una guancia, mentre si allontana con passo urgente, lasciandola li, a distanza di uno sguardo. Entra nella stanza di suo padre e lo trova seduto sul letto che lo guarda e gli dice “ti stavo aspettando”. Appoggia sul comodino il pass che gli era rimasto in mano, lo prende sottobraccio senza dire niente, e in mezzo a quel via vai si allontanano cercando il passo gemello come facevano tanto tempo fa per giocare.
Il telefono squilla cattivo. Insiste, quando non è ancora luce e non è più buio. È una voce gentile di donna quella a cui è toccato dare la notizia. Irene chiede cosa può fare. Se può vederlo ora che è bianco. Se può toccarlo almeno ora che è freddo. Signora non può.
Sono passati due giorni ora che percorre in mezzo ai fiori il viale nel giardino dei morti. Parla con suo padre sottobraccio. Gli dice che le dispiace che non ci siano stati abbracci, solo poche parole nascoste da una maschera. E tutti gli amici che non hanno potuto salutarlo, fargli un po' di compagnia. Gli parla del suo senso di colpa e dell'angoscia del sentirsi inadeguata per non aver potuto fare niente. Di averlo lasciato andare via così, dopo una saluto frettoloso quel giorno, su quell'ambulanza. Quando ancora non poteva sapere.
Arriva a casa. Tira fuori l'urna dalla scatola, la appoggia sul letto e continua a parlare alla polvere. Va in bagno a lavarsi la faccia. Torna e prende la busta che gli hanno dato in ospedale con gli effetti personali di suo padre. La rovescia sul letto. Sgrana gli occhi e si porta una mano alla bocca. Si alza in piedi. Un orologio, una dentiera, un telefono inutile. Il pass del concerto. Si volta e percorre il corridoio di corsa fino al ripiano dove la foto di lei con Sergio sorride. Il pass che era lì non c'è più. È nelle sue mani. Le par di sentire un rumore, pervadere un odore. Balbetta sei passi fino alla finestra. Sul marciapiede, un gatto rosso la guarda. La guarda lì, in piedi, in mezzo a suo fratello e a suo padre.
Valter Manunza
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