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Autore: Diego Pitea
La stanza delle illusioni
Giallo
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La stanza delle illusioni
Richard si spostò a passi svelti verso il salottino. Si avvicinò alla finestra e scostò le tende che la coprivano. Passò una mano sul controtelaio color mogano, quindi analizzò le ante e poi le cerniere con cui erano fissate. La maniglia era in posizione verticale. La ruotò, ma si accorse che l'apertura era difettosa: Borghi non doveva adoperarla spesso. Tirò con più forza e l'anta, infine, si aprì con uno sbuffo; la cornice interna della finestra non mostrava nulla di anomalo. Scosse la testa. Non riusciva a immaginare come qualcuno potesse essere uscito da lì e aver chiuso dall'esterno.
Tornò da Robaldi.
- Shit - . Si passò una mano nei capelli.
Il dottore ripose un termometro nella borsa e la chiuse.
- Qualcosa non va? -
- Lei crede ai fantasmi? -
- Fantasmi? Cosa c'entrano adesso i fantasmi? -
Richard annuì.
- È la sola spiegazione possibile a questo mistero. Lei sostiene che la porta fosse chiusa dall'interno, giusto? Nessuno è uscito prima o dopo il ritrovamento del cadavere e non ci sono altre porte oltre a quella del bagno. Anche la finestra... Ho dato un'occhiata e, apparentemente, non c'è modo di chiuderla dall'esterno. -
Allargò le braccia in segno di resa.
Robaldi si aggiustò gli occhiali sul naso.
- Non ci avevo pensato - , mormorò.
- Già - , sbuffò Richard.
Spostò lo sguardo di nuovo sulla porta. Esaminò il telaio, passò una mano sul controtelaio e studiò l'anima dell'anta da vicino. Si soffermò sulla serratura e sulle viti che la tenevano ferma. Scosse la testa.
Non riusciva a farsi un'idea su cosa potesse essere accaduto lì dentro, ma era felice. Di fronte a un omicidio le reazioni di una persona normale sono di confusione, timore, angoscia. Lui, invece, no. L'unica emozione che provava in quel momento era di eccitazione. Non riusciva a credere di star indagando per davvero su un omicidio compiuto per di più con quelle modalità. Una delle più gradi sfide intellettuali per un uomo.
Ripensò a tutti i romanzi che aveva letto, nei quali un uomo era stato ucciso in una camera chiusa dall'interno. Quella della camera chiusa era una tematica che avevano esplorato tutti i migliori scrittori del genere: Agatha Christie con Il Natale di Poirot, Ellery Queen con Delitto alla rovescia e John Sladek con L'invisibile signor Green erano i primi che gli venivano in mente, anche se il maestro indiscusso rimaneva John Dickson Carr. La sua penna aveva elevato un espediente a vero e proprio sottogenere. Si chiese se qualche romanzo sarebbe potuto venirgli in aiuto. Cercò di rammentare tutte le interminabili discussioni con i suoi amici del gruppo di lettura e le numerose teorie che ne erano venute fuori. Anche vari autori come Boucher o Rawson si erano cimentati nell'arduo compito di stilare una lista dei metodi per creare questa illusione. Doveva cercare di ricordarli, perché era certo che la soluzione risiedeva lì, nascosta fra i suoi ricordi di lettore.
Dagli anfratti della mente tirò fuori un romanzo di Carr che lo aveva affascinato a tal punto da costringerlo, per confutare la dinamica descritta, a provare con una porta di casa se fosse possibile ripetere il procedimento; ne ricordò un altro in cui quello che sembrava un omicidio era, in realtà, un suicidio. E se Borghi si fosse suicidato? No, non ci avrebbe creduto nessuno.
Poi gli venne in mente L'enigma dello spillo di Edgar Wallace ed ebbe un tuffo al cuore. L'aveva dimenticato, rimosso dalla mente, ma anche quello faceva parte del filone. In quel libro Jesse Trasmere, un milionario simile a Borghi, veniva ucciso all'interno del suo studio per mezzo di un piccolo spillo. Era stato il primo giallo della sua vita. Aveva su per giù dieci anni e glielo aveva letto suo padre durante la convalescenza dopo una malattia. Ripensare a quei momenti felici, mentre a letto ascoltava quella voce cavernosa, senza altro pensiero se non quello di individuare il colpevole, gli fece venire un groppo in gola. Cercò di dissimulare la cosa con un colpo di tosse.
Arricciò le labbra. Ma quelli erano, appunto, romanzi, situazioni create ad arte. Inoltre, cosa da non sottovalutare, quando Robaldi aveva sentito il lamento, non c'era nessun altro davanti la porta ad armeggiare con qualche diavoleria.
Nulla.
Non c'era altro che potesse aiutarlo.
Da qualsiasi parte lo si guardasse, quel problema portava in un vicolo cieco. Qualcuno aveva ucciso Borghi ed era uscito, lasciandosi dietro porte e finestre chiuse.
C'era solo un'anomalia.
Un particolare.
Il camino.
Vi si piazzò davanti, la mano sul mento e il labbro superiore arricciato. Non ne aveva mai visto uno così pulito. Era costituito da un architrave rettangolare, da una cappa in mattoncini e da un focolare molto ampio di metallo lucido. La canna fumaria era in pietra e si perdeva scomparendo nel tetto della stanza. Si inginocchiò e diede un'occhiata più da vicino al focolare. Passò un dito sul metallo. In casa sua c'era più polvere. Si rialzò. Prese una liquirizia e la mise in bocca. Decise di tenersi per lui quella considerazione.
- Sembra che qui non ci sia più niente da fare - , disse, infatti, rivolto a Robaldi.
- Sono d'accordo - , fece l'altro tenendo in mano la busta dove avevano inserito il Serpente Piumato. - Di questo cosa ne facciamo? -
- Già. Non c'è una cassaforte qui in casa? -
Robaldi scosse il capo e le guance oscillarono.
- Non che io sappia. -
Richard allungò una mano.
- Lo dia a me, vedremo in seguito cosa farne - . Prese la busta. - Direi di riunire tutti nel salone per comunicare la notizia della morte di Borghi e per decidere il da farsi. -
- Va bene. Me ne occupo io. -
- Perfetto. Non si dimentichi i risultati delle impronte digitali, per favore. -
Robaldi fece un cenno di assenso e si avviò all'uscita. Poi, si fermò. Guardò il vuoto per qualche istante, prima di tornare sui suoi passi.
- Ancora una cosa - , disse a voce bassa. Un bisbiglio. - Nel momento in cui siamo entrati, ho visto che Ruggero raccoglieva qualcosa da terra e la metteva in tasca. -
Richard si voltò di scatto e inghiottì la liquirizia. Gli parve di percepire l'iride diventare tutt'uno con la cornea.
- Cosa era? -
- Era troppo buio. Non sono riuscito a vedere. -
Finalmente.
Forse una traccia. Stava girando a vuoto. La testa era piena di pezzi di un puzzle che non riusciva a far combaciare e quello poteva essere l'elemento che permetteva di dare un senso al tutto.
- Va bene. Allora ci vediamo più tardi. -
Robaldi fece ancora un segno di commiato e scomparve oltre la porta. Richard si guardò attorno. Ruggero era fermo sulla soglia, le braccia dietro la schiena, in attesa di ordini. Lo raggiunse. Si chiuse la porta alle spalle e fece fare due giri alla chiave.
- Le hanno detto chi sono? -
Lui annuì e tossicchiò con fare nervoso.
- Allora mi racconti cos'è accaduto da quando il dottore è entrato in casa. -
La bocca sproporzionata del maggiordomo cercò della saliva.
- Stavo pulendo nell'atrio quando è arrivato. Abbiamo scambiato due parole, poi lui si è diretto qui e io mi sono fermato in salone per preparare la tavola. -
- Lei lo vedeva? - , lo interruppe Richard.
- Naturalmente, signore. Quella porta era aperta - , indicò la porta che dava accesso al corridoio.
- Poi? -
- Ha bussato, poi ha sentito Borghi lamentarsi ed è corso qui a chiamarmi per aiutarlo ad aprire la porta - , il maggiordomo concluse schiarendosi la voce.
- È proprio quello che mi ha raccontato anche lui, tranne che per una cosa. -
Ruggero mosse la testa all'indietro. Come per mettere più distanza fra di loro.
- Non... capisco - , balbettò. Sembrava aver perso la freddezza, il distacco mostrato fino a quel momento.
- Sa cosa si rischia nascondendo delle prove in un caso di omicidio? - . C'era da spingere sull'acceleratore. Allungò la mano. - Dov'è l'oggetto che ha raccolto da terra? -
Ruggero s'irrigidì e subito dopo sembrò afflosciarsi. Gli occhi cambiarono intensità e sul collo guizzò una vena.
- Avanti! - , gridò Richard.
Il maggiordomo sobbalzò. Sembrò accusare il colpo.
- Sia furbo, non mi costringa a scrollarla per vedere cosa ha addosso - . Quindi gli indirizzò un sorriso storto.
Ruggero annuì debolmente. Mise una mano in tasca e gli porse un anello d'oro bianco. Nella parte superiore, alcuni brillanti disposti in cerchio.
- Bravo, ha fatto la scelta giusta. Adesso può andare. -
Ruggero abbassò la testa e si allontanò strascicando i piedi.
Quando fu solo, Richard portò l'anello davanti al viso. Non ne capiva molto di gioielli, ma avrebbe scommesso le sue liquirizie che doveva valere parecchio. Lo rigirò, poi cercò qualcosa nella parte interna. Strinse gli occhi. Notò un'incisione. Si leggeva a fatica.
Al mio amore, 1983
Sorrise. Lo lanciò in aria e lo riprese. Forse qualcosa cominciava a smuoversi. Ma da lì in avanti si sarebbe trovato da solo. Solo contro i fantasmi della casa.

Diego Pitea

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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