Al piano superiore neanche sembrava mattina. Forse a causa della scala stretta, che soffocava la luce proveniente dal pianterreno, o forse per le poche finestre aperte. A prescriverlo era una massima: mantieni il demonio nelle stanze in cui dimora, non ba-gnarlo con la luce, non farlo uscire. Ne avevano sentito parlare molte volte, in quasi tutte le case di campagna nelle quali si erano ritrovati ad agire. Mentre si dirigevano verso la camera, Anna e Isabel passavano in rassegna tutte le finestre chiuse e sbarrate, e le candele accese, e le por-te serrate. Si dormiva tutti assieme, lì, su quel piano, una famiglia per stanza. Era lugubre, come lugubre era ogni casa sperduta nel nulla che finisse sotto l'ombra del diavolo. Lugubre come un tempio dedicato alla paura stessa. Come se il cammino lungo il corridoio dovesse essere un pellegrinaggio verso esso. Non c'era molto altro da osservare. Nell'oscuro passaggio c'era qualche quadro appeso, e anche delle fotografie. Fotografie antiche, forse neanche degli abitanti del conta-do, forse trovate lì dopo la venuta dei coloni e lasciate al loro posto. In ogni caso, i Guitierrez e i loro compagni non potevano vederne i sog-getti. Un'altra tradizione aveva imposto di coprire ogni immagine. Era-no sicuri, poi, che il fatto che i posseduti erano stati messi nelle stanze alla fine del corridoio, lontano da tutto, non fosse un caso. Anna non pretendeva di sapere tutte le leggende, tutte le storie, tutti gli aneddoti. Anzi, al contrario: non voleva. Aveva sentito troppe voci, in città, venire da luoghi come quelli. Sacrifici. Morti danzanti. Incubi che diventavano realtà. Persino ma-ledizioni; ponti che crollavano ogni volta che venivano ricostruiti. Non sapeva se fosse vero o no. Sapeva, però, che aveva paura di tutto ciò che la circondava. Da molto tempo. Paura. Se quello era un santuario dedicato alla paura, lei era una sua devota perfetta. Aveva messo in testa il nero velo di seta leggera che portava sempre con sé nello zaino e camminava fissandosi i piedi, lanciando so-lo sparute occhiate fulminee a quello che la circondava, per tentare di decifrare i segnali più strani. Tutte le tracce del male. C'era qualcosa attorno a loro, pronto ad aggredirli. E c'era quel particolare, tanto domestico quanto inquietante, che la faceva sempre impazzire in situazioni simili: il rumore familiare delle pantofole e dei piedi scalzi sul pavimento coperto da tappeti. Se chiu-deva gli occhi poteva quasi immaginarsi a casa sua, in vestaglia, intenta a stringere Julia e Olivia sul divano mentre Isabel andava a prendersi un tè freddo in cucina. Quel dettaglio però non metteva paura; sconforto, semmai, e forse era peggio. D'un tratto lanciò un'occhiata dietro di sé, per la prima volta da quando erano saliti; vide Isabel camminare col capo chino. Chino più del suo, le mani congiunte, come se pregasse. Questo nonostante suo padre l'avesse presa sottobraccio. Avrebbe dovuto, per solidarietà, in-dugiare ancora con lo sguardo su di lei, ma a quel punto dovette con-trollare come stesse Abel. Lui alzò gli occhi su Anna, nonostante man-tenesse il capo chino come la figlia. Lo trovò preoccupato, come al soli-to. Accennò un sorriso per tranquillizzarla, e nient'altro. Lei tentò di risponderle, ma non ci riuscì.
***
Isabel. Amava Isabel sin da quando aveva capito di amare suo padre, in fondo. Non era stato facile per lei, ventitré anni all'epoca, approcciarsi a una ragazzina di otto. Una bambina spaventata e traumatizzata, orfa-na della mamma, che vedeva suo padre di nuovo innamorato a pochis-simi mesi dalla morte della moglie. Per Anna era sempre stata una persona da tenersi stretta. Sensibile, spiritosa, un po' ingenua. Forse a volte apatica e scostante, come tutte le adolescenti, ma niente di strano. Al di là di questo, le piaceva come indole. Entrambe amavano pas-sare il tempo leggendo, guardando film e commentandoli insieme. Per quanto possibile in un ambiente come quello, suo padre aveva cercato di farle avere tutto ciò che l'aiutasse a crescere appassionandosi all'arte. Neanche ciò era stato facile, visti i roghi di libri che le autorità continuavano a portare avanti nelle campagne come nelle città, ma Abel aveva sempre amato sua figlia, e le aveva sempre regalato ciò che poteva farla stare bene. Spendeva una fortuna per le sue figlie, per tutte e tre, e per Isabel arrivava anche, qualche volta, a chiamare una piccola compagnia di at-tori del ghetto che, lontano dagli occhi del Califfo e dei suoi uomini, recitassero assieme a lei nel cortile di casa. Commedie, per lo più: un'occasione perfetta per sedersi tutti insieme sui cuscini e i triclini a ridere a crepapelle delle rappresentazioni. Lei, Abel e le bambine, sdraiati stretti stretti, si divertivano mentre Isabel li intratteneva con le sue facce buffe e i suoi dialoghi assurdi. Ed era brava, davvero brava. Riusciva sempre a sorprenderli, di spettacolo in spettacolo, a farli ri-dere, a far passare loro serate spensierate. Non avrebbe mai finito di esserle grata per quell'atteggiamento e per essere riuscita ad affezionarsi alle sorelle e ad accettarle, ma non erano poche le volte in cui le era capitato di vederla distante, distaccata, forse in preda alla nostalgia di quello che c'era prima. Non erano mancate le sfuriate alle piccole, né la tensione fra lei e Abel per questo, e Anna fa-ticava a capire fino a che punto quegli atteggiamenti fossero dettati dalla differenza di età con le sorelline e quanto da gelosie latenti. Ma non le importava. Bastava una giornata sì, con Isabel pronta a far trova-re alle bambine un nuovo regalo fatto con le sue mani, per mettere tutto a posto e vederle dormire tutte e tre abbracciate nel letto di Isy. Erano una famiglia felice in fondo, lo sapeva. Felice come avrebbe potuto essere una famiglia nata nel modo in cui era nata la loro. E poi si trattava di Isabel. Solo qualche anno prima non l'avrebbe mai detto, ma per lei era ormai quasi la persona più importante al mon-do. L'unica a capirla, in fondo. L'unica a somigliarle davvero.
***
- Qui... - disse Tanni a bassa voce, voltandosi verso di loro. Era di fronte alla porta. Tremava, e in fondo era ovvio che lo facesse, no? - All'interno ci sono la madre della bambina e la guardia. - Il passo suc-cessivo era delicato, lo sapeva, ma là dentro voleva persone di fiducia. - Può pensare anche lui a proteggere sua moglie e sue figlia, signor Gui-tierrez... può stare tranquillo, è un militare... - - Mi dispiace, signor Tanni, ma io entro con le donne e le seguo per la durata dell'intera operazione. E non certo per crearvi problemi. Sia-mo qui per questo. - - Mi hanno detto che non è buona cosa essere troppi, nella stanza. - - Io e le signore. E basta. - Il contadino comprese e chiuse gli occhi, sospirando: fu tutto quello che ebbe da ribattere in merito. La porta si aprì, e ad aprirla fu il capocaccia, lento e prudente. La prima parte di un libro già scritto gli si presentò davanti proprio a quel punto, quando si ritrovarono di fronte una donna mora, con i lineamen-ti dell'est. Non disse niente. Non fece altro che alzarsi dal bordo letto sul quale era seduta e rimanere a guardarli. Ventisette, ventotto anni, forse, e l'aria di chi non dormiva da gior-ni. - Signora... - sussurrò Anna, muovendosi immediatamente verso la donna; aveva le mani aperte, pronte ad afferrare le sue. - Signora, mi dispiace tanto... -
Mani che stringono mani, veloci, impetuose.
- Starà bene? - - Starà bene - la rassicurò subito lei. Una sola volta ha esitato di fronte a una madre, in tanti anni. Solo una volta, sì. Anna ricordava bene quando aveva commesso quello sbaglio: il giorno stesso nel quale, prima di partire in missione, aveva fatto il test di gravidanza che le aveva sussurrato con dolcezza che sarebbe diventata mamma delle gemelline. Quel giorno sulla sua strada aveva trovato una piccola vittima. Due anni. Maschietto. E sua madre le aveva chiesto come sarebbe andata. Se sarebbe andata bene. Lei aveva avuto paura, e non aveva saputo rispondere. Aveva esita-to. Ricordava ancora quanto avesse pianto di fronte alle urla disperate della donna. E quanto si fosse sentita in colpa, distrutta, sconfitta. - Andrà tutto bene, signora, davvero - le sussurrò, annuendo per dar-si forza. - Perché noi faremo del nostro meglio per riportarvi la bambi-na. Questa è la nostra promessa. Ora però dovete andare. - - Andare... - - Andare. - - Non voglio... - - Andare, signora. -
Una carezza sulla guancia, sperando che serva davvero a qualcosa.
Quel volto: Anna era abituata a tutto, soprattutto a volti con espres-sioni come quella. Non c'era niente da dire; il punto non era dire qualcosa, ma farla. - Andare... - sussurrò la giovane. Ora annuiva. - Sì. E presto sarà finita... - aggiunse Anna. - Presto. - - Presto. - - Presto, credetemi. Davvero. Non ve lo direi se così non fosse. -
Mente e sa di mentire.
- Ve lo giuro, signora. Ho anche io delle bambine e sto soffrendo con voi. Vi prego di non farmi aggiungere altro. Vi prego. Davvero... - - Voi avete... - - Due gemelline, sì... - E sorrise. - Gemelline... - - Gemelle, sì. Quattro anni, le mie meraviglie. -
Deve mentire bene. Le carezza le dita con le sue, sorridendo sempre più, mentre pian piano comincia ad arretrare verso l'uscita.
- Andiamo... andiamo, cara... Presto sarà finita, ne sono sicura... - - Lo giurate? - - Sulle mie piccole, cara, sulle mie piccole. -
Non esitare. Avanti, avanti, Anna.
“So che stai tremando, so che cederai da un momento all'altro, ma non te lo puoi permettere. Non vorrai mica altri pesi sulla coscienza, o episodi idioti da raccontare in futuro, no?” - Starà bene. - - Starà bene. Non vi preoccupate, starà bene. -
Bene. Starà bene. Sono alla porta.
- Aspettateci di sotto. È quasi finita. Davvero. - - Va bene... -
Un abbraccio. Lo detesta. Non ce la fa. Prima finisce meglio è.
La guardia rimasta nella stanza assieme a madre e figlia uscì fuori, accompagnando la donna. Chiuse la porta dietro di sé.
Fabio Antinucci
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