Gli eventi ti sorridono.
1 - L'inizio Il sole era sorto più di una volta quel giorno, evidentemente le nuvole stavano facendo un buon lavoro. La scuola era da poco iniziata e così tutti i giovani cittadini si erano trovati costretti ad abbandonare i ritmi festaioli dell'estate. La corsa alle classi ed ai libri stava avendo luogo inesorabile, come ogni anno, come ogni autunno. I primi furono gli universitari, seguirono i bulli delle elementari ed infine i bellocci delle medie. “Professoressa?” disse uno dei ragazzi della scuola media poco distante la via principale di Palermo. “Dimmi pure Eugenio”. “Cosa è un cannibale?” domandò la dolce creatura, con le mani che stringevano il banco e la curiosità che fremeva insieme a qualche risatina dei compagni. “Un cannibale è qualcuno che mangia un suo simile” rispose sicura di sé la donna, mentre faceva roteare tra le dita i suoi occhialetti. Dal bell'aspetto, l'insegnante sapeva però quanto ormai gli anni pesassero sul suo viso. “Un cannibale è ad esempio un uomo che mangia un altro uomo” concluse. Seguirono solo pochi attimi di silenzio in cui tutti scrutarono tutti. Il ragazzino allora sorrise. Si alzò in piedi e, con grande slancio, raggiunse la cattedra; si sedette sul piano ed accarezzò la testa di quella donna che, sorpresa, non seppe cosa dire. “Si sbaglia professoressa, cannibale non è chi mangia i propri simili, cannibale è chi li salva!”. La voce mutò, Eugenio tirò fuori dalla tasca un coltello e sgozzò senza indugi la donna. Lo schizzo di sangue raggiunse il mappamondo che stava accanto al libro di testo, sempre sulla cattedra. Una chiazza rossa aveva colpito l'Italia ed uno squarcio sostituiva la gola di quella povera insegnante. Gli altri alunni strillarono e poi fuggirono. Il giovanotto rimase lì fermo a contemplare quell'efferato crimine, quello scempio che però lo rendeva felice: guardò verso la finestra e pensò che forse fosse meglio che si tagliasse la gola anche lui, tanto a chi sarebbe importato? 2 - Il primo sguardo Le testate giornalistiche scoppiavano di commenti: “Spaventoso delitto alla scuola media, Palermo rabbrividisce”. Tutti si affrettavano ad acquistare quella carta che guadagnava sul sangue della gente. Tutti leggevano e tutti pensavano a quanto il mondo fosse diventato ingiusto. “È assurdo!” esclamò una mamma che spingeva un passeggino. “Come può un ragazzino uccidere?”, gettò il giornale per terra con forte sdegno, ma questo fu subito raccolto da un passante che aveva udito quel commento. Si trattava di una storia di passaparola ed informazioni distorte che non sarebbe finita presto, tanto che alle sette del pomeriggio non vi era siciliano che non fosse venuto a conoscenza del misfatto. Meno male che la luce del giorno scioglieva il ghiaccio e riscaldava i cuori delle belle, insomma faceva delle stesse cose delle cose nuove. Sembrava di vivere in una di quelle scene cinematografiche in cui improvvisamente parte una musica di sottofondo. La musica però si sa che in Sicilia non c'è per le strade, né si trova nei negozi. La musica ce l'hanno i siciliani, ma non la danno agli altri come dicono: se la tengono per loro, è meglio così. Sapere che però un bambino è in grado di fare certe cose, lo cambia il mondo, cambia la musica della società, cambia anche la mafia. Esistono quindi delle forze più potenti di tutto il resto e la paura è proprio una di queste: perfino per chi non ha niente da perdere. Lo scalpore più grande lo faceva però la questura. Dieci uomini se ne stavano attorno ad un tavolo, ma questa volta senza caffè e cornetto: solo foto orribili e qualche stuzzicadenti, la situazione richiedeva massima serietà. “Io non voglio partecipare al sorteggio!” disse uno dei presenti. “Tu parteciperai come tutti noi al sorteggio! Chi ti credi di essere? Credi che a me possa piacere più di te parlare con un bambino di ciò che è accaduto?”, gli altri concordarono con quell'affermazione tanto che Salvatore dovette arrendersi alla faccenda. “Va bene, facciamo questo sorteggio dannazione!” Ognuno prese un pezzetto di legno. Gli occhi di quegli uomini in divisa si diressero presto verso le mani di Salvatore. “La sorte non dà tregua” commentò Salvatore che si alzò d'impeto, spingendo uno dei suoi colleghi. Si diresse verso l'altra sala e sbatté la porta, ma con tanta di quella forza che i fogli poggiati sul tavolo in prossimità dell'ingresso svolazzarono lenti e confusi, sino a toccar terra. Gli altri agenti risero, dopodiché pensarono che forse il tempo per un caffè potesse ancora esserci. Salvatore Verga era stato sorteggiato e doveva ora adempiere al suo burrascoso mestiere.
La scrivania, che da sola stava al centro della stanza, strozzava l'anima di Salvatore. Più l'uomo si avvicinava alla sedia più il respiro mancava, sarebbe stato meglio che qualcuno gli avesse reciso il mignolo del piede con una tronchesina. “Ciao” disse Salvatore che, però, di forza ne aveva davvero molta; si era rivolto ad un ragazzino appoggiato al muro con la testa abbassata, dall'altra parte della camera. I capelli scuri, un vestito malconcio e la posa in cui si trovava emanavano nero e cattiveria: “il diavolo è in lui” avrebbe detto la chiesa. Il giovane non rispose, anzi nemmeno si mosse. “Ciao” ripeté Salvatore che adesso se ne stava seduto con una carpetta in mano. “Come ti chiami?” disse ancora il poliziotto. Il ragazzino a quel punto fece scivolare il collo sulle sue stesse ossa, alzando lo sguardo. Camminando lentamente si sedette di fronte Salvatore: adrenalina ed elettricità si appiccicavano dappertutto. “Lo sai come mi chiamo, è inutile che me lo chiedi” concluse il ragazzino. Salvatore si rasserenò, nonostante il tono irritante era riuscito ad iniziare una conversazione, cosa il più delle volte decisamente ardua. “Dimmi Eugenio, come ti senti?”, l'aria si condensò immediatamente, quelle parole nascondevano un doppio senso. “Mi sento bene poliziotto, devo chiamarti poliziotto?” Salvatore sorrise ed arricciò il sopracciglio sinistro, “chiamami pure Salvatore”, colpì il tavolo con il gruppo di fogli che teneva in mano, il rumore si diffuse in quell'anfratto. Da dietro il vetro a specchio, una equipe di psicologi osservava quella discussione. Per prassi avrebbero avuto accesso al ragazzo, per modo di dire, solo dopo le asfissianti procedure burocratiche. Fremevano, trepidavano, alcuni erano perfino eccitati all'idea: volevano toccare con mano quell'esserino così strano, così nuovo, così pericoloso. Palermo stava con l'orecchio teso e pronto ad ascoltare, cosa avrebbe detto Eugenio? “Vuoi sapere perché ho ucciso la donna?” domandò il giovane. Salvatore ne fu turbato, mai si sarebbe aspettato una reazione di questo tipo. “Parla, forza!”, lasciò perdere i fogli e le penne. “Beh, ti dico che quella povera donna non l'ho uccisa io, l'ha uccisa la mia famiglia, l'ha uccisa Palermo. Io sono piccolo è vero, ho tredici anni, ma a otto sono dovuto diventare uomo, e, se non lo fossi diventato, oggi non sarei qui”. Eugenio parlava come un adulto, che lo fosse veramente? Che la sua vita lo avesse fatto maturare prima? Salvatore pensò che chi ammazza, chi si sporca le mani non è un uomo, ma è solo un animale, indipendentemente dall'età. “E sentiamo, perché l'avrebbe uccisa Palermo la tua insegnante?”.
Steven Campagna
Biblioteca
|
Acquista
|
Preferenze
|
Contatto
|
|