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Autore: J Insane
Rotti
Narrativa
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Rotti
Sei al mondo da dodici, tredici anni, a volte undici al più tardi quattordici, non ci stai pensando, hai la testa da tutt'altra parte e da un giorno all'altro te la trovi tra le palle: l'adolescenza. Vai a letto che hai abbandonato l'orsacchiotto preferito dentro una scatola in soffitta e ti svegli con la società che ti alita sul collo, che ti vuole pronto e sull'attenti a piantare i semi dell'uomo che diventerai. Poco importa se ancora non sai controllare un'erezione, devi avere le idee chiare sul futuro: c'è una scuola da scegliere, devi sapere chi vuoi diventare da grande.
Un occhio di riguardo va dato anche alle amicizie; puoi continuare a frequentare il cugino nato pochi mesi prima di te, ma devi allargare la cerchia: ci sono il figlio dell'avvocato e quello dell'architetto da conoscere.
Lascia stare la biondina figlia dei vicini, quella che ti fa gli occhi dolci e ti saluta da svampita con la manina con le unghie colorate: è una poco di buono, finirà incinta tra un paio di anni.
“Non vedi come si trucca?”
“Non vedi come si veste?”
“Non vorrai mica beccarti l'herpes, vero?”
Non uno, però, che ti spieghi cosa sia l'herpes o che basti usare un preservativo per scampare da tutto tranne che dalle piattole. Sono cose che devi imparare da solo, sei grande ormai, ti devi responsabilizzare, anche se finché vivi a casa mia fai come dico io. Ti impongono orari da rispettare, ti elargiscono una marea di consigli non richiesti, ti sobbarcano di aspettative che non hanno niente a che fare con te.
“Devi studiare, diventare dottore che mamma sta a invecchiare e un dottore in famiglia serve sempre.”
E guardi mamma che davvero è sempre più vecchia e pure papà non è che stia messo meglio: si stanno ingrigendo, fermi con il culo sulla solita sedia si stanno curvando. Davanti alla TV lasciano scorrere via gli anni come se fossero nella sala d'attesa della vita vera: lo stesso quiz cena dopo cena a ridere sulle stesse battute che lo stesso presentatore fa da sempre.
Una domenica a pranzo, con le lasagne che traboccano besciamella fin fuori dal piatto, ti viene quel pensiero, ti gioca a flipper tra le costole, ti urla in testa: tu il dottore non lo vuoi fare, il sangue ti fa schifo e la gente pure, ma col cazzo che diventerai come questi due qua. Col cazzo che ti trasformerai in un omuncolo triste e lamentoso, con un lavoro di merda che a stento arriva a fine mese, una moglie rompicoglioni e un figlio che non volevi e che neppure sei certo sia figlio tuo.
No, no e ancora no.
Tu sei pieno di sogni, di progetti, di rivoluzione e ti basterebbe avere anche solo un amico con cui condividerli e spaccheresti il mondo. Però sei solo, che non è mai stato un problema per te stare solo, ma ora hanno cominciato a escluderti e anche se nessuno ha il coraggio di venirtelo a dire in faccia tu lo capisci lo stesso che ti stanno emarginando. In anni di scuola insieme non sei mai stato ad uno solo dei compleanni dei tuoi compagni, per non dire che sei sempre l'ultimo ad essere scelto durante l'ora di ginnastica, quando giocate a palla avvelenata, o qualche altra cagata simile.
Nessuno ti vuole in squadra.
Nessuno ti vuole accanto.
Voci di corridoio scolastico dicono che sei troppo strano e anche se ti guardi e ti vedi normale alla fine, a forza di mormorii, strano ti ci senti davvero. Sei quello che non ha mai la merenda, o che non va mai in gita perché ha i genitori troppo poveri, o troppo spilorci persino per comprarti dei libri nuovi.
I sogni e la rivoluzione perdono terreno, al loro posto le domande, la confusione, la rabbia che non sai neppure da dove ti viene, però ti viene e ti lascia incazzato per giorni. Ti ritrovi a fissare il soffitto di una cameretta che diventa una prigione e allora esci, ma il mondo fuori è persino peggio: ci sono così tante strade che non sai dove portino e così tante tentazioni, tra droghe e amori sbagliati, che resistere a tutto sembra troppo.
E infatti cedi: imbocchi un vicolo senza uscita e sei fottuto.
Nessuno ti ferma: genitori, parenti, maestri sono tutti troppo distratti, se ne accorgono quando ormai è tardi, quando ormai sei perso; e quando ormai sei perso nessuno ti aiuta, si arrendono, alzano le mani, sono buoni solo per darti la colpa di tutto.
“Sei sempre stato un ragazzo difficile, testardo, vuoi sempre avere ragione, se solo ci dessi retta non saresti finito nei guai, se ci ascoltassi tutto andrebbe meglio.”
E io li avrei ascoltati se invece di urlarmi contro quanto fossi sbagliato mi avessero detto cosa sbagliavo; se mi avessero parlato sul serio forse avrei seguito i loro consigli. O forse no. Si sa come sono gli adolescenti quando si innamorano: non ascoltano altro che non sia quella roba che gli batte frenetica nel petto.
Pioveva il giorno in cui ho incontrato Mikhail, pioveva tanto che avrebbe potuto non smettere mai. Al riparo sotto alla pensilina di fronte a scuola, stretto, schiacciato nel mezzo di un pigia pigia di facce butterate e zaini pesanti, tutto quello che volevo era dimenticarmi di una mattinata che si era già trasformata in incubo, tra interrogazioni andate male e compiti andati peggio. Inconsapevole che il destino si sarebbe fatto stronzo di lì a poco, avevo come unico desiderio quello di tornarmene a casa nel silenzio che i miei facevano standosene a lavoro fino a sera, per seppellirmi sotto le coperte fin tanto che il sole non fosse tramontato e sorto di nuovo. Quando il pullman che aspettavo mi frenò davanti, però, la presenza di un controllore mi fece passare la voglia di salire a sbafo. Non avevo soldi per il biglietto né mi conveniva portare una multa a casa; le alternative erano camminare per una buona mezz'ora sotto la pioggia senza ombrello, e chi ne aveva voglia, o aspettare che lo sciame adolescenziale in cui ero mimetizzato sparisse e prendere l'autobus successivo.
Abbassai il volume delle cuffie, tirai su il cappuccio della felpa e chinai la testa dentro un'edizione tascabile sgraffignata all'edicola sotto casa.
Dal nulla e senza ragione, una spinta mi fece volare a faccia in giù sull'asfalto. Il libro in una pozzanghera, le cuffie incrinate da una pedata. Ci provai a rialzarmi e ribellarmi ma, tre contro uno, mi ributtarono a terra e mi presero a calci finché il ragazzino russo non disse loro di smettere, usando lo stesso tono annoiato con cui aveva detto loro di cominciare. Rannicchiato, chiuso a riccio in attesa del colpo finale, nello spazio tra i polsi vidi avvicinarsi delle scarpe di tela.
Bucate, bagnate fradice.
Mikhail mi si accucciò accanto: mani in tasca, sguardo fisso dentro al mio e sparì il contorno e sparirono i rumori.
C'erano solo le gocce che si aggrappavano ai suoi capelli nerissimi; c'era la sua bocca aperta in un sorriso, seppur beffardo, così bello e perfetto che forse sorrisi anch'io.
- Maledetti teppisti! - o qualcosa del genere urlò la voce di una vecchia e, presa dallo spavento, quella banda di bulli corse via con le catene che gli tintinnavano sulle ginocchia e le creste afflosciate sulla testa.
Ancora a terra li seguii, lo seguii, con lo sguardo fino all'ultimo istante disponibile, prima che un non so chi mi aiutasse a rimettermi in piedi. Non ringraziai nessuno, non badai alla preoccupazione dei passanti che mi si erano stretti intorno, non ascoltai le loro parole di conforto, non mi servivano.
Raccattai le cuffie, misi il libro gocciolante in tasca e lasciandomi dietro qualche faccia sbigottita mi incamminai verso casa, che nemmeno della pioggia mi importava più.
Da quel momento tutto perse significato: i voti a scuola peggiorarono, le chiacchiere alle mie spalle non le sentivo nemmeno. I miei, poi, divennero due estranei che si divertivano a frantumarmi le palle per questo o quel motivo che tanto per loro dovevo studiare e basta, ma come avrei potuto riuscirci se avevo quel sorriso sempre piantato in testa?
Rivivevo in continuazione quell'incontro, notte e giorno, che alimentavo a fantasia ogni volta che per caso incrociavo Mikhail per i corridoi della scuola. Mi ignorava e facevo finta di ignorarlo anch'

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