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Autore: Sara Carucci Alessio Miraglia
La Magnolia Bianca
Fantasy Romantico
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La Magnolia Bianca
Nei corridoi dimenticati si udivano solo i suoi passi.
Uno, due, uno, due. L'eco elargiva loro maestà, ma erano sol-tanto i passi di un demone in un corridoio deserto e dimentica-to. Girò l'angolo, scelse una via diversa, tuttavia il paesaggio non mutò: fili di ragnatele scendevano dal soffitto a volta, nu-vole di polvere si sollevavano sulla sua via e una continua, rit-mica eco lo seguiva.
Uno, due, uno, due.
I dannati erano ormai lontani, le loro urla inudibili, e Algol poteva bearsi di quel silenzio appena interrotto dai suoi passi. Voltò un ultimo angolo prima di giungere a destinazione, da-vanti a una porta di legno socchiusa, priva dei segni del tempo che avevano afflitto il resto dell'ala del palazzo; sbirciò all'interno, vide cosa si aspettava di trovarci.
Nella camera priva di arredamento non c'era polvere. Graffi di luce, dipinti con vernice dorata, aleggiavano sulle pareti e sul soffitto, illuminando la stanza pur in assenza di una finestra – a cosa poi sarebbe servita? Un paio di macchie rosse giacevano indisturbate sul pavimento, accanto a un calice vuoto, e poco lontano un secondo calice colmo di vino rubino attendeva ai piedi di un uomo. Algol lo osservò, scrutò i suoi lunghi capelli canuti, la riccia chioma che scendeva disordinata lungo la schie-na, accarezzando il mantello color porpora appoggiato su una singola spalla. I vestiti del demone erano regali, cuciti con oro e sangue, ma i suoi piedi erano nudi. La figura teneva in mano un pennello fino, con cui dipingeva minuscoli punti luminosi sulla parete nera. Quando avvertì la presenza di un estraneo, si voltò lentamente, rughe di preoccupazione gli increspavano la giovane fronte.
Tuttavia, non appena i suoi occhi azzurri incontrarono quelli di Algol, il demone sorrise.
- Fratello. -

Da tempo Algol aveva smesso di trarre piacere dalla tortura dei dannati. Ogni giorno, recandosi da loro, una stretta al petto minacciava di soffocarlo; era un peso nuovo, dovuto per nulla a riflessioni etiche e morali – i dannati erano lì per loro scelta, do-po una serie di vizi a cui non avevano voluto porre fine prima della morte – bensì a un inaspettato moto del suo cervello. Una mattina, semplicemente, tra stridii di catene e grida di dolore si era chiesto quale fosse il suo scopo. Da secoli si occupava di torture, da secoli udiva urla di agonia dal risveglio alla sera, e quel suono familiare non lo aveva mai preoccupato prima d'allora; tuttavia, quella mattina la consapevolezza di non avere una meta lo aveva schiacciato come il pavimento del Pandemo-nium che migliaia di dannati erano costretti a sollevare. Da allo-ra non aveva fatto altro che recarsi a lavoro senza provare gioia nel portarlo a termine, senza stimare i demoni superiori che lo avrebbero lodato, senza desiderare un altro demone dal corpo sinuoso e la voce lasciva. L'unica cosa che faceva, mentre tortu-rava i dannati, era pensare.
Pensava a se stesso, al proprio ruolo, al destino che doveva essere stato scritto anche per lui: gli Angeli Ribelli erano caduti per essersi insorti contro il loro sovrano, i dannati erano stati spediti all'Inferno dopo una lunga vita colma di licenziosità. Lui, per essere nato demone, aveva passato l'intera esistenza nel Pandemonium o fuori di esso, sotto un cielo cupo e nero, occu-pato a dare agli umani ciò che spettava loro. Non vedeva alcun futuro davanti a sé, soltanto un'invariabile ripetizione dei secoli passati.
Il ferro rovente lacerava le braccia di un dannato, e Algol pensava.
Un demone gridava ordini, la frusta sferzava l'aria accanto alle sue orecchie, e Algol pensava.
Le fiamme crescevano imponenti, e Algol pensava. Non riu-sciva a fare altro.
Qualche giorno dopo quella improvvisa presa di coscienza, Algol aveva udito alcuni fratelli ridere di un visitatore, un de-mone che non avrebbe dovuto essere lì, ma che i fiumi di alcol avevano spinto fino alle carceri dei dannati. Lo aveva seguito con lo sguardo, aveva osservato i suoi abiti suntuosi e sporchi, i suoi capelli bianchi e arruffati, il volto chino; si reggeva a mala-pena, appoggiandosi alle pareti, eppure i suoi innumerevoli anni non avevano corrotto il suo corpo, identico fin dal primo giorno negli Inferi. I suoi fratelli ridevano, nessuno aveva però osato cacciarlo via, nemmeno i demoni maggiori, e Algol sapeva per-ché.
Akab, primogenito di Satana, avrebbe potuto radere al suolo il Pandemonium, e suo padre glielo avrebbe concesso.
Non venne più alle carceri. Trovò la strada per le proprie stanze e tempo dopo Algol lo rivide in un'altra zona del palaz-zo. Nessuno lo ostacolava, ma nemmeno si inchinava a lui; le guardie lo lasciavano passare senza pronunciare una parola, o un saluto, e lui procedeva per la sua meta, tra alti soffitti neri come la notte e lungo corridoi ricordati soltanto dal silenzio.
Dopo averlo spiato per tanto tempo, una mattina Algol aveva deciso di seguirlo.
Non si era mai assentato sul lavoro, mai una volta da quando era venuto al mondo, e non aveva idea delle conseguenze che quel gesto avrebbe potuto avere; l'istinto però era forte e gli suggeriva di fare qualcosa di insolito, fuori dalle abitudini co-strittive della sua esistenza, e aveva avuto la meglio su di lui. Seguì Akab senza che neanche al fratello maggiore venisse det-to niente, come se nessuno si accorgesse della sua presenza, e lo perse di vista solo quando il corridoio percorso terminò con un grosso portone marmoreo. Giunto a quel punto, con la punizione reale che gravava sulle sue spalle, Algol non aveva più nulla da perdere: spinse il portone con tutta la forza che possedeva e si affacciò oltre la soglia, sul vasto deserto grigio scuro che cir-condava il Pandemonium. Una sterminata nube nera aleggiava sulla sua testa e su quella di Akab, seduto in cima a una duna, con una piuma in mano e una pergamena nell'altra, mentre un vento giunto da chissà dove sospingeva granelli di sabbia intor-no ai demoni.
- Fragili come semi sono i sogni nel destino, ma solo con il pianto fioriranno. E sul deserto del mio viso nemmeno una la-crima... -
Componeva con voce rauca, cantava quelle strofe, racconta-va a quel nulla interminabile di essere Akab, il Demone dell'Arte e della Poesia. Quando con un gesto si spostò una ciocca di capelli dal viso, Algol vide i suoi occhi, azzurri come quelli del padre, ma diversi nella loro essenza: lo sguardo di Sa-tana era freddo e implacabile, quello di Akab tormentato. E pieno di qualcosa che Algol non riusciva a identificare.
- Bevi con me. -
Sussultò. Il Principe dell'Inferno si era accorto di lui, guar-dava nella sua direzione e indicava con un cenno del capo una brocca dorata che Algol non aveva notato; accanto a essa giace-vano due calici di vetro vuoti.

Non poté fare altro che eseguire, sebbene le parole di Akab non sembrassero un vero ordine. Si affrettò a versare il liquido rosso nei calici, lo osservò agitarsi come onde di sangue e si av-vicinò al principe con timore riverenziale. Akab sollevò il suo vino e bevve un lungo sorso, e così fece anche Algol, temendo di deluderlo; in un primo momento la sua gola si infuocò, poi il vino scese più dolce, avvolgendo e scaldando il suo petto, a cui finalmente permetteva di rilassarsi.
- Qual è il tuo nome? -
- A... Algol, mio signore. -
Akab sorrise affabile. - Non c'è bisogno di formalizzarsi. Quanto a me, conosci già il mio nome. - Scese dalla duna, affer-rò la brocca e versò altro vino a entrambi.
Algol non ricordava di cosa avessero parlato o se effettiva-mente lo avessero fatto dopo quel breve dialogo, ma la sensa-zione che lo aveva accompagnato al ritorno nel Pandemonium non lo avrebbe più abbandonato. Né quella che lo accolse quan-do, il mattino dopo, presentandosi a lavoro nessuno gli chiese della sua assenza: urla, lamenti, gemiti di terrore e pianti di ras-segnazione, i dannati soffrivano e i demoni rimanevano in silen-zio, senza neppure notarlo. Alzò lo sguardo verso un demone maggiore, si aspettò che giungesse una punizione, ma nemmeno lui incontrò i suoi occhi. Furioso, Algol lasciò la frusta e il pove-ro dannato che aveva già cominciato a piagnucolare, e si lasciò il lavoro alle spalle per sempre. Ancora una volta, nessuno lo fer-mò.
Nessuno si era accorto della sua assenza, nessuno aveva no-tato un dannato che tirava un sospiro di sollievo per un giorno, nessuno era andato a cercare il suo responsabile; solo Akab si era accorto di lui. Corse a cercarlo, svoltò ogni angolo del Pan-demonium in cui credeva di trovarlo, tra corridoi senza fine e intricate ragnatele, e alla fine quasi gli finì contro, lui così picco-lo e magro e Akab così alto e maestoso. D'improvviso si sentì un verme, un illuso che credeva che una brocca di vino e due calici avrebbero donato un senso alla sua vita, ma durò solo un istante: Akab gli sorrise e, con una pacca sulla spalla, lo convin-se a seguirlo.

Erano passati anni da allora, una quantità tale che Algol ave-va perso il conto, o forse non aveva mai voluto tenerlo, perché il tempo condiviso con Akab era così prezioso che non intendeva paragonarlo a quello vano e privo di speranze che aveva prece-duto il loro incontro.
Speranza: era quello il sentimento che aveva letto negli occhi del principe, pur non comprendendone il significato. Glielo aveva mostrato Akab, tenendolo a suo fianco, rendendolo un fratello.
Ogni notte i due demoni si recavano nelle zone più remote dell'Inferno, quelle destinate ai demoni inferiori, a menomati e ribelli, quelle situate nel piano più basso, dove la nuda terra fungeva da pavimento, e facevano baldoria fino al mattino se-guente, o a quello dopo ancora, il tempo non aveva importanza. L'alcol scorreva senza posa laddove l'eleganza e la grazia erano bandite, e Algol non ritornava mai nel Pandemonium con le ve-sti pulite: di ogni odore della corruzione erano degne, eccetto che del sangue; Akab aborriva la tortura e l'omicidio, non vole-va che il divertimento generasse dalla sofferenza altrui, perché altrimenti non ne avrebbero più fatto a meno. Preferivano cinge-re i fianchi di una sensuale demone, baciarle i seni, guidarne le labbra sulla propria pelle; preferivano far colare il vino sul suo corpo vellutato, brindare con lei, cantare fino a quando la voce non sarebbe finita. Preferivano agitarsi in danze scomposte con fratelli ripudiati e abbandonati, udire le loro sonore risate e di-menticare le grida dei dannati, comporre versi e cantarli ai so-gnatori. Preferivano comportarsi da umani.
E questo, nel palazzo di Satana, era punibile con la morte.

Il fruscio della seta contro la pelle la destò. Socchiuse leg-germente gli occhi, abituandosi alla fioca luce del braciere che ardeva in fondo alla camera da letto, e si sollevò appena. Lui era sveglio.
Immobile, fissava il muro davanti a sé. La mandibola era stretta, gli zigomi tirati, e non serviva chiedere cosa fosse acca-duto: Lilith lo sapeva già.
- L'ho sognata. -
Si mise a sedere, mostrando che lo stava ascoltando.
Satana, il Sovrano Infernale, l'Arcinemico, colui che aveva guidato le sanguinarie truppe di Angeli Ribelli attraverso il Pa-radiso, si passò nervosamente una mano fra i corti capelli neri. Era furioso, stanco, privo di forze. Il sonno era un piacere per lui, non un bisogno, ma chiudere gli occhi per vedersi costante-mente comparire la stessa immagine lo rovinava fino a tramutar-lo in un momento da odiare; aveva passato sveglio ogni notte nell'ultima settimana e si era abbandonato al torpore avvolgente solo dopo essere giaciuto con lei, la sua regina, ed essersi calma-to nell'amplesso. Confidava che ciò sarebbe bastato, Lilith lo sapeva. Ma non era andata così.
- L'ho vista... correre. Di solito si tratta di un'immagine fissa, ma stavolta... lei correva. -
- Fuggiva? -
Satana scosse la testa. - Rideva. Era una corsa felice. Doveva avere all'incirca... diciotto o venti anni. Forse venticinque. Era molto giovane. -
- Ha vissuto a lungo, per essere stata molto giovane a venti-cinque anni, a quel tempo. -
- A lungo, ma non abbastanza. -
Prima che Satana scacciasse le lenzuola dal corpo, Lilith si era già alzata, nuda e perlacea, e si era avvicinata al lungo spec-chio accanto al braciere. Contemplare le proprie forme prima di vestirsi era un piacere che si concedeva ad ogni risveglio. Dopo avere unto la punta delle dita in una densa crema bianca, si sfio-rò le snelle gambe, lentigginose come le braccia – un segno in-delebile della sua ribellione – e risalì fino al seno, avvolgendolo con cura, spalmando l'unguento fino ai capezzoli, e ancora por-tò le mani al collo, lo accarezzò. Con la coda dell'occhio, nello specchio sorprese Satana guardarla.
Tuttavia i suoi occhi azzurri non tradivano desiderio. Erano pensosi, riflettevano sul sogno, sul ricordo, ed erano stati solo inizialmente catturati dai suoi gesti. Dal riflesso, Lilith scoprì anche il punto su cui erano fissi, e storse le labbra.
Lilith era stata umana, un tempo. Aveva fatto parte dell'originaria colonia di uomini che avevano abitato il mondo ed era anche stata la prima donna a ribellarsi. L'unica, per molto tempo. In quel breve lasso di vita umana aveva anche conosciu-to Satana, giunto in esilio dal Paradiso, quando ancora possede-va un altro nome; aveva interagito con lui quel che bastava a ca-pire che il suo posto non era lì, fra gli uomini, e se n'era andata prima dell'Angelo Caduto, bestemmiando Dio e facendosi ma-ledire, una punizione che non le pesava per niente.
Non aveva visto Satana nel momento della sua seconda con-danna. Era già scesa nelle viscere della terra e si era unita ai ri-belli celesti, e l'aveva incontrato di nuovo quando ormai in lui non c'era più nulla di Lucifero. Bisognoso di una consorte, l'aveva fatta sua regina, ma non era mai stata una scelta dettata dall'affetto; era, semmai, un tributo a ciò che Lilith era prima di diventare la madre dei demoni, un'umana. Ciò che lei disprez-zava più al mondo.
Non lo aveva mai detto chiaramente, di averla scelta per le sue origini, ma era difficile nascondere qualcosa a chi aveva im-parato a conoscerlo così bene. Eppure Lilith sapeva che la moti-vazione era anche un'altra: lei era stata un'umana e lo aveva rin-negato. Quelle piccole ali da pipistrello sulla schiena glielo ri-cordavano in continuazione, e di questo Lilith era fiera. Non amava però quando Satana le fissava, ricordando a se stesso la differenza tra lei e un'umana qualsiasi.
Si chinò, mostrando le curve dei fianchi e cercando di disto-gliere la sua attenzione dalle ali e dal sogno, e poco dopo la udì chiamarla: - Lilith. -
Si voltò, un sorriso malizioso dipinto sul volto. - Mio re? -
- Lo scrigno. -
Costringendosi a ingoiare l'amarezza, Lilith eseguì l'ordine. In una cavità del muro, ben nascosto alla vista di incauti visita-tori, si celava uno scrigno intagliato in un albero antico quanto l'umanità. Con la massima cura, conscia che farlo cadere avreb-be significato il termine della sua solo apparentemente immorta-le vita, la regina lo consegnò al suo re e tornò a specchiarsi, fin-gendo di ignorarlo. Lo vide invece aprire lo scrigno, titubante, e osservare qualcosa al suo interno; il suo sguardo si era fatto tri-ste, ora.
Indossando un lucido abito nero, Lilith completò la sua ve-stizione e si rivolse al consorte. - È tempo di governare, mio re. -

Sara Carucci Alessio Miraglia

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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