"Disegna e descrivi cosa vorresti fare da grande."
L'avevo scritto a grandi lettere sul mio quaderno a quadretti, con la manina tremante. Non ricordo esattamente quanti anni avessi: forse sei, forse sette. Ricordo nitidamente, invece, di come mi fosse difficile impugnare la matita per bene. Tuttavia non mi arrendevo: la pagina del quaderno diventava la mia tela e io, concentrata, l'artista del mio mondo. A ogni linea, a ogni colore, dipingevo con pennellate alla Van Gogh: premevo forte la punta sul foglio e il disegno cominciava a prendere forma. Ricordo le curve, le linee sbilenche: disegnavano una donna con un foulard al collo e un tailleur. La donna era arrivata a metà di una scala e saliva verso quello che, sullo sfondo, doveva essere il portellone di un aereo. ‘Da grande voglio diventare una hostess', recitava una frase scritta in stampatello. Una decina di anni dopo, nessuna compagnia aerea avrebbe ricevuto una mia candidatura. Non avevo cambiato idea: si era semplicemente evoluta. Adoravo ancora l'idea dell'hostess, gentilissima e bellissima, che mi serviva un prezioso bicchiere stracolmo di una bibita gassata, generalmente e saggiamente proibito da mamma. Adoravo anche sentire le bollicine scendermi lungo la gola, mentre chiudevo gli occhi con un brivido: il drink era frizzante come la mia adrenalina da viaggio. Ben presto, però, scoprii che quel disegno aveva un altro significato. L'hostess rappresentava per me una donna libera e sorridente, gentile ma determinata, dolce ma decisa. Era l'idea di salire su un volo diretto verso una nuova destinazione, dove avrei incontrato persone provenienti da tutte le parti del mondo. Era il sedersi di fianco a un finestrino e guardare il mondo diventare magnificamente enorme e piccolo allo stesso tempo. Desideravo ardentemente diventare come lei, pronta a partire sulle scalette dell'avventura. Ho sempre voluto vedere il mondo, scoprire profumi nuovi, capire parole diverse, ascoltare storie e musiche che mi facessero fantasticare. Dietro a ogni mio sogno c'è sempre stato un viaggio. Forse è per questo che la mia vita è un susseguirsi di traslochi, di ripartenze in tanti Paesi diversi. Un nuovo inizio ogni volta, ogni volta una nuova possibilità di scoprire chi fosse quella donna con il foulard che la me bambina desiderava tanto diventare. Ma dopo aver vissuto in sei Paesi, studiato in quattro e lavorato in tre, cambiando quasi una ventina di case, mi sembrava ancora di non averla trovata. Liceo, università, Erasmus, master, stage e lavoro: la mia vita era stata una maratona nella quale correvo all'impazzata per riuscire ad arrivare al prossimo punto. Nonostante il mio curriculum raccontasse di esperienze di ogni tipo, in realtà non avevo mai deciso quale fossero il passo o la lunghezza giusti per me. E, soprattutto, non avevo mai deciso quale fosse il mio traguardo. Cosa volevo davvero dalla vita? La risposta la conoscevo: socraticamente, non lo sapevo. Ma qualcosa doveva cambiare. Volevo ricominciare a sentire, a sognare, a non vedere l'ora di alzarmi per vivere un nuovo giorno. La realizzazione di questo, però, tardò un istante ad arrivare. Come un tuono che arriva con qualche secondo di ritardo sul lampo. Come quando, sotto la doccia, ti rendi conto che sapevi la risposta da un milione di euro a ‘Chi vuol essere milionario'. La folgorazione arrivò in una tiepida sera di fine primavera. Io e Alex, il mio compagno, eravamo andati allo show di un ragazzo che aveva lasciato tutto e aveva viaggiato, tra andirivieni, per sei anni. Furono quattro ore di intrattenimento puro: Nick si muoveva sul palco come un ghepardo, sfoderando storie che sembravano essere uscite da un romanzo di Indiana Jones: scalate di montagne, nuotate in mari in tempesta, attraversate di canali in barca con sconosciuti. Seduta sulla mia comoda poltrona al teatro di Zurigo, mi sentivo elettrizzata come non mai. Tornando a casa, non riuscivamo a parlare d'altro. Eravamo fuori di noi dall'entusiasmo. “Ma tu non molleresti tutto per andare a vedere il mondo?” mi chiese Alex. “Sarebbe davvero bello” risposi io. Ma le mie parole rimasero sospese nell'aria, leggere come il sorriso che mi si era stampato sulla faccia. Qualche minuto dopo, in bagno, aprii l'armadietto dello specchio: una quindicina di creme, shampoo, smalti e lacche mi fissavano. Avevo bisogno di tutto quello? O forse desideravo in realtà sentirmi davvero viva, vedere quelle cime di cui Nick ci aveva parlato, tuffarmi in quei mari di cui ci aveva raccontato? Bastò qualche giorno di comoda e tediosa routine per realizzarlo: la mia mente traboccava di sogni e di voli pindarici che mi portavano lontana dal posto in cui vivevo. Il pensiero di un viaggio intorno al mondo, specialmente in quelle giornate di pioggia e di neve a Zurigo, assillava la mia mente mentre l'ennesimo compito da fare finiva controvoglia sul tavolo dell'ufficio. E il mio sogno giaceva, silenzioso, nell'ultimo cassetto, assieme a tutti gli spuntini nascosti. Volevo partire, lo avevo capito. Ma tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare. Eppure... Una sera come tante altre, Alex e io decidemmo che era arrivato il momento. Bisognava smettere di sognare, di lamentarsi e aspettare l'attimo fuggente: il rischio che ci sfuggisse, senza essere notato, era troppo grande. Decidemmo di partire per un viaggio intorno al mondo. Noi, due zaini e tanta voglia di scoprire. Non sarebbe stato un viaggio qualunque: partivamo alla ricerca non solo di nuove culture, ma anche di noi stessi. Volevamo trovare spazio per noi, per la nostra mente, per i nostri desideri. Volevamo scoprire i pezzi di storia che ci avevano portato a essere quelli che eravamo. Circa i posti da vedere, avevamo poche linee guida: saremmo andati nel paesino dove era nato Alex in Kazakistan, in quella che era allora la gigantesca Unione Sovietica, e alla ricerca del paese natio di suo nonno in Georgia. E poi avremmo visto l'Australia, dove vivevano alcuni miei parenti che conoscevo poco ma di cui conservavo il ricordo con affetto. Tutto il resto del percorso sarebbe stato nelle mani del caso e della magia. La paura era tanta. Ce la faremo? Lasciamo davvero anche il lavoro? Le domande che affollavano le nostre menti erano insidiose come un campo minato. Eppure, il segreto era semplice: realizzare che nella vita tutto cambia. Non decidiamo di sposare un marchio o uno stile di vita, piuttosto decidiamo di abbracciare dei valori che poi andranno a formare quello che è l'esperimento più bello del mondo: la nostra esistenza. Troppo spesso siamo concentrati sul nostro cammino e pensiamo, influenzati dagli altri, di dover seguire determinate strade, prendere determinate decisioni che sono ‘normali'. Ma cosa c'è di più normale che ascoltare il proprio cuore? La vita, proprio come un viaggio, è un insieme di esperienze, di persone, di mosaici di emozioni che fanno parte dell'avventura e ci rendono quelli che siamo. La nostra generazione è stata abituata a pensare che un curriculum non debba avere buchi. “Cos'ha fatto lei qui, da maggio del 2019 in poi, per un anno intero? Sarà stato mica un anno sabbatico, una vacanza?”. Ho reso chiari a me stessa i valori sui quali voglio strutturare la mia vita. Li ho definiti nitidamente e lentamente, come una foto in via di sviluppo. Quali sono? Condivisione: durante il viaggio, non è passato un solo giorno senza che fossimo invitati a condividere il pranzo o la cena da famiglie che ci accoglievano a braccia aperte, pur avendo ben poco da condividere. Tuttora mi chiedo spesso: Quando è stata l'ultima volta che hai parlato con uno sconosciuto e l'hai invitato a pranzare da te? Tolleranza e rispetto: viaggiare vuol dire incontrare il diverso, osservarlo e capire il perché del suo vivere. Cerco sempre di domandarmi: Quando è stata l'ultima volta che hai parlato (e ascoltato) con una persona di un altro Paese o semplicemente con credenze diverse dalle tue? Adattamento: ogni giorno è una nuova sfida, un nuovo itinerario, una nuova scoperta da ricercare e studiare. E non posso che chiedermi: Quando è stata l'ultima volta che hai preso una strada diversa tornando a casa da lavoro? Forza interiore: quella si impara da chi la vita non l'ha programmata a tempo indeterminato e che, nonostante tutto, sa regalarti un sorriso. La domanda che mi faccio ancora: Quando è stata l'ultima volta in cui non sapevi se l'indomani avresti dormito sotto un tetto? Umiltà: siamo tutti sulla stessa barca, tutti esseri umani, con gli stessi diritti e doveri e, forse, troppe volte ci dimentichiamo che noi abbiamo avuto la fortuna di vincere un posto in cabina superior. E proprio per questo non dovremmo sentirci tali. Un viaggio ti fa capire che la vita non è eterna, come troppe volte finiamo col credere. L'importanza di avere un'occupazione, un progetto, un lavoro che piaccia parte da un concetto semplice: l'essenziale è invisibile agli occhi. Titoli compresi.
Questo libro è quindi dedicato a tutti i viaggiatori che sanno ancora sognare. Che siano sempre la passione e l'entusiasmo a guidarli nelle loro scelte di vita. Perché non è mai, ma proprio mai, troppo tardi o troppo presto per ricominciare. Da dove si vuole.
Capitolo 1 – Arrivederci, vita ‘sicura'!
“It is so hard to leave, until you leave. And then it is the easiest goddamned thing in the world.” John Green
Stai calma, Marta. Respira. Erano appena passate le nove di una fredda mattina di inizio 2019. Con la mia tazza di caffè in mano, non riuscivo a smettere di fissare il vuoto fuori dalla finestra del mio ufficio. Stai calma, Marta. Respira, ripetevo tra me e me. Ma dentro sentivo esplodere una bomba. Da qualche tempo io e Alex avevamo deciso di partire per un viaggio attorno al mondo. Volevamo vivere davvero quello che riuscivamo solo ad assaporare velocemente durante le vacanze, sempre troppo corte. Avevamo già programmato tutto, disdetto l'appartamento e informato le famiglie. Ma nel momento in cui devi dare le dimissioni dal tuo bel lavoro a tempo indeterminato in Svizzera, ti senti come un Mosè ebbro alla vista dell'enormità del mare che si ritrova davanti. Tuttavia avevo deciso che quel mercoledì, subito dopo il ritorno dalle mie ferie natalizie, avrei comunicato al mio supervisore che avrei lasciato l'azienda. For good – per sempre. Teoricamente avrei potuto ancora aspettare fino a fine mese. Avrei potuto ripensarci, fare marcia indietro realizzando di essere sul punto di compiere una clamorosa cretinata. Ma non ce la facevo più, era più forte di me: la decisione era presa. Non sarei riuscita a guardare i miei colleghi per un altro mese senza dir loro che io, lì, ci sarei stata solamente fino a fine aprile. Mentre continuavo a fissare fuori, una voce distante mi riportò bruscamente alla realtà: “Marta?” Girandomi, vidi la mia collega che mi sorrideva. Mi chiesi da quanto tempo fosse lì a osservarmi. Lei mi conosceva bene, vedendomi quasi ogni giorno: sapeva che una Marta non euforica e poco sorridente era segno che qualcosa non andava. “Stai bene?” mi chiese ancora. Ecco, sono fregata, pensai. Perché a me fa schifo dover mentire. Chiariamoci: mi vanno bene quelle white lies, del tipo: “Sono quasi pronta” mentre sto entrando in doccia. Quelle verità offuscate che alla fine non fanno male a nessuno. Ma dover mentire guardando negli occhi una persona a cui tengo... quello proprio mi urta dentro. Lei, sempre sorridente, mi guardava mentre io non potevo fare altro che continuare a fissare un punto distante oltre la finestra. Non riuscivo a rispondere. Mi limitavo a stringere la tazza che avevo in mano e a sentire che quel maglione di lana che indossavo diventava sempre più caldo e soffocante, nonostante la fredda mattinata svizzera di gennaio. La mia mente, ancora una volta, cominciò a vagare. Mi balzarono alla mente i flash delle ultime settimane: le vacanze natalizie, così strane e diverse. Il primo Natale passato a casa della famiglia di Alex in Germania, il mio senso di colpa per non essere con i miei cari, il ritorno in Italia dalla mia famiglia e l'annuncio della nostra partenza. Tutto pesante nella mia memoria, come il maglione di lana che cominciava a farsi davvero troppo stretto. “Marta, stai bene?” L'ennesimo richiamo alla terra da parte della mia collega mi fece tornare in ufficio con mente e corpo. La guardai, scorrendo lo sguardo lentamente su di lei, sulla scrivania e sui monitor, su tutto ciò che mi circondava in quel momento. Negli ultimi anni, in quell'ufficio, mi ero fatta conoscere per una tosta, gentile ma decisa. Pochi, fino a quel momento, si sarebbero immaginati di vedermi in lacrime. E invece quel giorno, in quel preciso momento, scoppiai a piangere. Piangevo con un misto di tristezza, di sollievo, di paura, di apprensione. Piangevo perché mi stavo togliendo dalle spalle un peso enorme che avevo tenuto segreto a tutti. Piangevo perché stavo per lasciare tutto quello che potevo chiamare ‘casa'. Spiegai alla mia collega che me ne andavo. E lì, piangendo insieme, cominciammo a confessarci le cose splendide che pensavamo l'una dell'altra, realizzando come troppe volte non si vuol trovare il tempo di dirsi le cose belle, quelle che fanno davvero bene all'anima. Sembra quasi che si debba arrivare al termine di un'esperienza per capire quante cose profonde sono successe, oltre ai casini (che sono sin troppo facili da riconoscere). E così, dopo aver lasciato la mia bomba emozionale di fianco al mio computer, mi sentii pronta per andare a informare il mio supervisore della mia scelta. Spaventata, ma convinta di fare la cosa giusta. Bussai. “Ciao, avresti cinque minuti?” gli chiesi. Di solito, nella vita come nel lavoro, tendo a dilungarmi. Forse per paura di non essere capita, o forse per paura di dire veramente tutto quello che penso. Quel giorno invece, in soli cinque minuti, dissi chiaro e tondo quello che la mia mente aveva elaborato in un tempo molto più lungo: “Me ne vado, ho deciso di fare il giro del mondo”. Inizialmente sul viso del mio supervisore si dipinse la più profonda sorpresa. Ma poi, quasi magicamente, vidi nascere qualcosa di molto simile alla comprensione. Mentre mi chiudevo la porta alle spalle sentii come se in quella riunione, assieme al mio foglio di dimissioni, avessi lasciato una zavorra di cento chili. Fatta di tensione, di obblighi, di paure. Ce l'avevo fatta, ero finalmente libera! Un'amica, qualche giorno dopo, mi chiese: “Come ci si sente quando ci si licenzia per partire per un viaggio intorno al mondo?” Questa domanda mi fece pensare. Tentai di tradurre in parole il sentimento che avevo dentro: “Hai presente quando sei sott'acqua e nuoti verso la superficie per prendere il respiro? Non appena esci, finalmente respiri ma non riesci a capire dove sei. Quando dai le dimissioni ti senti così, libera di respirare. Ma appena smetti di boccheggiare, quando capisci che sei in mezzo al mare, ti giri verso la spiaggia. Scopri che da dove sei puoi vedere i tuoi colleghi e tutta la tua vita professionale che sono rimasti là, sulla sabbia, a guardarti mentre ti allontani. E ti rendi conto di quanto quella spiaggia fosse bella, e di quanto quelle persone con cui hai lavorato ti mancheranno. Probabilmente le cose belle, come i tramonti, hanno bisogno di essere visti da una certa distanza per essere apprezzati.” Galleggiando nel mare della mia nuova vita, guardavo allontanarsi quella che era stata la mia costa sicura. Sebbene fossi pronta a salpare per nuovi mondi, non potevo trattenere le lacrime. Lacrime di sollievo ma, soprattutto, di gratitudine: stavo lasciando delle persone che avevano trasformato la mia vita, alcune nel male e molte altre nel bene. Ero grata a tutte loro. L'ora di salpare era arrivata.
Marta Novella
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