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Autore: Luigi Arcari
Escursioni
Racconti
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Escursioni
La mosca.
La mosca, colpita in pieno, sembrò prendere vita e cominciare ad annaspare, agitarsi e ingigantirsi, fino ad acquisire proprio le sembianze e le movenze di Melchiorre Riccobono, il capo del capo del suo capo, depositario ultimo dei destini di quasi duecento dipendenti, tra i quali lui, Liborio Cavallaro, non era certamente l'ultimo arrivato, potendo contare su un'anzianità aziendale di diciotto anni e sette mesi. Quella mattina il dottor Melchiorre Riccobono, col titolo scritto a lucide lettere sulla porta del suo ufficio e sui suoi biglietti da visita, sebbene fosse cosa nota che dottore non era, in quanto né medico né possessore di un qualunque attestato di laurea, aveva appunto cominciato ad annaspare e agitare le braccia nel vuoto, paonazzo nel viso grassoccio e con gli occhi strabuzzanti dalle orbite, sollevandosi a fatica dalla poltrona a braccioli della sua scrivania, nella quale era solitamente saldamente incastrato a causa della sua notevole mole, ancora più accentuata a livello del posteriore. Era sembrato non riuscire ad emettere alcun suono, pur con la bocca ampiamente aperta, ma aveva infine espulso rabbiosamente poche e sibilanti parole, vada immediatamente fuori di qui, maleducato, irriconoscente e perverso figlio di puttana, prima di ricadere ansante e pesantemente nella poltrona, di nuovo confortevolmente e saldamente incastrato. Non era certamente suo costume esprimersi con parole e toni di tal fatta. Probabilmente era anche una sua caratteristica genetica, proveniente com'era da una famiglia di lontane origini nobiliari, come amava ricordare e ripetere, pur se dagli antichi beni in massima parte dilapidati dalla generosità disinteressata di alcuni pii antenati, che avevano anteposto la virtù suprema della carità all'interesse proprio e della propria casata. Ma era principalmente frutto della sua severa educazione gesuitica, ricevuta nei vari ordini di scuola presso il seminario provinciale, che aveva praticamente annullato ogni istinto di slancio emozionale, ogni concessione all'irrazionalità, favorendo l'interiorizzazione e il controllo di ogni emozione, al prezzo purtroppo ed evidentemente della loro somatizzazione fisica, che si era estrinsecata nella pronunciata obesità, per nulla intaccabile dalle diete più ferree. Causa scatenante dell'eccezionale fenomeno, insieme cinematico, cromatico e pneumologico, era stata la inaspettata sfilza di insulti pronunciati da Liborio Cavallaro al suo indirizzo. Non potendo vantare origini nobiliari, educato in normali scuole statali, severe anch'esse nelle punizioni ma aperte ad ogni strato sociale e ad ogni possibile gradazione di esuberanza fisica e verbale, Liborio Cavallaro aveva al contrario privilegiato gli slanci emozionali, le gioie dell'irrazionalità, il diletto delle provocazioni verbali, gli appagamenti del confronto fisico, tutte manifestazioni che solo e non sempre con grande sforzo riusciva a contenere. Alieno comunque dalle bestemmie, solo per filiale rispetto verso la grande devozione religiosa della madre, gli aveva urlato parole che ripetere nella loro integrità lessicale risulterebbe fuori luogo, ma che semanticamente alludevano direttamente ad una sua nascita nell'ambito di una unione illegittima, da una madre dedita alla più antica professione del mondo, ad una conformazione fisica ripugnante, oltremodo abbondante, viscida e laida, ad una faccia imparentata con l'appendice della mascolinità, ad un posteriore fatto oggetto di virili attenzioni, a gusti sessuali non convenzionali, solo per fermarsi alla parte più grossolana degli insulti, arricchiti da aggettivi originali e barocchi, amalgama di varie forme dialettali che denotavano indubbiamente una profonda e vasta cultura di settore. E di nuovo in quel momento, mentre con decisione, precisione e reiterata collera colpiva insistentemente il bersaglio stampato nell'orinatoio, rinnovò contro la mosca-Riccobono la litania di ingiurie già pronunciata, con piccole e ardite varianti ma sostanzialmente immutata. Naturalmente Liborio Cavallaro non era stato colto quella mattina da improvvisa pazzia, per dare libero sfogo alla sua capacità oratoria all'indirizzo del capo del capo del suo capo. Benché fumantino e certamente insofferente alle gerarchie, militari o aziendali che fossero, mai avrebbe messo a rischio il suo posto di lavoro, dignitoso e decorosamente remunerato, con un comportamento di tal fatta. Atavicamente educato alla religione del lavoro come fonte non solo di sostentamento della vita, ma di dignità sociale e personale, aveva sempre lavorato, fin da piccolo, facendo innumerevoli e spesso faticosi lavori, cercando di adeguarsi, farseli piacere, migliorarsi e specializzarsi, fino a trovare quel lavoro che da diciotto anni e sette mesi costituiva il suo saldo riferimento economico e di rispettabilità. Ma era stato proprio il suo posto di lavoro l'oggetto dell'incontro col dottor Melchiorre Riccobono, la causa scatenante dell'escalation verbale intercorsa. Liborio Cavallaro aveva iniziato anche quella mattina il suo lavoro di addetto alla conduzione di impianti metalmeccanici, mansione che, come riportato nelle declaratorie dei contratti sindacali, attiene ai lavoratori che, sulla base di indicazioni, con l'interpretazione critica del disegno o di documenti equivalenti ed in riferimento alle caratteristiche finali richieste dal processo effettuano, conducendo impianti, manovre di elevato grado di difficoltà, provvedendo con la scelta della successione delle fasi di lavorazione alla definizione dei parametri di lavorazione e delle modalità di esecuzione e delle eventuali attrezzature da utilizzare anche in caso di introduzione di nuovi processi di lavorazione. A metà mattina era stato convocato presso gli uffici della direzione per comunicazioni urgenti. Accompagnato da una segretaria, era stato ammesso al cospetto del dottor Melchiorre Riccobono, mai incontrato personalmente e visto solo da lontano in pochi e fuggevoli occasioni. Invitato ad accomodarsi, lo aveva fatto, con atteggiamento certamente di riverenza, ma non alieno da contegno e fierezza, sprezzando egli profondamente sia la sottomissione sia le arti del lecchinaggio, che né aveva per istinto né aveva mai coltivato. Certamente l'insolita convocazione era stata una sorpresa, ma la sua indole, ardita e serena insieme, ostacolava sia pensieri di alte aspettative che di inquietudine, risolvendosi in un sereno interrogativo sulle motivazioni della chiamata. Il dottor Melchiorre Riccobono era apparso tristissimo nel suo volto grassoccio, con una espressione che a Liborio Cavallaro aveva ricordato immediatamente il grande Aldo Fabrizi nei suoi ruoli più maturi da maschera tragicomica. Anche la sua parlata si era avviata nel solco dell'afflizione, tanto che Liborio Cavallaro aveva pensato con sincera partecipazione che ci fosse stato qualche recente o improvviso doloroso episodio nella sua vita o in quella di qualcuno dei suoi cari. Vede, caro amico, era stato l'incipit. Amico? Si era chiesto Liborio Cavallaro subito dopo la riflessione sul doloroso evento. Escludendo che potesse esserci stato uno scambio di persona, nella certezza assoluta che tra lui e il capo del capo del suo capo non ci fosse mai stata non certo qualcosa di assimilabile ad una relazione di amicizia, ma neppure una qualche forma di conoscenza superficiale, non rimaneva che concludere che fosse un suo personale intercalare, a meno che il certamente pio capo del capo del suo capo non intendesse l'amicizia come il naturale sentimento del cristiano verso i suoi fratelli nella specie umana, conosciuti e sconosciuti, credenti e non credenti, pari grado o subalterni. Bastò questo ricordo, caro amico, per rinvigorire il gettito della sua urina contro la mosca-Riccobono, annaffiandone la testa, l'addome e le ali, mentre sibilava al suo indirizzo uno sprezzante caro amico, caro amico del cazzo. Vede, caro amico, la nostra è un'epoca di decadenza della civiltà e dei suoi valori fondanti, di degenerazione dei principi e dei fini per i quali un creatore amorevole ha messo il creato a disposizione di tutta l'umanità, dove la felicità universale, il benessere collettivo, la giustizia sociale e la ricchezza dello spirito sono state sostituite con l'accumulazione, il profitto e la ricchezza materiale, la competizione per accaparrarsi fette più consistenti di ricchezza, benessere e felicità. Così aveva continuato il dottor Melchiorre Riccobono. Aveva poi tratto le sue conclusioni, riassumibili sostanzialmente nell'ineluttabilità della presa d'atto della situazione, pesante fardello da portare sulle spalle da parte di coloro, anime particolarmente sensibili, la cui coscienza civica, morale e cristiana urlava vendetta contro tale regresso. E certamente lui rientrava tra queste anime, a giudicare dalla profonda sofferenza che queste valutazioni comportavano. Liborio Cavallaro era rimasto incerto se mostrare pari contrizione, annuire, chinare la testa in segno di afflizione, allineandosi al novero delle anime sensibili, oppure mostrarsi orgoglioso e riconoscente del fatto che il capo del capo del suo capo esternasse alla sua presenza tali profonde verità e addirittura le condividesse generosamente. D'altra parte lui, persona semplice e pratica, alieno sia alle speculazioni filosofiche del libero pensiero che alla teoria e all'azione della politica, mal recepiva la generalità e le sottigliezze di tali discorsi, si era quindi domandato ancora in che direzione stavano marciando quei discorsi, dove l'altro volesse in sostanza andare a parare, in che modo essi si andassero a incrociare con la sua persona. Il dottor Melchiorre Riccobono aveva cominciato ad avvicinarsi ad un tema più concreto. L'azienda che ho l'onore e l'onere di dirigere, la nostra azienda, non è che un vaso di coccio in mezzo a tanti vasi in ferro, per dirla col Manzoni, solo un fuscello trascinato nel turbinare della tempesta, non può quindi in alcun modo ostacolare le logiche che l'economia di mercato e la globalizzazione impongono, anzi essa per prima e più di altre è costretta a seguirle, ad adeguarsi ad essa, se vuole non dico espandersi e ulteriormente svilupparsi, ma almeno continuare a sopravvivere. Dura lex quella del mercato, caro amico, sed lex, come il brocardo di Ulpiano ci insegna. Fanculo tu, il brocardo, Ulpiano, il mercato e la dura lex, inveì ancora Liborio Cavallaro contro la mosca-Riccobono, bersagliandola violentemente. Era infine arrivata a conclusione la complessa circonlocuzione del discorso, che come una spirale convergente era partita da lontano per andare progressivamente a confluire nel suo centro. È quindi con profonda angoscia che abbiamo deciso, ho deciso, voglio assumermi la piena responsabilità di questo doloroso provvedimento, che il taglio dei costi che il contesto attuale ci impone di perseguire si rifletta in una significativa riduzione del personale. Mi trovo nella triste circostanza di doverla informare, le assicuro l'enorme rammarico che queste parole mi procurano, che lei, insieme a molti altri nostri dipendenti, rientrerà immediatamente in un pacchetto di messa in mobilità che comporterà una successiva risoluzione del suo rapporto di lavoro con la nostra azienda. Il dottor Melchiorre Riccobono aveva pronunciato queste ultime parole con immensa fatica, apparendo infine esausto e svuotato per lo sforzo e il dolore sostenuto. Aveva anche abbassato lo sguardo, tanto pesante gli risultava evidentemente la comunicazione data da provarne vergogna. Liborio Cavallaro, pur perspicace e di intelligenza pronta, all'inizio non aveva pienamente compreso il significato di quanto gli era stato detto, oppure forse la sua mente, del tutto impreparata alla notizia, si era rifiutata di recepirla. Era quindi restato interdetto e immobile, incapace di pronunciare parola alcuna, fissando ostinatamente quella faccia grassoccia ed esangue, a sguardo chino, che aveva davanti. Poi era stato come folgorato da improvvisa ed intensa luce e, per la priva volta da quando era iniziato il colloquio, aveva parlato. Sta dicendo che sono licenziato? Il dottor Melchiorre Riccobono aveva risollevato le palpebre, quasi rianimato dall'ascoltare delle parole provenienti da quell'uomo seduto davanti alla sua scrivania, come se il saperlo ancora vivo nonostante la sentenza che era stato costretto a patire gli procurasse sollievo. Tecnicamente, aveva risposto, lei adesso entrerà in mobilità, sarà solo successivamente che il suo rapporto di lavoro con l'azienda giungerà a termine. Tecnicamente o non tecnicamente mi stai dicendo, aveva ribadito Liborio Cavallaro passando al tu, alzando il tono della voce e sollevandosi in piedi, che io dopo diciotto anni e sette mesi di lavoro in questa azienda sono licenziato in tronco, dopo che ho lavorato bene, con dedizione e senza procurare mai fastidio alcuno, licenziato come l'ultimo degli arrivati, buttato via come uno straccio che ormai non serve più. Si calmi, aveva detto il dottor Melchiorre Riccobono, non deve recepire in questo modo una decisione dolorosa che solo l'involuzione dei nostri tempi e le necessità del mercato ci impongono, al fine di salvaguardare la sopravvivenza stessa dell'azienda e il lavoro di quanti continueranno ad operare in essa. Era stato a questo punto che Liborio Cavallaro aveva perso le staffe. Sai dove puoi mettertela la tua decisione dolorosa, insieme con l'involuzione dei tempi e le necessità del mercato? Aveva urlato all'indirizzo del capo del capo del suo capo, dando la stura alla sfilza di parolacce che, abbattendosi come pietre di maglio sulla sua faccia lo avevano privato di aria e reso paonazzo. Probabilmente Liborio Cavallaro si sarebbe avventato fisicamente contro quell'uomo congestionato incastrato nella poltrona di fronte a lui, se non fossero entrati la segretaria e due guardie giurate, richiamate dalle grida. Era stato accompagnato verso l'uscita dell'azienda mentre ancora urlava e sgomitava. Lasciato all'esterno del cancello chiuso, aveva continuato a imprecare, tra quanti si erano fermati a godersi lo spettacolo, finché si era diretto verso la sua auto parcheggiata insieme ad altre decine lungo lo stradone sul quale si affacciava l'ingresso dell'azienda, partendo sgommando dopo brusche manovre di uscita dal parcheggio improvvisato. In macchina aveva fantasticato di aspettare il dottor Melchiorre Riccobono sotto la sua casa, fracassargli la faccia a colpi di pugni e affondargli un coltello nella sua gola gigante. Aveva percorso solo qualche chilometro, prima di fermarsi presso un anonimo bar di periferia, dove era entrato per calmarsi bevendo qualcosa di forte. E poi aveva avuto l'imbellente bisogno di recarsi al bagno. Scaricò contro la mosca-Riccobono gli ultimi pigri effluvi, si sgrullò accuratamente, risistemò il tutto e richiuse la patta dei pantaloni. Non poté non constatare quanto il suo maniacale impegno a colpire accuratamente il bersaglio avesse giovato all'igiene del bagno, perfettamente asciutto all'esterno dell'orinatoio. Restò a rimirare la mosca-Riccobono. Sotto i suoi occhi la precedente mutazione cominciò a regredire, ridursi, riacquistare le dimensioni e le sembianze dell'innocuo insetto, stilizzato nell'orinatoio appunto per catturare l'attenzione e migliorare la mira, finché l'immagine del dottor Melchiorre Riccobono svanì del tutto. La mosca rimase lì, immobile e ammaliante. Parallelamente, anche l'importanza agli occhi di Liborio Cavallaro di quella persona, del suo ruolo, del suo potere e della sua sentenza si ridimensionarono, acquistarono il loro peso relativo. Lo sfogo catartico contro la mosca aveva rasserenato il suo animo. Si mise a ridere, prima istericamente poi via via in maniera più calma, equilibrata, di gusto. Fottiti, dottor Melchiorre Riccobono.

Luigi Arcari

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