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Autore: Andrea Corcione
La Teoria Degli Equilibri
Romanzo Umoristico
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La Teoria Degli Equilibri
Io, Pietro Santini, sono un vecchio bastardo impertinente, cinico e opportunista. Questo sono io, non ho fretta di esistere, guardo gli altri arrabattarsi, correre, sudare, illudersi di essere gli artefici del proprio destino, in un'affannosa corsa che ci porta tutti inesorabilmente alla stessa meta, ma per quale motivo? Dove cazzo andate?
Ho sempre scelto di non correre, col passare degli anni poi ho rallentato il passo e li ho fregati tutti, di giorno in giorno mi sento sempre meglio. Quando ero ragazzo, desideravo diventare vecchio, ho passato tutta la mia giovinezza schivando obblighi e responsabilità, mi sentivo oppresso. Forse in quegli anni ero inconsapevolmente giovane fuori, ma anziano dentro.
Con il passare degli anni mi sono riappropriato di me stesso, è stato come raggiungere un grande traguardo. Da qualche anno sono davvero vecchio, ne sono cosciente e me ne approfitto. Credo di aver raggiunto il mio equilibrio, sono finalmente io, finalmente libero. Ora ho ufficialmente la patente da vecchio, parlo da vecchio, mi muovo da vecchio. In realtà è solo un bluff, dietro la mia pelle rugosa c'è un ragazzino sveglio. Gli altri non lo sanno, è questo il bello. Nessuno si aspetta più nulla da me, non ho più nulla da dimostrare, i miei esami sono finiti da un pezzo. Ora mi godo il successo e guardo gli altri con disprezzo. Poveri illusi, credono che io sia invecchiato dentro e fuori, che la mia mente stia marcendo insieme al mio corpo, mi trattano come un vecchio rincoglionito.
Questa cosa mi fa godere troppo. A volte mi sembra quasi di indossare una maschera, se gli altri sapessero quanto ho lottato per queste rughe, per questo corpo da vecchio. Io non sono come loro, non lo sono mai stato, non ho mai avuto catene al piede, non ho mai preso moglie, non ho figli, non ho mai veramente lavorato un giorno in vita mia. Ora ne raccolgo i frutti, sono in pensione da sempre e tutto questo mi ha giovato.
Guardo i miei coetanei seduti sulle panchine al parco, hanno lo sguardo perso nel vuoto, il corpo e la mente provati da quarant'anni di lavoro, quarant'anni passati a chinare sempre la testa, a dire sempre di sì al padrone, magari sempre con la stessa donna, passati a risolvere i problemi degli altri, a correre dietro ai figli e poi dietro ai nipoti. Io non ho fatto nulla di tutto questo, sono riuscito ad arrivare mentalmente sano alla meta. Se per un attimo gli altri capissero che è stato tutto inutile, comincerebbero a vivere come me, da persona libera. Certo questa vita non è per tutti, ci vuole tanto pelo sullo stomaco e una buona dose di cinismo e indifferenza.
Esco di rado, non mi piace la gente, tra le quattro mura di questa vecchia casa conduco una vita in estrema solitudine. Metto il naso fuori dalla porta solo per procurarmi del cibo, o meglio, vado a fare la spesa nell'unico supermarket di questa merda di quartiere. Esco la sera prima della chiusura dei negozi, quando tutti sono già tornati a casa, con il mio vecchio carrellino a quadri, grigio e marrone, qualche minuto prima delle venti. Compro quelle quattro cose necessarie alla sopravvivenza, la cassiera mi conosce e mi odia profondamente. Lo so, lo capisco da come mi guarda, è una grassona con i capelli unti e la faccia da stronza, so che mi odia, ma proprio non mi interessa.
Ho l'esperienza e la sapienza di un vecchio guerriero giapponese, uno di quelli con il chimono e la spada, ho sulle spalle una vita piena di merda e poi, se devo essere sincero, me la godo. In realtà potrei andare a fare la spesa in qualsiasi momento della giornata, sono sempre libero, ma vedere il viso seccato di quella cicciona non ha prezzo. La mia è una specie di perversione, godo nel torturare quella povera obesa, provoca in me un enorme piacere.
La verità è che sono le venti, quasi, ed io sono ancora tra le corsie a scegliere cosa comprare per la cena, o meglio, fingo di guardare la scadenza sulla scatola di piselli tenendo d'occhio i suoi movimenti. «Che cazzo ti sbuffi, brutta grassona, dove cazzo devi andare, vuoi farmi credere che qualcuno ti aspetti a casa?» Questo credo di averglielo detto un mese fa, non mi è sembrata molto contenta. Mi ha sbattuto fuori e ha tirato giù la saracinesca, le parole esatte sono state: «Stupido vecchio, fanculo tu e il tuo parrucchino di merda.»
Sì è vero, porto la parrucca, i capelli ho cominciato a perderli verso i quaranta, ne avevo tanti, ora ne ho pochi, pochi superstiti sparsi lungo una lucida pelata da vecchio. Io, vaffanculo, mi sono comprato una parrucca color mogano. Sempre la stessa da vent'anni, una fedele amica che la sera dorme sul mio comodino. In vent'anni credo di averle fatto il bagno due o tre volte, per il resto vado avanti con abbondanti spazzolate che fanno cadere tutti quei frammenti secchi, pallidi come la neve. Ci sono affezionato, una mignotta una volta mi ha detto che con la parrucca sembro anche dieci anni più giovane. Valle a capire le mignotte, forse quel complimento mi è costato trenta o quaranta bigliettoni, non ricordo più.
Sì è vero, mi piacciono le mignotte, è una specie di malattia, anche se non pratico più da tempo, alla mia età sono come un pugile suonato che ha appeso i guantoni al chiodo, da diversi anni credo di aver appeso il cazzo al chiodo. Ne ho viste tante, diciamo che ho esplorato il mondo della topa in lungo e in largo toccando talvolta punte di vera depravazione. Ne ho viste tante anche se alla mia età molti ricordi cominciano a sbiadire, mi sembrano poco chiari, a volte vorrei fissarne un frammento, afferrarlo e attribuirlo a un nome, un fatto, un luogo. Ricordo in maniera confusa, mani, tette, bocche, occhi, tutte in un unico calderone, senza un ordine preciso, come in un quadro astratto.
Poco importa, l'importante è ricordare la prima e l'ultima volta. Quelle le ricordo bene, sono affezionato a entrambe per diversi motivi. La prima mi ha letteralmente condizionato la vita, il senso della scoperta, vedere materializzarsi l'oggetto dei tuoi desideri, vederla lì davanti a te, non ha prezzo.

La signora dell'amore

Avrò avuto quindici anni al massimo, ma ne dimostravo a stento dodici. Da qualche mese sentivo crescere in me un certo appetito, come un fottuto bisogno necessario, qualcosa che il mio corpo e la mia mente cominciavano a richiedere insistentemente.
Non lo sapevo, ma io cercavo sesso, quello vero. Anche perché le esperienze pratiche in quel senso erano pochine, limitate al puro autoerotismo, alle pippe insomma. Di quella pratica ero diventato un vero professionista, avrei potuto vincere il campionato regionale, battere ogni record. Amavo farlo di notte, di giorno, a letto, in bagno, da qualche anno avevo scoperto il piacere solitario e fino a quel momento le mie cinque dita erano state delle fedeli amiche. Avevo il mio giocattolo preferito tra le mani e questo mi bastava. A volte chiudevo la porta della stanza a chiave, creavo la penombra spegnendo l'abat-jour e lasciavo filtrare solo la luce dei lampioni attraverso la finestra.
Nella mia testa cominciava il film, mi abbandonavo alle mie fantasie, era l'epoca dei tombeur des femmes, dei playboy belli e dannati, desiderai spesso di essere come loro, mi ero creato perfino un alter ego, nei miei sogni io ero Johnny Branko, uno spregiudicato seduttore che casualmente incontrava la rossa Jessica, procace e disponibile fanciulla pronta a soddisfare ogni suo desiderio. In base al tempo a disposizione, alla voglia e al grado di eccitazione, la sceneggiatura poteva essere ridotta o ampliata. In condizioni normali la storia partiva da molto lontano e Johnny aveva tutto il tempo di chiacchierare con Jessica, bere un drink insieme, accompagnarla in albergo, salire in stanza ammiccando all'addetto alla reception e infine darsi alla pazza gioia.
Quando la voglia era tanta e mi sentivo su di giri, con gli ormoni da adolescente a fior di pelle, Johnny caricava velocemente Jessica in auto senza fermarsi a bere un drink, entrava in albergo senza salutare nemmeno il tizio alla reception e, in dieci secondi netti, Johnny, Jessica ed io raggiungevamo insieme il massimo piacere.
Alla lunga tutto questo divenne noioso, desiderai fare il grande passo, sperimentare qualcosa di concreto. Avevo voglia di carne cruda, di toccare con mano, di entrare con tutto me stesso in quel fantastico mondo. Sognavo culi, tette, cosce e poi ancora lingue roventi, baci proibiti. Avevo il cervello in tilt e stavo sempre peggio, l'unica medicina possibile, l'unica cura al mio malessere erano le quattro lettere della parola topa.
La faccenda apparve piuttosto complicata. Uscivo poco, senza amici, scuola a parte, la mia vita sociale era inesistente. Ero forse un bimbo precoce, scaltro a modo mio, ma abbastanza solo. Il problema più grosso fu dunque quello di trovare una Jessica in carne e ossa. Le ragazze della mia età non mi piacevano, vestivano ancora con i calzettoni e portavano le trecce. Io poi ho sempre avuto un debole per le donne procaci, con grosse mammelle rotonde, un corpo giunonico, abbondante, caldo e materno. Poi ci fu un'apparizione, come una benedizione dal cielo, apparve lei.
Successe una sera noiosa d'estate, quando è tardi, ma il caldo umido e afoso si fa ancora sentire. Ero affacciato alla finestra della mia stanza a contare le poche auto che passavano veloci, quando vidi scendere da una lunga automobile scura una donna. Era piuttosto lontano per poter distinguere i particolari, ma la vidi affacciarsi al finestrino, infilare la testa come per dare un bacio alla persona seduta al posto di guida e poi salutare con la manina. Incuriosito, cominciai a osservare attentamente. Quando la macchina ripartì a tutta velocità, la donna prese a camminare in direzione della mia finestra.
Ora potevo vederla meglio: sulla quarantina, abbastanza in carne, molto formosa, vestita con un abito succinto, le scarpe col tacco e la borsetta tra le mani. Da lontano riuscii a notare la pelle bianchissima illuminata dalla luce del lampione e le labbra colorate da un rossetto rosso acceso, vistosissimo. Cosa può aver provocato in me quell'apparizione è difficile spiegarlo a parole, mi sentii come quei tizi che affermano di aver visto un'astronave aliena.
Tentai di spegnere i bollori con una massiccia dose di seghe, con il risultato di avere ancora più fame di lei, bramai la sua bocca, desiderai perdermi nel suo corpo generoso. Fu ancora peggio, lo feci fino allo sfinimento, fino a non sentire nemmeno più il piacere.
Generalmente faceva la sua apparizione verso le undici, un'auto la scaricava sul ciglio della strada e andava via. Talvolta ritornava con un'auto diversa per poi risalire in un'altra vettura di passaggio. Io sempre più disperato studiai con cura la mia preda, come in un safari mi procurai anche un ingombrante binocolo, bello grosso: osservai quella creatura divina per molti giorni, fu un periodo intenso e faticoso.
Vederla in modo ravvicinato riaccese in me la passione e ripresi a masturbarmi, ed ebbi timore di poter diventare non vedente entro brevissimo tempo. Passarono i mesi e lei fu sempre lì anche quando la bella stagione trascorse lasciando spazio all'autunno. Più volte pensai di scendere, di farmi avanti, ma mi mancò il coraggio. La donnina dovette forse accorgersi della mia presenza, perché un giorno, inaspettatamente, mi rivolse un saluto alzando una mano. Mi aveva salutato: il cuore cominciò a battere forte, stavo male, si era accorta della mia presenza, aveva salutato proprio me. Avrei potuto accendere una sigaretta con la fronte, avevo le caldane, basta! Dissi a me stesso, ora vado da lei, costi quel che costi!
A quel punto lo feci, scesi in strada. Lei era in fondo al viale appoggiata a un muretto, il cuore galoppava ormai, la salivazione assente. Quando fui a pochi passi dalla mia preda, ripensai all'insegnamento del mio professore di applicazioni tecniche: un soggetto assume le proporzioni in base al posizionamento dell'angolo di visione.
Dalla finestra di casa la donna sembrava alta il giusto, ma dal vivo il donnone che avevo davanti poteva sfiorare un metro e ottanta con i tacchi, aveva inoltre gambe e braccia lunghissime, ed io piccolo e inesperto dovevo apparire come Davide davanti al gigante Golia. Ricordo di essermi avvicinato a lei con una scusa, a un paio di metri riuscii perfino a sentire il suo odore e questa cosa mi eccitò da morire.
«Signorina, mi scusi.» Lei mi osservò e non disse nulla. Tentai uno squallido approccio, figurarsi! Uno sbarbatello nemmeno maggiorenne che tenta di apparire disinvolto in una situazione simile. «Senti, scemo col binocolo, io aspetto un amico, tu che vuoi?»
Ecco! Con questa frase la donna annientò quel minimo di certezza che ancora restava in me, da quel momento non fui più io, avevo scordato perfino il mio nome, salivazione azzerata, lingua felpata. Dissi soltanto: «No, nulla, solo sapere se...» La sua risposta fu secca, ma accese in me la speranza, del resto ero probabilmente davanti ad una professionista, donna enormemente pragmatica e dotata di tanto senso pratico.
«Ragazzino, a me fanno male i piedi e ho sonno, se vuoi fare porta cinque bigliettoni e la camicina e ci mettiamo d'accordo, altrimenti non rompere le palle e torna a casa.»
Ero pur sempre un bambino, infatti, da bimbo educato diedi la mano, ringraziai e scappai a casa a menarmelo senza tregua. I soldi necessari per pagare lei e comprare le cosiddette camicine li avevo già, mentre i miei coetanei mettevano da parte i soldi per acquistare una bici nuova o per andare al cinema, io invece, da quando la misteriosa signora dell'amore aveva stravolto la mia esistenza, ero riuscito a mettere da parte un bel gruzzolo, avevo raccolto una discreta sommetta per un ipotetico incontro con l'oggetto dei miei desideri, intanto mi ero portato avanti col lavoro.
Era il frutto di mancette della nonna, di misere donazioni da parte degli zii, della vendita di un tris di fumetti porno ad un mio compagno di classe. Erano tutte monetine, nemmeno una banconota, almeno un chilo di ferraglia che misi in un sacco di tela trovato chissà dove, con tanto di funicella per chiuderlo.
A quei tempi comprare i preservativi non era così facile come ai nostri giorni, bisognava entrare in farmacia, fare la fila e trovarsi davanti al farmacista facendo la richiesta esplicitamente. In me c'erano già le basi per diventare un vero pezzo di merda, ma ero ancora un bimbo, anche se precoce, e certe cose ancora mi imbarazzavano. I farmacisti dell'epoca erano abbastanza stronzi, vedendoti così giovane, ammiccavano, lanciavano occhiatine di compiacimento, sghignazzando più o meno apertamente ti trattavano da vero coglione. Inoltre, io non avevo nemmeno la barba, sembravo ancora un bambino e questo non giocò a mio favore, feci ben due tentativi finiti a vuoto prima di effettuare finalmente l'acquisto.
La prima volta feci la fila e diligentemente attesi il turno. Arrivato davanti al banco fui preso dal panico e chiesi la prima cosa, la più stupida che mi passò per la mente: «Della crema, grazie» dissi con tono deciso. E il farmacista stronzo, che intanto aveva capito tutto, mi rifilò davvero della crema, per giunta costosissima: una crema per curare le emorroidi. Rimpiansi di non aver chiesto direttamente i preservativi, avrei fatto una figura di merda dalle proporzioni molto più ridotte.
Cambiai zona e farmacia, ne scelsi una decisamente fuori mano, rifatta la fila mi ritrovai nuovamente davanti al farmacista per la solita richiesta. Questa volta andai spedito come un treno. «Un pacco di preservativi» dissi. Il vuoto intorno a me, il vociare delle persone si arrestò di colpo, si fece il silenzio, tutti gli occhi dei presenti mi puntarono come fucili in una esecuzione. Il farmacista chiese: «Quanti ne occorrono?» A me ne serviva uno, al massimo due, ma stavolta trovai il pignolo del cazzo che contribuì a farmi salire l'ansia, sudavo freddo, ero smarrito. «Confezioni da uno non ne abbiamo, signore, solo da dieci.» Mostrò la confezione, io ero sempre più imbarazzato. Diedi un'occhiata al prezzo indicato sulla scatolina e mi resi conto di non avere nemmeno tutti i soldi necessari con me. Facendo un ultimo tentativo chiesi sottovoce di aiutarmi, specificando che si trattava della mia prima volta. Chiesi di prelevarne solo uno dalla confezione, sarei stato disposto anche a pagarlo di più, supplicai di togliermi dall'imbarazzo. Il farmacista disse scortesemente di no. Ormai la gente dietro di me era, più che incuriosita, abbastanza incazzata, le cose stavano andando per le lunghe.
Eravamo in una fase di stallo, il farmacista stronzo e pedante e il bambino che voleva scopare, uno di fronte all'altro fermi in un istante lungo un'eternità. Qualcuno dal fondo urlò: «Ragazzino vattene al cinema stasera che non è aria.» Un vecchietto disse piano: «Usa il salto della quaglia, metodo infallibile.» Ormai sudatissimo e rosso in volto, a testa bassa, senza incrociare lo sguardo di nessuno, decisi di dileguarmi in fretta tra il vociare delle persone in fila. Al terzo tentativo e alla terza farmacia avevo acquisito l'esperienza utile per dire o non dire certe cose. Ne acquistai cinque ad un prezzo ragionevole e felice tornai a casa. Ora era quasi tutto pronto. Mi venne in mente però di non aver mai indossato uno di quei cosi, sembra facile, se nessuno ti spiega come metterlo che si fa? Decisi allora di sacrificarne alcuni per studiare alla perfezione tutta la procedura. Chiuso in camera, preparai l'attrezzo e tirai fuori il primo preservativo, feci l'errore di svolgerlo tutto e di provare ad indossarlo così.
Ora, qualunque maschietto di esperienza sa che in questo modo nessuno potrebbe mai calzare quell'affare senza srotolarlo gradatamente e con un certo metodo. Sembravo uno di quei clown del circo intenti a creare figure di animaletti dall'incrocio di due palloncini di gomma. Ne sprecai ben tre prima di capirne bene il meccanismo. Pensai: due basteranno, in fondo sarebbe sufficiente anche uno. Feci il bagno, tagliai le unghie, misi il vestito buono e le scarpe lucide, una bella pettinata ai capelli e un'abbondante spruzzata di un asprissimo profumo da vero maschio.
Ero diventato Johnny Branko, mi sentivo carico come un fucile a pompa pronto a sparare. Alle dieci di sera ero già pronto, avevo con me le camicine e i soldi necessari per la questione. Senza preoccuparmi ancora di cambiare le monete in banconote, portavo nella tasca un pesante malloppo di monetine tintinnanti.
Emozionatissimo, attesi che fossero le undici e montai di guardia. Attesi invano per quasi un'ora, della passeggiatrice nemmeno l'ombra. Inoltre cominciò a piovere, dapprima una pioggerellina fine, poi dei goccioloni, poi una vera e propria tempesta. Poco importava, quello doveva essere il mio grande giorno, pioggia o non pioggia. Avevo quasi perso le speranze quando intravidi i fari di un'auto illuminare la strada, per poi rallentare accostando su un lato. Dall'auto discese la sensuale signora dell'amore.
Era giunto il momento, emozionato come pochi, presi giacca e ombrello e senza far rumore scesi in strada. Le pulsazioni del cuore schizzarono a mille, percorsi rapido i metri che mi separavano da lei e me la ritrovai davanti. Sotto la pioggia ci guardammo senza dire nulla, secondi interminabili, poi lei mi esaminò da testa a piedi col suo sguardo sapiente.
«Che cazzo di serata, ci mancavi solo tu, io ho appuntamento tra venti minuti con un amico proprio qui, se fai veloce si può fare.»
«Ho portato tutto, soldi e camicine, andiamo?»
«Dove?» Chiese la donna.
«Non lo so, dove andiamo?»
Ricordo la sua espressione, quello fu il punto in cui cominciò ad incazzarsi parecchio.
«Ma tu guarda, ancora la bocca che puzza di latte, non sa nemmeno dove andare, con questa pioggia e senza ombrello poi, questa è la volta che mi ammalo».
Ricordo che con l'ombrello in una mano e la faccia da ebete la ascoltavo estasiato.
«Svegliati!» Urlò. «Qui dietro c'è un vicoletto buio, facciamo presto, seguimi!»
Ci incamminammo, lei non parlava, sembrava incurante della pioggia, senza ombrello con un passo velocissimo nonostante gli altissimi tacchi e il vestito stretto. Voltato l'angolo entrammo in una strada solitaria e poi in un vicolo cieco quasi completamente buio. Il vicolo era sporco e maleodorante, ovunque rifiuti e cartacce.
La donna sapeva però già cosa fare, forse in quel posto c'era già stata altre volte. Sollevò il vestito e velocemente sfilò le mutandine, poggiando le mani al muro si chinò in avanti scoprendo davanti a me un enorme culo bianchissimo, ero prossimo allo svenimento. Una cosa è vedere una donna nuda su un giornalino, nelle foto in bianco e nero, un'altra è trovarsi davanti al paradiso, ero ad un passo dall'eden, pochi secondi e avrei varcato la soglia.
«Presto!» disse la signora. «Metti quello che devi mettere e fai presto, e riparami con il tuo ombrello, imbecille!»
Con una mano tenni saldo l'ombrello per ripararla dalla pioggia e con l'altra slacciai la cintura facendo cadere i pantaloni e le mutande. Dalla tasca della giacca presi una delle due camicine cercando di aprire la confezione usando la sola mano libera.
L'operazione apparve particolarmente difficile. A causa della deconcentrazione, del freddo, quell'armadio di donna che continuava a darmi fretta, vennero meno poi i requisiti di erezione minimi per utilizzare quel dannato calzino trasparente. Per farla breve il soldatino tornò in caserma al calduccio e io fui preso dal panico. Per una manovra azzardata, persi la presa e quel coso cadde dalla mia mano finendo a terra in una pozzanghera. Fu chiaro che sarebbero occorse due mani per l'operazione. Diedi due colpi con il pugno chiuso sulla nuda schiena di lei, come se stessi bussando ad un portone, lei era sempre piegata ad angolo retto con le mani poggiate al muro.
«Che cazzo vuoi ora?»
«Sarebbe così gentile da mantenere l'ombrello?» le dissi. «Con una mano non riesco.»
«E che cazzo!» rispose lei. «Basta che ci sbrighiamo, dammi questo maledetto ombrello!»
Con due mani fu tutto più semplice, ripresi coraggio in tutti i sensi. Scartai la confezione e indossai quel coso alla meglio, ora era tutto pronto. Mi resi conto però di avere un ultimo grande problema da risolvere. Per farla breve, il mio attrezzo e l'orifizio della procace donna non erano per niente allineati, ero troppo basso per portare a termine quella faccenda. Feci dei goffi tentativi alzandomi sulle punte e spingendo di bacino, ma fu tutto inutile.
Di nuovo, con il pugno, picchiai alla bianca schiena della donna, lei esasperata mi urlò: «Se mi bussi ancora sulla schiena con quelle mani te le spezzo, cosa ti manca ancora?»
«Non ci arrivo!» dissi timidamente.
«Ma chi me lo ha mandato questo stasera? Imbecille, prendi quella gomma laggiù in fondo, ci monti su e fai il tuo dovere!»
Con i calzoni calati e il fucilino pronto a sparare, camminavo a fatica. Tra cartacce, rifiuti e puzza di piscio intravidi un vecchio copertone d'auto, lo trasportai tenendolo sotto al braccio per poi sistemarlo in terra e montarci sopra. Ora tutto sembrava allineato e pronto per l'inserimento.
Tutto tremante diedi a fatica il primo colpo di reni, poi il secondo, al terzo il piacere invase il mio corpo come un fiume in piena. Avevo impiegato cinque secondi netti per giungere al godimento massimo, quasi un record.
«Meno male sei stato rapido almeno, dammi i soldi che ho fretta.»
Ancora seminudo con l'espressione beata, dalla tasca della giacca le consegnai il sacchetto di tela con dentro un chilo di monetine.
«Ci sono tutti, può contarli se crede...»
La donna fece una pausa ad effetto guardando il sacco con le monete, poi guardò me e con il sangue agli occhi a quel punto disse testuali parole: «Ma mi hai mica preso per un jukebox? Sono una professionista seria io.»
Così dicendo mi scagliò contro il sacchetto che, aprendosi, sparpagliò tutto il contenuto in terra, io intanto era ancora in uno stato di estasi mistica, come uno che ha visto la Madonna. Dopo avermi mandato a fanculo, incazzata e con passo deciso, la donna si allontanò sotto la pioggia, nel camminare ruppe anche un tacco, a quel punto tirò un bestemmione rivolgendosi alla volta celeste, uno di quelli da scomunica. Percorse un altro pezzo di strada zoppicando per poi svanire nel buio.
Rimasi tra le luccicanti monete sotto la pioggia, a fissare il muro con il culo all'aria per alcuni minuti ancora, con aria soddisfatta mi rivestii e tornai a casa.
Ora mi sentivo un uomo, un uomo vero. Quell'incontro segnò per me l'inizio di tutto, la passione per le mignotte nacque in quell'istante, cambiò ogni cosa, da quel giorno in ognuno dei miei incontri successivi, forse inconsciamente, ho sempre ricercato il caldo corpo di quella donna, il suo culo generoso, il suo corpo erotico.

Andrea Corcione

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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