Dopo la caduta di Mussolini, dal '43 al '45, l'Italia fu divisa in due. Da una parte c'erano gli Alleati sbarcati al Sud che cercavano di riconquistare la penisola e dall'altra le forze della Repubblica Sociale Italiana (RSI) che, assieme ai soldati tedeschi, cercavano di tenere in mano un territorio del Nord e Centro Italia che, a poco a poco, si stava disgregando. Durante i 600 giorni in cui durò la Repubblica Sociale Italiana, diversi fatti poco chiari accadevano da ambo le parti. C'era gente che combatteva con i nazifascisti, gente con i partigiani e alcuni che non era chiaro da che parte stavano, e questo creò giocoforza episodi noti, episodi meno noti ed episodi poco chiari. E anche a Bargagli, comune montano, posto sopra Genova, capitarono cose simili verso la fine della Seconda Guerra Mondiale, che portarono a tutta una serie di omicidi, che continuarono anche dopo la resa del 25 aprile del '45. In breve nel dopoguerra e fino agli anni Ottanta, ci fu una sequenza di omicidi in quei luoghi su cui furono fatte molte ipotesi, ma non si arrivò mai a scoprire una verità definitiva, che rimase da allora in poi la grande assente. Vero che ci furono diverse inchieste giornalistiche e due indagini della magistratura, che portarono a ipotizzare alcune possibili piste per risolvere la cosa, ma mai si arrivò a una soluzione definitiva e condivisa di cosa fosse veramente successo a Bargagli. Con il tempo alcuni scrittori e ricercatori hanno tentato di ricostruire la verità ma, a mio avviso, sono stati distratti da una lunga serie di omicidi avvenuti nel dopoguerra tra gli anni Sessanta e Ottanta, che hanno un po' distolto l'attenzione su quanto successe durante la guerra. A quell'epoca, Bargagli era una terra di confine tra uno stato sociale e uno stato partigiano in formazione, con tanti doppiogiochisti che andavano e venivano da una parte e dall'altra, e tanti soldati che disertavano per scappare sui monti e diventare partigiani. Non era una novità, anche in altri luoghi erano accaduti fatti simili, ma qui intervenne qualcosa di diverso. Nell'aprile del '45, durante la resa finale di Genova, una colonna mista di tedeschi e repubblichini italiani si arrese e si consegnò alle truppe alleate che le attendevano per disarmarle sopra i monti di Bargagli. I militari portarono con sé, oltre alle loro armi e mezzi di trasporto, un tesoro di oltre ottanta milioni di lire, una cifra impressionante per l'epoca, più una somma imprecisata di sterline e oggetti d'oro, che ufficialmente gli Alleati non videro mai consegnati. Dove erano finiti? Si sa solo che vennero abbandonati assieme ai mezzi militari nel bosco della Tecosa, sopra i monti di Bargagli, perché il sentiero si era fatto troppo stretto e i camion e mezzi militari non riuscivano più ad avanzare. Così i soldati scesero, presero le armi leggere e a passo d'uomo si diressero verso il punto della resa dove c'era una compagnia di soldati americani ad attenderli per disarmarli. Ma il tesoro con loro non c'era. Era rimasto abbandonato a se stesso giù nel bosco dentro alcune camionette della colonna militare e ufficialmente non fu mai trovato. In aggiunta a questo, a Bargagli, ci furono alcune stragi a colpi di mitra e bombe durante i giorni della resa. Si ipotizzò che fossero stati alcuni gruppi di partigiani sbandati, o una banda di macellai che commerciava con il mercato nero della carne, a fare queste stragi per dividersi un tesoro. Ma furono solo ipotesi, perché prove ed evidenze certe non ce ne furono. Anche i rapporti militari ufficiali altro non dissero di quel tesoro mancante. Tuttavia nel 2025, alcuni documenti segretati su quegli anni dovrebbero diventare pubblici e si vedrà se ci saranno novità. Per cui vi porgo questo romanzo storico, che è una libera ricostruzione dell'ambiente e del clima che all'epoca circolava in quei luoghi, più quello che potrebbe essere successo, in un posto che faceva da confine tra uno stato in guerra e uno stato in rivolta, durante la fine della Seconda Guerra Mondiale. L'autore
Bargagli primi di aprile del 1945 Cinque del mattino. In un paesino degli Appennini sopra Genova
Quattro ragazze assonnate dalle ampie e lunghe gonne vanno di corsa, sollevandosele con le mani per non inciampare, verso un'autocorriera che le attende fuori dal paese a motore acceso con il portello di entrata già aperto per farle salire e portarle giù verso Genova, assieme ad alcuni pendolari che fanno la spola, per lavoro e altre attività, tutti i giorni. Le ragazze salgono veloci sul mezzo aiutate dall'autista che, con questa scusa, prova a palpeggiarne una con cui è in confidenza e in cambio riceve uno schiaffone più qualche insulto davanti alle risate delle altre. Poi le ragazze spariscono dietro i vetri appannati dell'autocorriera che è già semipiena di gente, mentre l'autista richiude e riparte subito. Ma chi sono queste giovani ragazze, e dove stanno andando? Si tratta di staffette incaricate di consegnare carne di vitello per il mercato nero di Genova. Sono dirette verso i macelli comunali di Ca' de Pitta, che si trovano sulla strada della val Bisagno, alcuni chilometri prima di entrare a Genova. Una volta arrivate ai macelli, saliranno su un vagone già carico di merci, compresa carne da rivendere al mercato nero e scenderanno tramite un raccordo ferroviario industriale che parte dai macelli comunali verso lo scalo merci di Genova. Poi, appena saranno arrivate, dovranno consegnare carne di vitello, nascondendola sotto le loro ampie gonne, ai mercati di corso Sardegna nel quartiere San Fruttuoso, per rifornire i diversi negozi e banchi di vendita del luogo che là le attendono. Il gioco è rischioso ma, ora che la guerra sta finendo, non più di tanto per vari motivi. Innanzi tutto quasi tutti sanno che c'è la borsa nera a Genova ma, piuttosto che morire di fame, cittadini e autorità preferiscono lasciar correre e non denunciare. Secondo, se vengono sorprese le staffette sanno che devono dire che sono venute dalla campagna per portare un po' di carne a un'amica che soffre ed è ammalata. Terzo, il camion che trasporta la carne dai monti ai macelli comunali è bello grande e, molto spesso, uno o due carabinieri in perlustrazione gli si avvicinano in bicicletta per controllare non si capisce bene cosa, visto che, costoro, non chiedono quasi mai nulla ma lasciano una lista con delle richieste di consegna, per alcune caserme dei carabinieri, dove le staffette devono ogni tanto recarsi per consegnare un po' di carne gratis anche a loro, in cambio del silenzio sui loro traffici. Quarto, ma non ultimo per importanza, le guardie e molti addetti all'ordine e ai punti di consegna della loro merce hanno imparato a conoscere queste ragazze staffette e a non fermarle, né a distrarle mentre vengono a consegnare la merce. Ma. quando è possibile, si mettono volentieri a invitarle per un caffè o una sigaretta e poter parlare per qualche minuto con loro durante le pause delle consegne. E, a dir il vero, anche se un paio di giovanotti scherzano e le corteggiano un po', molti parlano e ricevono da loro informazioni di ben altro tenore, riguardo alla possibilità di disertare e trovare rifugio tra i partigiani dei monti e di sapere come stanno alcuni ex amici e commilitoni che hanno disertato mesi prima. Anche quello di fare da tramite di comunicazione, con quanto succede fuori città, fa parte del gioco delle staffette e, durante il gioco, spesso ci si confida e a volte nascono storie più o meno interessanti. Ma ritorniamo alle quattro ragazze ancora assonnate che si preparano a una nuova giornata di lavoro, mentre scendono verso Genova. “Dove vai a consegnare oggi, Caterina?” chiese Nanà. “Dopo i primi due carichi che consegneremo ai mercati di corso Sardegna, il terzo carico lo devo consegnare al distaccamento alpini della Monterosa1. Sei gelosa?” rispose sorridendo Caterina. “No, perché?” “So che c'è un giovane soldato alla porta di ingresso che ti fila e non ti dispiacerebbe parlare con lui, ma per me è indifferente andarci o meno, e se vuoi cambiamo giro e ci vai tu.” “Vergognatevi. Siamo qui per lavoro e non per distrarci o fare altro” rispose Erica, la meno bella e forse la più introversa del gruppo. Non era brutta, era solo un po' meno carina nei modi e taciturna delle altre. “Sì Erica, adesso mettiti a farmi la solita ramanzina. È perché non riesci a trovare nessuno? Trovati qualcuno che ti fila e piantala” rispose sorridendo Nanà, la più carina e spigliata del gruppo. “Non è vero che Erica non ha nessuno. Due giorni fa sono andata alla caserma dei carabinieri di San Fruttuoso e il brigadiere alla porta mi ha detto: ‘Signorìì... mi dice quando torna Erica che devo offrirle un caffè?'” replicò Caterina imitando l'accento dialettale e i gesti del carabiniere. “Stai parlando di quel carabiniere alto con i baffi che sta sempre all'ingresso?” chiese curiosa Amelide, il capo delle quattro staffette. “Sì, lui.” “Urca Erica, stai attenta che quello è meridionale, di sangue caldo e allunga le mani” rispose scherzando Nanà. “Non dite sciocchezze, Erica si vuole fidanzare con uno di Bargagli e non le interessano altri. Quel carabiniere vuole parlare con Erica solo per aiutare a disertare e far fuggire tra i monti alcuni soldati della RSI. Ma ci andrò io oggi a parlare in quella caserma” chiuse il discorso Amelide. Le quattro ragazze liguri erano tutte giovani. Solo Amelide, il loro capo, aveva passato i 25 anni. Ma c'era ancora tempo prima di arrivare ai 30 anni, età che all'epoca avrebbe bollato come zitella chi non si era ancora sposata. Si conoscevano da bambine e formavano un gruppetto affiatato a Bargagli e le frazioni dei dintorni. Amelide era longilinea, bruna, capelli lunghi, introversa e un po' riservata dietro i suoi occhi scuri, ma coraggiosa quando necessario. Era un po' conservatrice e schematica nel modo di agire ma, se veniva il momento, era in grado di mettere da parte le paure personali che frenano dall'agire, gettare via gli schemi, darsi una scossa e mettersi in azione da sola. Inoltre aveva l'aspetto di persona posata e degna di fiducia e questo la faceva sembrare adatta al ruolo di capo e coordinatrice che aveva. Nanà, tutta estroversa e sbarazzina. Di forme rotondette come piacevano allora, era civetta, bionda con capelli non troppo lunghi, vivace, frizzante e sapeva farsi filare dagli uomini. E in tanti la filavano. Ma attenzione a crederla una sciocca. Era in grado di gestirsi ed entrare in azione senza ordini pure lei, quando necessario. Le altre due ragazze erano più delle sognatrici che avevano bisogno di ricevere ordini e sapere cosa fare per agire. Caterina, bello sguardo e occhi grandi, osservava e notava tutti i ragazzi e le coppie che incontrava. Era un modo di sognare e immaginarsi un suo possibile futuro che verrà. E di solito funzionava, perché diceva alle amiche che tutto quello che sognava, prima o poi, in qualche modo, accadeva o si realizzava. Tuttavia diceva anche, che ancora non aveva visto il ragazzo dei suoi sogni realizzarsi. “E allora vedi di sognarlo per bene e vedrai che prima o poi pure quello si realizzerà...” la prendeva in giro Nanà. Erica invece si incontrava segretamente da un po' di anni con un ragazzo di Bargagli e, per quanto il luogo non fosse grande, ormai la notizia iniziava a trapelare e, sia lei che lui, si stavano stancando di tenerla nascosta. Crescendo Erica era diventata solida di carattere, il che quasi sempre significava che aveva ricevuto qualche contraccolpo o delusione dalla vita, che l'avevano buttata in fretta in cerca di calma e stabilità, desiderio tipico di molti che hanno avuto troppi sbalzi improvvisi dalla vita. In certi aspetti, sembrava tutto il contrario di Nanà, che ogni tanto, i contraccolpi e sbalzi della vita, li andava a cercare, e di solito li trovava. Così, Erica, rispetto alle altre tre, aveva già risolto il problema di trovarsi un ragazzo, e aveva intenzione di presentarsi, con lui, davanti ai suoi genitori per fidanzarsi, come andava di moda allora, ed ora lavorava solo per costruirsi una vita solida e stabile con lui. Era un modo di sognare il futuro che verrà anche quello. Ma torniamo a quello che stanno facendo le ragazze sull'autocorriera. Parlottando del più e del meno, alla fine le staffette scendono a valle costeggiando il torrente Bisagno, arrivano al capolinea di Prato, nei pressi del Ponte della Paglia, dove finisce l'alta val Bisagno. In quel punto la corsa dell'autocorriera finisce e inizia, con la linea del tram su rotaie elettrico che scende verso Marassi e Genova, l'area periferica urbana cittadina. Le ragazze scendono dall'autocorriera e attraversano veloci il ponte. Non sono molto lontane dai macelli comunali di Ca' de Pitta, che potrebbero raggiungere a piedi, ma ad attenderle c'è già pronto il tram elettrico che conduce direttamente giù verso Genova e decidono di prenderlo al volo. Salgono e dopo un paio di fermate scendono nel piazzale davanti ai macelli comunali. Entrano, si recano verso lo scalo merci del macello dove c'erano già alcuni macellai che stavano sistemando carne su un vagone, che, appena finito il carico, sarebbe poi dovuto scendere verso Genova tramite il binario industriale della Val Bisagno, o il trenino delle Gavette,se preferite.
Ivo Ragazzini
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