Venezia (1297 – 1300).
“Antonio, sbrigati!” I due ragazzi correvano con Palù, il loro cagnetto giallo, lungo la calle che costeggiava gli orti del borgo di S. Trovaso, dove abitavano. Caterina portava ancora la tunichetta dritta e attillata, usata dalle bambine e, per andare più veloce, l'aveva sollevata fino alle ginocchia. Si sentiva in colpa, perché erano in gran ritardo, e si spazientiva col fratello rimasto indietro. Come facevano spesso, si erano spinti fino a Rialto dove arrivavano i barconi carichi di mercanzie dalla terraferma e le imbarcazioni venute da oltremare. Vi si incontravano persone di ogni razza e provenienza, oltre ai tanti veneziani reduci da lunghissimi viaggi, ed essi speravano sempre di trovare – anche se ormai sarebbe stato quasi un miracolo - qualche amico di famiglia di ritorno dall'oriente, che potesse dar loro notizie del padre. Si erano attardati, senza rendersene conto, a zonzo con il gruppetto di monelli popolani, con cui avevano fatto amicizia recentemente. Non erano certamente una compagnia che avrebbe avuto l'approvazione della famiglia, ma pur sudici e coperti di stracci erano allegri e più interessanti dei rampolli ben nutriti e presuntuosi delle famiglie rispettabili del loro ceto. Caterina e Antonio ne ammiravano l'indipendenza e il modo disinvolto di affrontare le difficoltà della vita e li avevano conquistati portando spesso qualcosa da mangiare, di cui si impadronivano di nascosto in cucina, o qualche capo di vestiario ormai scartato. Insieme a loro, si tuffavano eccitati fra le viuzze oscure nei dintorni del ponte, sulle quali si affacciavano botteghe e magazzini con merci e oggetti che venivano da tutto il mondo. In quell'ambiente pieno di vita si distraevano sognando un futuro avventuroso e per un po' dimenticavano la loro difficile situazione familiare. A Caterina si strinse il cuore, pensandoci, ed esortò di nuovo il fratello minore che si era fermato a prendere in braccio un gattino spaventato da Palù: “Andiamo, su! Maroca ci aveva raccomandato di tornare presto oggi. Ed è quasi buio!” “Ma tanto lei è troppo impegnata a curare la mamma per accorgersi di quello che facciamo.” “Dovremmo essere già a casa, anche perché la mamma potrebbe chiedere di vederci!” Antonio depose la bestiola su un muretto e si voltò con uno sguardo ansioso. “La mamma non morirà, vero, Caterina?” “Non lo so ... e non voglio neppure pensarci.” Ripresero a correre lungo la fondamenta, senza preoccuparsi del limo depositato dall'ultima acqua alta. Erano abituati alla sporcizia delle calli veneziane, non lastricate e spesso fangose, e i loro vestiti si erano comunque già abbondantemente schizzati di fango. Arrivati infine vicini a casa, videro con sollievo il portone ancora aperto. Caterina entrò in fretta e, passando vicino al fondaco, si sentì confortata dai familiari odori delle spezie che aveva respirato fin da piccola, anche se ormai sempre più raramente il magazzino era ancora usato come deposito dalla famiglia paterna. Del padre Domenico lei e il fratello quasi non ricordavano più il viso. Era lontano da troppi anni e solo un paio di volte durante tutto quel tempo ne avevano avuto qualche notizia: stava forse ancora nel Catai, un paese lontanissimo ai confini della terra? Mentre dal cortile sgattaiolavano verso le loro stanze, cercando di non farsi notare, apparve sulle scale Maroca, che si era occupata di loro da quando erano nati: nonostante l'età e la figura abbondante scendeva rapidamente con aria indaffarata e ansiosa. Quando li scorse, li interpellò impaziente: “Benedeti putei, dove eravate spariti? E come vi siete conciati? Caterina! Ormai a dodici anni dovresti avere più buon senso e non essere di cattivo esempio per tuo fratello, che è più piccolo. Guardati un po': hai l'orlo del vestito tutto inzaccherato e i capelli sudati e spettinati.” Afferrò Antonio, scrollandolo: “E tu, marcolfo che sei! Puzzi come un pescivendolo. Con che razza di popolazo passate il tempo? Andate su a pulirvi e spazzolate anche il cane, senza farlo abbaiare. La mamma sta riposando. Non dovete far chiasso.” Sebbene Maroca fosse una donna dal carattere allegro e dolce, in quel momento aveva un'espressione così nervosa e preoccupata che i due ragazzi si affrettarono a ubbidirle col cuore pesante, senza farle domande. Solo il giorno dopo la mamma li fece chiamare ed entrare in camera sua: giaceva nel grande letto con le cortine parzialmente chiuse e, nella penombra, il viso appariva cereo e i suoi occhi cerchiati di scuro. Negli ultimi giorni sembrava essere invecchiata di molti anni e assomigliava appena alla donna ancora giovane e vivace che era stata pochi mesi prima. Quando sentì arrivare i figli, si volse e li fissò per un momento con espressione vacua, quasi li riconoscesse a fatica, poi cominciò a parlare con voce flebile, rivolgendosi prima a Caterina: “Bambina mia, temo di dovervi lasciare presto e mi piange il cuore all'idea che sarete abbandonati alle cure di parenti che si occuperanno di voi solo per dovere. Sei una ragazza intelligente e di carattere forte: non ti perdere mai d'animo! E tu, Antonio, appena sarai più grande, cerca di ritrovare vostro padre e, se verrai a sapere che non è più in vita, aiuta tua sorella come potrai.” Caterina rimase in silenzio, mentre il bambino reagiva spaventato: “Mamma, perché dici questo? Devi guarire e stare con noi!” Sul volto dell'ammalata apparve un lieve sorriso. “Cercherò. Non abbiate timore ... Forse Dio mi aiuterà.” Su tutta la casa, nei giorni seguenti, si diffuse una cappa opprimente di tristezza e di inquietudine. I servi si muovevano senza far rumore e avevano rinunciato al solito cicaleccio, fra lo scherzoso e l'aggressivo, con cui parlavano fra loro. I ragazzi avrebbero voluto stare il più a lungo possibile nella stanza della mamma per sentirsi rassicurati, ma Maroca con decisione li mandava via, imponendo loro di continuare a obbedire ai loro insegnanti e a fare senza discutere quello che era loro richiesto. La sorpresero un paio di volte ad asciugarsi gli occhi furtivamente ma, quando li vedeva, reagiva ai loro sguardi allarmati tranquillizzandoli: “La mamma deve riposare molto per stare meglio.”
Quando infine furono ammessi di nuovo nella camera di lei per salutarla, sembrò loro rimpicciolita e col viso alterato dalla febbre: alzò appena una mano per una breve carezza, ma non parve essere più in grado di parlare. Dalla sua bocca usciva a tratti un rantolo sibilante, come se facesse fatica a respirare. Terrorizzati dal cambiamento, si lasciarono portar via dalla stanza sentendosi storditi e quasi malati anch'essi. Non riuscirono a distrarsi né con i giochi del loro cagnolino, né per le carezze della cuoca che cercava di attirarli in cucina offrendo i loro cibi preferiti: “Povari putei! Venite: ho preparato i bussolai, i biscoti che ve piase tanto. E qui c'è un po' di latte caldo col miele. Dovete tenervi su.” Avevano lo stomaco chiuso da un'ansia incontrollabile e la sera si sdraiarono insieme su uno dei letti, tenendosi per mano per incoraggiarsi a vicenda. Rimasero a lungo svegli, cercando di capire dai vaghi rumori della casa se ci fosse qualche miglioramento nelle condizioni della mamma, ma infine cedettero alla stanchezza addormentandosi in un sonno agitato. Si svegliarono all'improvviso con l'impressione di aver dormito solo un attimo, quando Maroca entrò nella camera. Pur sforzandosi di sembrare calma, con voce tremante annunciò loro che la mamma era morta durante la notte. Caterina ebbe l'impressione che tutto crollasse intorno a lei e si aggrappò alla donna abbracciandola, per sorreggersi e non cadere a terra. Antonio, dopo un attimo, fuggì dalla stanza e dovettero poi cercarlo a lungo, per ritrovarlo infine al buio in un piccolo stanzino che serviva da dispensa, attiguo alla cucina, dove si era nascosto per dar sfogo al suo dolore piangendo senza farsi vedere da nessuno. Maroca, un po' più calma, li prese insieme fra le braccia: “Passerotti miei, non abbiate paura! Io non vi abbandonerò. Poi sarà quel che piaserà al Cielo. Ora verranno i parenti di vostro padre e si prenderanno cura di voi. Mostrate che avete avuto una buona educazione, me racomando.” “Ma potremo restare in questa casa con te?” “Questo dipenderà dai vostri tutori. Dovrete adattarvi alle loro decisioni.” Caterina e Antonio furono introdotti nella grande sala dove non entravano quasi mai, essendo riservata alle ormai rare visite dei soci di affari del padre o a qualche importante riunione familiare. Vicino al lungo tavolo centrale si stagliava, nella luce che entrava in abbondanza dalla grande trifora sul canale e lo illuminava di spalle, la figura imponente dello zio Angelo Vilioni, un cugino del padre. Lo avevano già intravisto alcune volte negli ultimi tempi, quando veniva a trovare la padrona di casa ammalata, ma non lo conoscevano davvero, né si erano creati rapporti affettuosi fra loro. Sapevano di non avere parenti più prossimi, perché la mamma veniva da una città della costa adriatica greca, una delle colonie veneziane, e da tempo era arrivata notizia che i suoi genitori non erano più in vita. Nella sua veste lunga e scura, alto e segaligno, lo zio Angelo incuteva ai due ragazzi una soggezione mista a un vago senso di paura e gli si inchinarono senza riuscire neppure a dire le poche parole di saluto che si erano preparati. “Dopo la morte di vostra madre e nella situazione economica in cui vi trovate, non avete altra scelta che quella di venire ad abitare con me e con mia moglie. Di vostro padre non abbiamo più notizie da diversi anni e non sappiamo cosa sia accaduto del denaro e delle mercanzie che aveva raccolto per il suo ultimo viaggio verso l'Oriente.” Si accigliò fissandoli, come se li ritenesse responsabili di tale perdita. “Cercherò di amministrare al meglio quello che resta del vostro patrimonio familiare, ma vi avverto che dovrete vivere in modo morigerato, sforzandovi di fare il vostro dovere, nel rispetto per la vostra nuova famiglia. Purtroppo, dovremo vendere tutto il possibile degli oggetti e dei mobili rimasti in questa casa, per far fronte alle spese immediate e per costituire un gruzzolo da investire per un minimo di dote per te, Caterina, e per il futuro di Antonio. Il palazzo in cui avete abitato finora, del resto, era in affitto e bisogna vuotarlo per restituirlo ai proprietari. Oltre alle vostre cose personali, ognuno di voi potrà scegliere un piccolo oggetto, da prendere con sé come ricordo dei vostri genitori.” “Potremo portare con noi Maroca e il nostro cagnolino?” Chiese Caterina, facendosi coraggio. Sul viso austero dello zio passò rapidamente un'espressione contrariata: “Per il momento sì. Ricordate, però, di essere obbedienti e di non avanzare pretese, se volete che andiamo d'accordo. Non create problemi a me e a vostra zia Flora, che dovremo occuparci di voi!”
I due ragazzi camminavano meccanicamente dietro il feretro della madre. Pur essendo abbastanza grandi per capire il significato della morte, a cui del resto erano stati in parte preparati dalla lunga malattia di lei, fino a quel momento erano vissuti inconsciamente in una vaga sensazione di speranza che la mamma sarebbe uscita all'improvviso dalla sua stanza, vivace come la ricordavano in passato, e che avrebbero potuto riprendere le loro abitudini e i loro studi. Ora sentivano che la loro vita era giunta a un cambiamento radicale e la desolazione li invadeva. Per evitare critiche, lo zio non aveva lesinato troppo sulle spese: erano stati ordinati vestiti da lutto per tutti i famigliari e i domestici, elargite le consuete offerte alla parrocchia di S. Trovaso, dove sarebbe stata officiata la messa funebre, e al vicino convento delle Terese e distribuite adeguate elemosine ai poveri sostenuti dalla famiglia, perché pregassero per la defunta e facessero ala al corteo funebre con le loro benedizioni. Caterina, durante tutta la cerimonia, rimase immobile come impietrita senza cedere al desiderio di piangere e strinse la mano del fratello, facendogli quasi male, sperando di trasmettergli la forza per reagire alla disperazione e nello stesso tempo sentire la sua vicinanza. Rientrata a casa, mentre tutti erano occupati nella preparazione del rinfresco dopo il funerale, Caterina si soffermò in ogni stanza per imprimersi nella memoria quell'ambiente, piacevole e pieno di luce e di ricordi, in cui era trascorsa la sua vita fino a quel momento. Tutto lì rispecchiava la personalità raffinata della mamma. I cuscini di seta a colori tenui e le tende sontuose ma leggere rallegravano il salone, dove alcuni mobili intarsiati e i bei tappeti orientali ricordavano i viaggi del padre, che li aveva portati in dono alla moglie al suo ultimo ritorno a Venezia. La ragazzina si guardò intorno, incerta su cosa scegliere: erano tanti gli oggetti di cui le sembrava non poter fare a meno e che non riusciva ad immaginare nelle mani di estranei. Infine si decise per un cofanetto dipinto, dove la mamma aveva conservato i suoi gioielli e i documenti più importanti. Con delusione vide, aprendolo, che era quasi vuoto: le gioie di maggior valore erano evidentemente già state destinate alla vendita, ma vi erano ancora due anelli d'oro, uno formato da due serpenti intrecciati e l'altro di filigrana, che la mamma portava sempre alle dita, oltre a una collana sottile con un pendente di acquamarina. Ricordò le parole di sua madre, quando gliel'aveva mostrata: “Questa è destinata a te fra qualche anno, poiché la pietra ha proprio il colore dei tuoi occhi.” Sul fondo era rimasto anche un grosso quaderno di pergamena rilegata in pelle: Caterina lo sfogliò e si rese conto che era una descrizione, scritta dal padre, di un viaggio da Venezia alla Persia con informazioni sui posti di sosta e sulle caratteristiche di ogni tappa e persino alcuni abbozzi di mappe, utili a un futuro viaggiatore. Si rallegrò per un attimo di poter avere un ricordo di entrambi i suoi genitori e, messo al sicuro il cofanetto nel cassone dove teneva i vestiti nella sua stanza, si avviò a cercare Antonio perché anche lui scegliesse qualcosa da portare via. Il fratello non sembrava molto interessato agli oggetti di casa. Per lui ancora erano più importanti il suo cagnolino e i suoi giochi che i ricordi di famiglia, ma Caterina lo convinse a prendere una bella lampada a olio di rame inciso con sottili decorazioni, anche quella certamente di origine araba. Aveva illuminato da anni le loro serate nel piccolo studio dove la sera leggevano con la mamma le storie fantastiche, di cui non si stancavano mai, contenute in alcuni libri che il padre era riuscito a comprare. Anche quelli erano spariti: i libri erano oggetti rari e costosi, che poche persone potevano permettersi di possedere, e Caterina li ricordò con rimpianto.
Annarosa Manetti
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