La felicità si paga sempre
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Il Mago.
Mi sveglio di soprassalto a notte fonda. Forse è il dolore, oppure è che ho dormito per gran parte del pomeriggio. No, è di nuovo quel sogno ad avermi svegliata; lo stesso identico incubo da nove mesi a questa parte: una specie di nube nera mi circonda, soffocandomi lentamente e impedendomi di respirare. Mi tiro su a sedere e prendo un respiro profondo, lasciando che l'aria fresca calmi la mia fame d'aria. Sono le 3:33, come sempre. Un brivido mi percorre la schiena nel ricordare che questa è l'ora del demonio. Fortunatamente la parte razionale di me, che ogni tanto funziona, mi dà dell'imbecille e mi impone di tornare lucida. Cerco di girarmi su un fianco per riaddormentarmi ma il dolore mi investe e mi obbliga a restare nella stessa posizione. Chiamerei mia madre per farmi aiutare, se non fosse che odio essere aiutata. Chiedo supporto solo per il minimo indispensabile ed è già capitato che mi desse una tirata d'orecchi perché avrei potuto chiederle aiuto prima. Io però è così che sono fatta: non voglio dar fastidio a nessuno e in fin dei conti di essere conciata in questo modo un po' me lo sono meritato. Me lo avevano detto durante le lezioni di non guidare assolutamente in stato di agitazione. Io, pur di sfuggire al presente, ho preso lo stesso la macchina e sono partita a tutta velocità, poi mi sono diretta verso il parcheggio del centro commerciale e ho iniziato a girare a casaccio. Non ero già in un buono stato mentale di mio, l'asfalto era più scivoloso del solito perché aveva appena nevicato ma l'universo ha pensato non fosse sufficiente e l'ha mandato: un piccolo, peloso e occhiuto artropode ha deciso di farmi uno scherzetto calandosi dal tettuccio fin sul mio volante. Io, che sono enormemente aracnofobica, ho urlato e sterzato come una pazza fino ad andare a schiantarmi contro un palo della luce. Palo semidivelto, danni a proprietà privata e svariate fratture con annesso colpo di frusta. Ragno stranamente sopravvissuto, patente no. E così eccomi immobile nel mio letto, a dormire ancora meno di quanto riesca a fare di solito e con un po' di traumi da risanare. Chissà se prima o poi riuscirò ad uscire da questo limbo di negatività che ormai mi circonda da anni. Mi sembra di esserci cresciuta per talmente tanto tempo che forse mi troverei come un pesce fuor d'acqua in una situazione serena. Mi è capitato in passato, in momenti di serenità, di sentire una grandissima angoscia all'idea di lasciarmi andare alla felicità, come per paura che la malinconia e la sfiga, amanti gelose e vendicative, poi me la facessero pagare con tanto di interessi. Io però a questo giro ho davvero tanta voglia di divorziare. Devo solo capire come fare la muta e ripartire da zero. Con questo pensiero, mi assopisco nuovamente e quando riapro gli occhi, ormai è ora di alzarsi. Mi tiro su a sedere lentamente, facendo perno sulle mani. Cerco il comodino ancora a occhi chiusi, recuperando un paio di calzini. Infilo prima la calza destra, poi la sinistra. Poi cerco con il piede la ciabatta destra e a seguire quella sinistra. Dall'armadio pesco la mia solita tuta nera di un paio di taglie più grossa del necessario e la infilo senza troppe cerimonie. Vado in bagno e mi lavo le mani tre volte, facendo attenzione a risciacquare il sapone facendo scorrere l'acqua a partire dai polsi. Ho l'impressione di aver eseguito male il lavaggio, quindi ripeto un'ultima volta. Prima di uscire dal bagno ripulisco il bordo del lavandino, poi prendo il dentifricio e lo metto a sinistra degli spazzolini. Barcollo fino in cucina, dove prendo la mia solita tazza e la riempio esattamente a tre quarti. Apro l'anta storta della dispensa e mi servo di tre fette biscottate, sulle quali spalmo tre cucchiaini rasi di Nutella ciascuna. Ho un preciso verso e un preciso angolo dal quale partire. Sempre da destra a sinistra, mai il contrario per nessuna ragione. Sempre dall'alto verso il basso, mai il contrario per nessuna ragione. Mamma mi raggiunge poco dopo, vestita di tutto punto. È una donna molto bella. Mio nonno è svizzero tedesco e mia mamma ha preso da lui il suo fascino nordico: è slanciata e biondissima. Ha gli occhi azzurro ceruleo e un seno generoso. Non dimostrerebbe nemmeno i suoi anni, se non fosse per l'evidente stanchezza che le sfigura il viso giorno dopo giorno. Ancor prima di darmi il buongiorno, mi squadra da testa a piedi, scuotendo poi impercettibilmente la testa, delusa. - Certo che per una volta potresti prepararti un pochino meglio, figlia mia. Hai altre cose nell'armadio che non siano pantaloni della tuta e T-shirt nere. E poi hai ventidue anni, ogni tanto acconciateli quei capelli. - Ha la voce stanca e triste ma questo discorso mi infastidisce. Sa benissimo che io non funziono così. Non mi sento a mio agio nel prepararmi e nell'essere guardata. E poi, soprattutto da quando ho avuto l'incidente, non mi piace mettere pantaloni stretti, perché sono scomodi. - Vado bene così, mamma - rispondo secca. - Scusa, non volevo rimproverarti, è solo che sei una bellissima ragazza. Se solo ti valorizzassi un po'... - , si giustifica lei, addolcendo il tono della voce e guardandomi meno duramente. Tronco il discorso sul nascere, dandole un abbraccio per rassicurarla sul fatto che è tutto a posto. Sono abituata a questi discorsi. Sin da quando ero piccola le ha sempre dato fastidio il mio modo di fare: troppo poco femminile, troppo sciatta, troppo fuori moda. C'è stato un periodo, quando avevo 17 anni, durante il quale ha tentato di convincermi a indossare i tacchi, buttando via le mie amate scarpe da ginnastica e sostituendole con stivaletti in finta pelle nera plissettati lunghi fino al ginocchio. Era convinta che me ne sarei innamorata, invece li avevo usati giusto il tempo di andare a comprare un paio di scarpe economiche al negozio più vicino. È sempre stata un po' guerra tra il mio modo di essere e il modo in cui lei mi avrebbe voluta vedere. - Dai, vai a prepararti che ti accompagno - , mi sprona. - Ok, faccio il letto e arrivo. - Devo sempre farlo prima di andare via di casa e sempre allo stesso modo. Se non lo faccio, nella mia testa inizia a prendere spazio il pensiero che quella è stata l'ultima volta che ho usato il letto. Come se non rifarlo comportasse il non doverci dormire mai più. Quando stavo particolarmente male, non riuscivo nemmeno a cambiare periodicamente le lenzuola, per paura che questo cambiamento avrebbe significato guai. Uso fare questi rituali da tanto tempo. Credevo fosse normale, fino a quando non mi hanno mandata dalla terapeuta e allora ho scoperto che non è una cosa che fanno tutti. Ho sempre pensato che il mondo fosse permeato da una magia antica e, da che ne ho memoria, ho sempre creduto di poter manipolare la realtà con formule magiche e riti bizzarri. Ho scoperto solo pochi mesi fa che è un modo che la mia mente ha trovato per esprimere la nevrosi, o meglio, è il modo attraverso cui la mia nevrosi si esprime, ma questo non mi ha comunque aiutata a smettere. Stendo il lenzuolo calcolandone prima l'esatto centro, poi metto il cuscino contro lo schienale e ho finito. Do un'occhiata alla stanza: c'è molta polvere, ma anche in questo caso, nella mia testa, togliere quella polvere è come cancellare il passato e non mi riesce semplice. Per poter riordinare la mia stanza o buttare vecchi oggetti ho specifici rituali e frasi magiche da ripetere e non posso farne a meno. Certo, ci sono tante cose che cancellerei anche subito, se potessi, ma sotto a quelle ci sono le meravigliose giornate passate con i miei nonni, le risate con mia mamma, i libri letti nella calda luce della sera e di queste cose non vorrò disfarmene mai. Ad ogni modo, è lunedì e questo significa una sola cosa per la mia nuova routine: fisioterapia. Zoppico all'ingresso, dove mi infilo un paio di anonime scarpe nere da ginnastica e prendo la mia fedele tracolla di tessuto nera: ce l'ho da quando andavo alle superiori e nonostante sia quasi un pezzo d'antiquariato, non potrei mai farne a meno. Sono talmente affezionata a questo fossile che periodicamente ripasso con il bianchetto a penna il disegno delle porte di Moria, che ho fatto quando avevo 14 anni. Ci sono un paio di cose che non sopporto proprio: una di queste sono i ragni, l'altra sono i dentisti, poi ci sono le persone che superano la fila facendo finta di nulla e da diverse settimane a questa parte in classifica sono entrati anche i fisioterapisti. Ho fatto diverse sedute in ospedale ma, contrariamente ai miei propositi di miglioramento, non sono mai riuscita a rendere il lavoro più semplice a nessuno di loro. Anzi, tranne un paio di eccezioni, in ospedale li ho stressati tutti parecchio. Il contatto fisico non è il mio forte, come non lo è il lasciarmi andare. Fortunatamente oggi non sono in ospedale ma in una clinica, la clinica Croci, per l'esattezza, che si trova in centro città. È un posto all'avanguardia; ho sentito dire che ci sono moltissimi professionisti diversi e che utilizzano tecniche delle più disparate. Ci tengono molto alla cura della persona e per questo motivo, quando entro in studio, non sono affatto sorpresa di vedere il capo della clinica, il dottor Valter Croci, che mi accoglie con un sorriso rassicurante, mentre mamma va a sedersi in sala d'aspetto. È un uomo canuto sulla sessantina. Probabilmente è prossimo al pensionamento, però si tiene in forma: ha un fisico asciutto ed è ben vestito. Mi guida gentilmente verso il suo ufficio, studiando la mia cartella. Quasi sicuramente è stato il mio medico di famiglia a contattarlo, dietro suggerimento della mia analista, la dottoressa Binelli. Lei ha insistito molto affinché fosse una figura fissa a occuparsi di me, perché, come direbbe lei: “il prendere confidenza con il terapista è il primo punto di partenza per instaurare un rapporto di fiducia”. Io sono solo in parte d'accordo, visti tutti i miei problemi. Problemi di cui il dottore è stato messo quasi sicuramente a conoscenza, dato che mi studia sporadicamente di sottecchi. La clinica è più grande di quanto mi aspettassi. Al pian terreno, nell'ingresso, a fianco della reception, ci sono due ascensori molto ampi che conducono a tre piani diversi. Il dottor Croci preme il numero due con decisione. Le porte si aprono su un corridoio che si allunga sia sulla destra che sulla sinistra. Davanti a me, dei finestroni lunghi quanto tutta la parete si aprono sulla strada, rendendo il corridoio luminoso e poco adatto a chi soffre di vertigini. Sull'altro lato del corridoio tante porte con nomi di professionisti diversi lasciano intendere che ognuno di loro ha un proprio spazio personale. L'ufficio del dottor Croci è ampio e un po' ovunque sono esposte raffigurazioni del corpo umano. - Bene, signorina Tobler, è un piacere conoscerla - . Il suo tono è cortese ma tradisce una certa ansia. Va a sedersi dietro alla scrivania e mi fa cenno di accomodarmi davanti a lui. - Il dottor Grevi mi ha già più o meno spiegato la situazione, certo un brutto incidente - , e mi guarda la gamba. - Da quanto tempo ha tolto il gesso? - - Due settimane esatte, Dottore. - - Vedo che non ha le stampelle ma che appoggia molto poco il peso: in ospedale le hanno dato degli esercizi da fare a domicilio? - - Sì, mi hanno dato alcuni esercizi per la mobilità, altri per rinforzare in generale. - - E lei li sta eseguendo tutti con costanza? - Scuoto il capo timidamente. In effetti no, non li sto eseguendo con costanza per un buon motivo: mi sono stati spiegati un po' di fretta, in un momento in cui non ero concentrata. Facendoli a casa sento dolore e non sono sicura di farli in modo corretto. Glielo spiego e sembra comprensivo. - È importante però che da oggi in avanti lei si impegni a seguire lo schema che le verrà dato con costanza - . Prende un paio di moduli e me li consegna. - Ecco, dovrebbe gentilmente compilarmi questi. - Due questionari sullo stato di salute, domande su eventuali malattie trasmissibili e poi altre su eventuali farmaci assunti. Completo senza fare domande, poi gli consegno il tutto e lui legge, interessato. Dopo aver annuito un paio di volte, consulta il suo tablet e guarda l'orologio, poi prende sottomano il mio fascicolo e mi fa cenno di alzarmi. - Venga, l'accompagno dal suo terapista. - - Mi scusi? Non sarà lei ad occuparsi di me? - domando, preoccupata. Non ho facilità a legare con le persone ma di sicuro faccio molta meno fatica con quelli di parecchio più grandi di me, mentre la situazione è in genere catastrofica con le persone più giovani o di poco più grandi. Sono in terapia per questi e per altri motivi e mi stupirebbe se la mia analista non avesse specificato la cosa. - Oh no, io ormai sono vecchio per la parte pratica, mi occupo unicamente delle scartoffie. - - Mentre il mio terapista sarà? - chiedo, con la voce che fa trasparire più preoccupazione di quanta non ne vorrei. Mi riaccompagna verso l'ascensore dal quale siamo arrivati, per poi proseguire dall'altro lato del corridoio. Arriviamo fin quasi a metà, prima di rallentare il passo. - Lui. - Mi indica un uomo molto giovane, probabilmente sulla trentina, con i capelli scompigliati e la barba di pochi giorni leggermente incolta. Ha gli occhi marroni e non è particolarmente alto, deve essere un metro e settantacinque, su per giù. Sta parlando con una collega, appoggiato allo stipite dell'ultima porta e non si è ancora reso conto di noi. Il capo clinica mi sta spiegando che è una persona fidata e che lavora con loro da diversi anni ormai, quando arriviamo a pochi metri da lui e finalmente ci guarda. Non è un brutto ragazzo ma non è nemmeno un adone e nonostante questo, appena i miei occhi incrociano i suoi, sento come un colpo mancarmi in petto. È una sensazione insolita per me; immagino che sia semplicemente un modo come un altro per il mio inconscio di sottolineare che “ci siamo: un ragazzo e pure giovane” ma tengo comunque per me ogni tipo di reazione. Lui congeda la collega e ci fa galantemente cenno di entrare nell'ufficio. Come avevo già notato, ogni fisioterapista qui ne ha uno e durante il percorso con il dottor Croci ho potuto vederne diversi, tutti rigorosamente bianchi arredati di mobili azzurri. Il suo, pur tenendosi su questa falsa riga, ha un sacco di decorazioni tribali strane e oggettistica orientale. Sul lato destro, oltre a due librerie che occupano quasi l'intera parete, c'è una scrivania, con un portatile aperto e un modellino dello scheletro umano vestito a tema Blues Brothers. - Non ditemelo: questo è lo stregone del villaggio - mi lascio scappare. Mi capita di parlare a sproposito quando sono agitata. Lui guarda la mia tracolla, alza un sopracciglio e incrocia le braccia sui fianchi. - E non uno qualsiasi, si dà il caso che tu abbia davanti uno dei più famosi proseliti di Gandalf il bianco, mio piccolo Hobbit - . Non so se sorridere, sentirmi in imbarazzo o essere arrabbiata. Sta chiaramente facendo dell'ironia sul fatto che se supero il metro e mezzo è per pochissimi centimetri e lo fa senza neppure conoscermi, ma mi piace che abbia citato uno dei miei libri preferiti e quindi questa gliela abbuono. - Ma che...cosa... sei serio? - , faccio io arrossendo furiosamente. Noto con sgomento di avergli dato del tu e di aver usato troppa confidenza. Forse è stata l'agitazione a parlare per me ma ormai è fatta. Lui sorride divertito. - Ovviamente. Io sono lo stregone della situazione e non c'è nulla che ti potrà salvare dalle mie grinfie - lo guardo esterrefatta, mentre piega le dita a mo' di artiglio. - E questo da dove lo avere tirato fuori? - chiedo al dottor Croci, ancora confusa da quello che sta accadendo, e stupita dalle mie reazioni. - Lui, signorina Tobler, è il fisioterapista che la sua psicoterapeuta ha indicato come più adatto. Se non la mette a suo agio lui, non lo farà nessuno - . Poi si rivolge a lui - Natan, ti lascio carta bianca. A quanto pare è un osso duro e se riesci a domarla, ti do un aumento - . Apro la bocca per protestare: non sono mica una bestia famelica; ma detto questo lui esce dalla stanza, consultando il tablet e parlando fra sé e sé dei prossimi appuntamenti da sistemare. Il ragazzo mi si avvicina e porgendomi la mano si presenta come Natan Broel. - Non dirmi che hai anche tu origini Svizzere. - Scuote la testa. - I miei antenati sono originari della Germania, ma siamo in Italia da generazioni ormai, perché? - - Beh, perché mia cugina aveva un vicino di casa con quel cognome. - Sorride. Ha un sorriso molto dolce. - Sentiamo: che hai combinato per essere mandata dritta dritta da me? - Faccio spallucce e mi guardo nuovamente attorno. Mi sento stranamente a mio agio, qui. Alcuni manufatti li ho già visti in un documentario, altri invece, la maggioranza per dire il vero, mi sono completamente sconosciuti. Due in particolare mi colpiscono, perché sono attaccati alle pareti ai due estremi della stanza. - Belli Barong e Rangda, eh, ma non sono un po' fuori posto per lo studio di un fisioterapista? - Mi guarda sorpreso, forse colpito dal fatto che io conosca la leggenda dietro le maschere che ha appeso. - Perché dovrebbero? Il bene e il male si fronteggiano nella nostra vita in ogni singolo momento, perfino in uno studio di fisioterapia. Ognuno di noi affronta i suoi demoni quotidianamente e io amo ricordare che per ogni Rangda esiste un Barong pronto a sconfiggerla. E poi la fisioterapia è anche questo - lascia in sospeso la frase, dandomi un po' sui nervi. - Una continua lotta tra bene e male? Fammi indovinare, i muscoli sono il bene e le fratture sono il male - scherzo io, forse mantenendo un tono troppo secco, perché lui mi guarda perplesso, posando le braccia sui fianchi. Gli occhi mi squadrano, contornati da un naso fastidiosamente dritto e da due labbra molto sottili. - Mettiamola così: tu sei il bene e ciò che vivi negativamente è il male. Ogni tanto il male penetra così in profondità che il nostro corpo inizia a subirlo fisicamente. L'ansia e lo stress salgono e tu inizi ad avere il torcicollo, o la cervicale infiammata o il mal di pancia. Ogni tanto il male semplicemente capita sotto forma di incidente e ci mette alla prova fisicamente e mentalmente e non possiamo far altro che cercare di aggiustarci. In entrambe i casi, io sono qui per insegnarti ad aggiustarti. Altre domande? - Scuoto la testa. Si siede sul suo sgabello e si spinge verso la scrivania, prendendo in mano il mio fascicolo. Credo di sapere cosa sta per leggere e vorrei che lo evitasse ma non posso far altro che incrociare le mani dietro la schiena e far silenzio, in attesa di una sua reazione. Tanto, è probabile che la Dottoressa Binelli abbia già detto tutto di me, avendo da mesi il mio lasciapassare per le comunicazioni ad altre figure professionali. Ad ogni modo, se anche rimane colpito da qualcosa non lo dà a vedere; anzi, annuisce completamente assorto e torturandosi il labbro con due dita, borbottando di tanto in tanto. Dopo un po' si rivolge semplicemente a me, domandando quali tipi di dolori avverto e quali esercizi mi sono stati dati da fare a casa. Elenco contando sulle dita. - Beh, vediamo... mi hanno dato da fare 3 esercizi per la gamba, 4 per il collo e altri svariati esercizi per la schiena. - - Bene, vediamoli - , fa lui, indicando il lettino. Mi ci siedo sopra e gli mostro quelli per la gamba, indicando quando e dove mi fa male e chiedendogli di correggermi. Si siede sullo sgabello di fronte a me e mi prende il polpaccio per farmi vedere il movimento corretto e non posso fare a meno di trattenere il respiro e irrigidirmi. Anche se questa persona mi ha toccata, la sfortuna sarà evitata. Anche se questa persona mi ha toccata, la sfortuna sarà evitata. Anche se questa persona mi ha toccata, la sfortuna sarà evitata. Anche se qu... Mi rendo conto di bofonchiare ma non sembra farci caso, anzi: mi indica roteando l'indice a mezz'aria. - Molto bene. Ora sdraiati a pancia in giù che do un'occhiata alla schiena. - Scendo istintivamente dal lettino. - No. - Mi guarda interrogativamente. - No? Perché no? Vuoi una mano a sdraiarti? Ti fa troppo male? - Gli rispondo fissando varie cose in giro per la stanza, perché il colloquio inizia a rendermi nervosa. - Non voglio stare sdraiata, non voglio spogliarmi, voglio che tu eviti il contatto fisico, se non strettamente necessario e se possibile preferirei evitare il dolore. Scusa la franchezza ma preferisco essere da subito in chiaro. - Mi guarda in silenzio per svariati secondi, con la bocca aperta e l'espressione di chi non riesce a capire se sto scherzando oppure se sono seria. - Davvero, ti prego - , continuo io. - Delle pretese da nulla, per una che deve fare fisioterapia - accenna un sorriso, non del tutto convinto - per tua fortuna sono un fisioterapista un po' pazzo e molto sul pezzo e c'è poco o nulla che io non possa fare. E ora ritorna sul lettino e fammi vedere un po' cosa abbiamo qui - . Faccio per aprire bocca per protestare ma lui deve aver già intuito quali saranno le mie rimostranze; perciò, mi guarda furbamente e precisa - ho detto di salire sul lettino, non di sdraiarti. Mi basta che tu stia seduta. - Passa i 10 minuti successivi a farmi muovere la schiena per vedere quanto e come riesco a farlo, poi mi chiede se si sono presentati altri dolori di recente. Le spalle in effetti fanno male e sono bloccate da un paio di settimane, probabilmente la mia immobilità notturna non aiuta. Verifica di nuovo la mobilità, poi inizia a farmi fare gli esercizi che avevo già iniziato in ospedale per controllare come li faccio. Dopo un paio di ripetizioni alla parete, sembra abbastanza soddisfatto. - Per oggi basta così, ma questi esercizi non saranno sufficienti a lungo andare, quindi studierò qualcosa. Per quanto riguarda le spalle, probabilmente è una contrattura. Potrebbe essere utile lasciarmi fare un massaggio decontratturante - . - Me lo hanno già fatto in ospedale e non offenderti ma non se ne parla. O meglio, se ne parla solo se hai qualcosa che non faccia male e che non implichi troppo contatto fisico - , preciso. Mi guarda confuso e perplesso. So bene che la mia richiesta è strana forte. Per finire, sparisce fuori dalla stanza per un paio di minuti e torna con un macchinario che fa applicazioni di freddo e caldo, del tutto simile a un ecografo, per cercare di darmi almeno un po' di sollievo. - Almeno la spallina della maglietta puoi abbassarla? - Annuisco, poi mi spalma una gelatina fredda sulla spalla e inizia a massaggiarmi con la testina. Anche se questa persona mi ha sfiorata, la sfortuna sarà evitata... - Hai viaggiato molto? - mi chiede, dopo alcuni minuti di silenzio. - Per dire il vero sono uscita dall'Italia solo un paio di volte e solo per andare a trovare i parenti in Svizzera - . - Come sapevi di Rangda e Barong allora? - - Guardo moltissimi documentari. Mi piace conoscere nuove culture e vedere come se la passano nel resto del mondo - la testina fredda del macchinario mi sfiora la pelle del collo, facendomi rabbrividire. Abbasso appena appena la maglietta sulla spalla, quanto necessario per farlo lavorare meglio. - Immagino che tu sia una fan sfegatata di Alberto Angela. - - Puoi dirlo forte! - lascio trasparire tutto il mio entusiasmo, è strano per me, riuscire ad aprirmi così - e prima di seguire lui seguivo suo padre in TV. Se gli altri al pomeriggio guardavano Bim Bum Bam, io guardavo le cassette di “Quark” che mi faceva mamma con il nostro vecchio registratore. - - Ah, il buon vecchio VHS, non sai quanto tempo ci ho passato davanti anche io. - - Eri anche tu un assiduo fruitore di programmi che venivano trasmessi in orari a noi proibiti? - - Più che altro i miei finivano sempre di lavorare tardissimo e Dragon Ball lo trasmettevano al pomeriggio - una vena di malinconia sembra incrinargli la voce. - Posso capirti, anche io ero sempre una delle ultime ad andare via da scuola. - - E la passione per Bali da dove arriva? - indaga, forse più per passare il tempo in qualche modo che per reale interesse, però mi sento più rilassata e tranquilla, mi piace che lui riesca ad inserirsi così bene nel mio mondo fatto di stranezze. - Avevo un professore di geografia particolarmente bravo nel fare il suo mestiere. - - E non ti piacerebbe, chessò, prendere un bell'aereo e vedere quei posti dal vivo? - - Proprio no. Io e gli aerei non siamo fatti per coesistere nello stesso luogo e nello stesso momento. Più mi stanno alla larga, meglio è - . Il sosia dell'ecografo emette un paio di “Bip” sonori. Dopo poco Natan smette di massaggiarmi, si alza dallo sgabello e viene in avanti, tenendo la testa leggermente ricurva di lato e gli occhi socchiusi. - Gli aerei sono marchingegni fantastici e non ti permetto di offenderli in questa sede - , dice portandosi le braccia ai fianchi, in tono scherzoso - e per la prossima volta ti assegno un compito importante: voglio che provi a scaricare la tensione dalle spalle e dal collo facendo dei bei bagni caldi e applicando una crema all'arnica - poi mi asciuga dalla gelatina e mi fa alzare. - Voglio rivederti tra un paio di giorni. Dobbiamo intensificare le sedute se non vuoi rimetterci una gamba - . Non capisco se stia scherzando o se sia serio ma dopo essermi congedata prendo appuntamento per il posdomani al pomeriggio e mi reco verso l'ingresso, dove mia madre sta amorevolmente chiacchierando con il dottor Croci. La discussione si blocca non appena mi avvistano. Poi lui mi fa un cenno con la mano e si dirige verso gli ascensori. - Eccoti. Allora, com'è andata? - chiede lei, speranzosa. - Dai, devo dire che è più interessante di quanto non avrei pensato, mi hanno addirittura sfottuta per la mia altezza. - Non sorride, pur vedendomi tranquilla. So cosa le passa per la testa, e conferma i miei sospetti quando mi chiede - tu non te la sei presa, vero? Devo farti andare da un'altra parte? - - No ma', sta tranquilla, è tutto a posto. Mi hanno citato il signore degli anelli, sai che non potrei mai prendermela. - - Prossimo appuntamento? - - Dopodomani - , rispondo a voce molto bassa. - Ah - , si paralizza lei. Non navighiamo nell'oro, anzi. - Ci sono problemi? - - No, non credo che i nonni avranno da ridire. - Annuisco. Santi nonni. Apro la portiera e salgo facendo perno con le mani sul sedile. Appoggio la borsa sul tappetino e prendo le salviette. Passo accuratamente mani e avambracci, poi do una passata di rinforzo con il disinfettante. Mi sciolgo i capelli e li raccolgo in una treccia fatta alla bell'e meglio. - Ora possiamo andare? - - Si mamma, ho finito. - Prima di mettere in moto, mia madre mi squadra dalla testa ai piedi, poi arriccia il naso, come nauseata. So che le dà fastidio la mia apparenza. Vorrebbe che somigliassi a lei, che fossi bionda e con gli occhi chiari, invece sono l'immagine sputata di mio padre. Di svizzero tedesco ho solo il nonno. Guardo la mia immagine riflessa mentre mamma mette in moto la macchina. Mi appoggio contro il finestrino, mentre la nostra Fiat Panda azzurro cielo ci riporta verso casa.
Angela Jemmo
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