Matajur - Forbidden colours
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Volpina, estate 1903. Armando e Nazario si accucciarono nel canneto che costeggiava il fiume Montone, stando bene attenti a non far rumore, la cerbottana già pronta per essere usata. Grilli, cicale, raganelle e rospi creavano una sinfonia di suoni che ricorreva ogni anno nel periodo più caldo e che per Armando e Nazario rappresentava la fine dell'anno scolastico e l'inizio del divertimento. Da pochi giorni avevano terminato la quarta elementare in una scuola dove esisteva un'unica aula che ospitava gli alunni dai sei agli undici anni, dove anche il fratello di Nazario e le due sorelle più piccole di Armando studiavano. Era impegnativo per il maestro riuscire a seguire in contemporanea cinque classi, ma lì a Volpina, piccola frazione nella periferia di Forlì, gli alunni erano pochi e lui era l'unico insegnante. Poiché i loro padri lavoravano in fabbrica e le loro madri davano una mano ai contadini per arrotondare il salario, potevano ancora permettersi di giocare -a differenza degli altri compagni di classe che, finiti gli impegni scolastici, aiutavano i genitori nei campi. L'anno successivo, però, avrebbero conseguito la licenza elementare e allora i giochi sarebbero terminati anche per loro: era imperante portare soldi a casa; la loro infanzia era durata più di quella dei loro coetanei. Era tempo che diventassero adulti. Ma ancora per quell'estate, quella del loro decimo anno d'età, potevano divertirsi e si erano appostati nel canneto nel punto esatto in cui sapevano che avrebbero trovato i rospi. La loro personale guerra con quegli anfibi si ripeteva ogni estate e le cerbottane erano le armi con cui li cacciavano e di cui andavano fieri. Le avevano costruite loro stessi utilizzando le canne che crescevano rigogliose lungo gli argini del torrente e utilizzavano delle palline di carta riveste di fango che poi lasciavano ad essiccare per rendere solide. Certo, se i rospi avessero avuto la gentile propensione a lasciarsi colpire sarebbe stato più gratificante, ma a quanto pareva quegli animali gracidanti non ne volevano sapere di essere presi a pallettoni. Anzi, c'erano state volte in cui li avevano guardati con espressione serafica, quasi a volerli prendere in giro, per poi balzare via e sparire nel fiume. - Li vedi? - domandò Armando in un sussurro. - Non ancora. Tieni la bocca chiusa. - intimò Nazario scansando dal volto noiosi moscerini. Tutto intorno a loro erano campi coltivati e i contadini con i figli erano chini a lavorare per mietere il grano che poi veniva raccolto in covoni. Una cornacchia gracchiò all'improvviso, volando via da un albero e i due amici sbuffarono: ora avrebbero dovuto attendere ancora a lungo prima che un rospo si facesse vivo. E il caldo era opprimente. Nazario tirò giù le bretelle dalle spalle e sbottonò la camicia, togliendola. Lui e Armando erano scalzi, i piedi e le gambe neri di sporcizia, un paio di pantaloncini rattoppati che si tenevano su con il supporto delle bretelle, le camicie rammendate sui gomiti e una scoppola in testa. Era l'abbigliamento usuale che indossavano per tutta la settimana, per poi accantonarlo e sfoggiare l'abito migliore con le scarpe nuove per andare a messa la domenica mattina. Era d'obbligo: non ci si poteva presentare davanti al Signore con i vestiti laceri e sporchi. Armando indicò la camicia gettata per terra e ridendo disse: - Ma che fai? - - Ho caldo. - rispose Nazario. - Tu no? - - Sì, certo, ma non... - Alcune voci in lontananza li zittirono e si acquattarono di nuovo in mezzo al canneto, attendendo. Sull'argine opposto del fiume tre ragazze avanzavano ridendo e sghignazzando come se fossero state sole al mondo. E, in effetti, per quanto le riguardava potevano benissimo essere sole, dato che Armando e Nazario erano invisibili in mezzo alle alte canne. I due amici si scambiarono un'occhiata, sperando che le ragazze passassero oltre per lasciarli liberi di cacciare e stavano per tirare un sospiro di sollievo quando, con sgomento, le videro fermarsi di fronte a loro. - Oh, merda! - sussurrò Nazario stizzito. - Ora i rospi non si faranno più vivi! - - Ma... che fanno? - balbettò Armando tra il divertito e lo stupito. Nazario allungò il collo per osservare meglio e subito sgranò gli occhi: si stavano spogliando! Le tre adolescenti -che dagli abiti sfoggiati si poteva desumere fossero di famiglie agiate- si erano tolte il cappello, lasciando che il sole illuminasse le loro capigliature inanellate e continuando a ridere avevano iniziato a sciogliere i ganci e i lacci degli abiti, per rimanere in maniche di camicia e mutandoni stretti al ginocchio. - Oh, mio... - Nazario tappò la bocca all'amico, facendogli cenno di stare in silenzio e Armando annuì. Un attimo dopo sghignazzarono divertiti e rimasero accucciati per spiare le ragazze, ignare della loro presenza. Nel momento in cui entrarono nel fiume, le giovani strillarono poiché l'acqua era fredda, ma una volta abituate alla temperatura, iniziarono a emettere squittii, divertendosi a schizzarsi. In poco tempo la mussolina della biancheria intima aderì ai loro corpi, lasciando ben poco all'immaginazione e i due amici smisero gradualmente di sogghignare, per spalancare la bocca esterrefatti davanti a quella scena. Non avevano mai visto una donna in abiti succinti e quelle ragazze che si chinavano, volteggiavano, schizzavano acqua come candide ninfee, ebbero un effetto dirompente: entrambi avvamparono senza comprendere perché. Nazario fu il primo a riprendersi e lanciò un'occhiata furtiva all'amico per capire se anche lui fosse rimasto sorpreso e irritato dalla loro presenza. Inarcò le sopracciglia all'espressione sconvolta che vide sul volto dell'altro: Armando stava boccheggiando senza emettere alcun suono e fissava con occhi sbarrati le giovani che giocavano nel fiume, completamente assorbito dalla visuale di qualcosa che a lui sfuggiva. Fu solo quando le giovani uscirono dall'acqua per mettersi sotto il sole per asciugarsi, che i due amici decisero di andarsene alla chetichella, recuperando le cerbottane lasciate sul terreno insieme alla camicia di Nazario. Una volta abbastanza lontani da non disturbare le giovani, si guardarono con complicità e subito dopo scoppiarono a ridere.
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Nazario salutò Armando in prossimità dello sterrato che conduceva all'abitazione dell'amico e in silenzio proseguì verso la propria casa. Teneva ancora in una mano la camicia e con l‘altra soppesava la cerbottana con aria pensosa. A differenza di Armando, durante il tragitto non aveva miagolato sulle ragazze, sulle loro figure armoniose e su quei corpi sinuosi. Anzi, a dirla tutta, dopo il primo momento in cui era rimasto sorpreso, si era innervosito perché i rospi erano spariti a causa del trambusto, impedendogli di provare la nuova cerbottana. E pensare che ci aveva lavorato parecchio per rendere la canna liscia affinché la pallina non trovasse attrito nel momento in cui l'avrebbe lanciata soffiando. Con uno sbuffo mise la camicia sulla spalla e dopo un po' abbandonò la strada maestra per inoltrarsi sull'acciottolato che portava a casa. La sua, come quella di Armando e della stragrande maggioranza dei contadini, era una classica casa rurale a due livelli, con una stalla a pian terreno adibita per metà a ripostiglio e l'altra a ricovero per una mucca, una pecora, galline e conigli che rappresentavano il maggior sostentamento per l'intera famiglia. Al lato della stalla si innalzava una scala esterna che conduceva all'appartamento, composto da un vano che fungeva da cucina e dove viveva l'intera famiglia. Una porta immetteva nelle due camere da letto, una per i suoi genitori, l'altra per lui e i suoi fratelli con i quali divideva l'unico letto. E la sistemazione non era malaccio, se si confrontava con i servizi igienici che si trovavano all'esterno dell'abitazione, una semplice latrina coperta da quattro mura di legno, terribilmente disagevole soprattutto in inverno. Ma era la sua casa e per lui era meravigliosa. Salì le scale e girò la chiave che rimaneva sempre infilata nella serratura. Il profumo del brodo che si scaldava nella pentola sopra la cucina a carbone gli stuzzicò l'appetito, quel tanto da fargli dimenticare l'arrabbiatura ma insufficiente a mitigare il cipiglio con il quale lo accolse Mattia, il fratello di sette anni che si divideva tra i fornelli e il fratellino più piccolo di soli tre anni. - Non puoi andartene sempre via lasciando a me il compito di badare a lui! - Nazario si incupì a quella scudisciata che lo accolse sullo stipite della porta e seguì l'indice di Mattia che indicava il bambino seduto al tavolo in attesa del pranzo e che picchiava con irritante insistenza un cucchiaio sopra il legno. Già nervoso per fatti propri per non aver colpito neppure un rospo, raddrizzò le spalle ed entrando nella stanza sentenziò con l'aria dispotica del primogenito: - Io ho da fare. - - Anch'io. - ribatté Mattia per nulla intimorito, le mani sui fianchi, il mento alzato in un chiaro segno di sfida. Nazario inarcò un sopracciglio a quella forte presa di posizione e si trattenne dal tirargli un ceffone per l'insolenza. Come si permetteva quella pulce di considerarsi al suo livello? Era lui il figlio maggiore e i suoi fratelli gli dovevano obbedienza incondizionata. Piegò le labbra in un ghigno e rispose: - È inutile che ti scaldi: farai quello che dico io. - - Io devo studiare! - lo rimbeccò Mattia imperterrito, il mento proteso in avanti. - Io voglio diventare un dottore, non un fannullone come te! - La mano di Nazario si mosse fulminea e lasciò le cinque dita sulla guancia del fratello, facendogli rigirare la testa per la forza con cui aveva tirato il ceffone. Il bambino allibì e si toccò la parte del viso colpita, gli occhi prossimi alle lacrime, singhiozzando: - Ora che torna papà glielo dico! - Nazario alzò le spalle con insolenza, mentre Giuseppe, il fratello piccolo seduto al tavolo, scosso dalla lite, smetteva di picchiare il cucchiaio e scoppiava a piangere. Esasperato, Nazario gli si avvicinò e cercò di calmarlo accarezzandogli la testa, dicendogli che stava solo scherzando. Ma lo sguardo di fuoco che Mattia gli lanciò dall'altro lato del tavolo non prometteva nulla di buono e capì che quella sera suo padre lo avrebbe punito.
Dresda, agosto 1903 Thorsten distolse l'attenzione dal libro di storia e volse lo sguardo oltre la finestra aperta che gli riportava rumori familiari: scalpitio di zoccoli di cavalli, ruote di carrozza che stridevano sull'acciottolato, strilloni che vendevano giornali. Gli odori dell'estate lo inebriavano, insieme al calore del sole che dopo il rigido inverno lo avviluppava, lo stuzzicava e lo invogliava a uscire per divertirsi con gli amici, soprattutto con Gerdt. Ma non poteva. Posò un gomito sulla scrivania e dopo averlo piegato poggiò la guancia sulla mano, gli occhi spalancati verso il cielo. Essendo nato in una famiglia benestante, il suo compito principale era quello di studiare per farsi un'onorevole posizione che gli avrebbe garantito un futuro roseo. E il suo futuro era la Hauptkadettenanstalt, la prestigiosa accademia prussiana che sfornava i migliori ufficiali dell'esercito tedesco, lo spauracchio di ogni forza armata nemica. Non vedeva l'ora di spostarsi a Berlino, sede dell'accademia, per iniziare quel cammino che lo avrebbe condotto nella vita adulta, rendendolo indipendente e fiero prussiano, ma ci sarebbero voluti altri due anni prima di poter fare domanda e riuscire ad essere ammesso dopo aver superato un esame molto difficile. Sarebbe stata dura, lo sapeva e per quel motivo rimaneva ore chino sui libri, dimenticando i giochi e le distrazioni. Non gli dispiaceva studiare, soprattutto la storia della sua amata Germania, tanto da appassionarsi a Federico II il Grande di Prussia, il re filosofo e guerriero che aveva reso grande il suo paese. Inspirò a fondo, immaginandosi già con la divisa dei dragoni prussiani, con l'elmo chiodato in testa e la sciabola al fianco. Avrebbe avuto un cavallo che avrebbe chiamato... avrebbe chiamato... Be', ancora non lo sapeva, ma al momento giusto gli avrebbe trovato un nome adatto, degno di imprese cavalleresche che avrebbe raccontato ai propri nipoti. Così come avrebbe narrato di tutte le guerre alle quali avrebbe partecipato con smisurato orgoglio. Sbatté le ciglia bionde e raddrizzò la testa. Il sole caldo allungava i raggi dorati sulla scrivania e con un dito provò a toccare il pulviscolo che si intravedeva in controluce. Dalla stanza accanto sentì Isolde, la sua sorellina di nove anni, ridere con un'amica, segno evidente che loro si stavano divertendo, e con un sospiro si stiracchiò, si alzò dalla scrivania e si affacciò alla finestra. Il richiamo era forte e gli schiamazzi che giungevano alle sue orecchie lo invogliavano a uscire e a divertirsi come un qualsiasi altro bambino di dieci anni. Dalla finestra della sua camera poteva vedere l'Elba che scivolava placido a ridosso delle mura di fortificazione e appoggiò i gomiti sul davanzale, lasciando che il sole baciasse il suo viso pallido. Un lieve sorriso gli dispiegò le labbra, mentre socchiudeva gli occhi per evitare il forte riverbero del sole. Immaginò il suo amico Gerdt intrappolato come lui nello studio e provò a girare lo sguardo per intravedere la sua abitazione. Era impossibile scorgerla in mezzo ai palazzi di una città, ma a lui piaceva immaginare di poterla vedere e di salutare l'amico con un gesto della mano. Anche Gerdt sarebbe entrato all'accademia e Thorsten immaginava per loro una vita di agiatezza e soddisfazioni. Ad un tratto raddrizzò la schiena, si girò verso l'interno della camera e posò lo sguardo sulla libreria dove facevano bella mostra i soldatini di piombo che aveva chiesto in regalo a suo padre. Mosse alcuni passi per allontanarsi dalla finestra e una volta davanti alla libreria ne prese uno in mano. Lo rigirò tra le dita, studiandolo attentamente, ammirando l'accuratezza del pittore che aveva riprodotto con incredibile maestria anche i più piccoli dettagli, rendendo il soldatino quasi umano. Accarezzò la minuscola Croce di Ferro dipinta sulla casacca, sognando un giorno di poterne sfoggiare una anche lui. Sapeva che quella massima riconoscenza era stata introdotta dal padre di Federico II il Grande, che l'aveva voluta riprendendo la croce dei cavalieri teutonici medievali ed era di ferro, nera, bordata d'argento affinché risaltasse sulle uniformi nere. Ogni bambino tedesco sognava di poter essere insignito di quell'onorificenza. Lui e Gerdt non facevano eccezione. Sorrise e, fremente e scalpitante, si girò ancora una volta verso la finestra e il sole, sognando un futuro grandioso.
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Thorsten alzò la testa dai libri quando udì bussare alla porta e subito dopo vide Isolde e la sua amica entrare portandosi dietro un giornale. Erano entrambe agitate e non ne comprese il motivo. - Thor, - chiamò sua sorella con aria birichina, scambiando un'occhiata con l'amica diventata rossa come un peperone, - tu sei un uomo e puoi darci un consiglio su quale tipo di abito è più apprezzato da voi ragazzi. - La richiesta lo lasciò così di stucco che l'unica cosa che riuscì a fare fu di schiudere le labbra e osservare le due bambine che sembravano due gigli candidi nei loro abiti nivei che lasciavano scoperti gli stivaletti neri. I capelli raccolti a coda mettevano in risalto i loro colli aggraziati circondati dal merletto dell'abito, mentre le maniche gonfie lasciavano scoperte le braccia tornite. Si accorse che entrambe lo fissavano in attesa del suo responso, il giornale proteso verso di lui per indurlo a operare la scelta e trattenendo uno sbuffo dimenò la mano in aria. - Hellmuth saprebbe consigliarvi meglio di me. - rispose lasciando ricadere la responsabilità sul fratello maggiore. - Indubbiamente. - rispose Isolde agitandogli il giornale sotto il naso. - Ma si dà il caso che lui sia altrove e l'unico uomo di casa sia tu. Allora? - insistette caparbia. Thorsten posò lo sguardo sull'amica della sorella, ancora rossa e apparentemente imbarazzata e aggrottò le sopracciglia. Era uno scherzo tra donne? Perché suo fratello Hellmuth non era lì a salvarlo? Lui, che aveva tredici anni, avrebbe saputo tener testa a quello che gli sembrava un vero e proprio assalto ordito alle sue spalle da quelle due impertinenti ragazzine. Invece Hellmuth aveva preferito andarsene con i suoi amici in giro per la città, lasciando lui da solo a sorvegliare Isolde. Occhieggiò i soldatini di piombo sulla libreria e con uno scatto improvviso si alzò dalla sedia, improvvisando: - Ehm... Non lo so. Scusate ma ho un appuntamento. - - Oh, ma... Thor! - esclamò Isolde indispettita, guardandolo raggiungere lo stipite della porta con una fretta dannata. Lui non l'ascoltò e con le ali ai piedi corse a chiamare Gerdt. Parte prima Guerra!
Capitolo 1
Frontiera tra Belgio e Francia, 21 agosto 1914 Thorsten Harber, maresciallo di soli ventun anni, era stanco morto: da quando, tre giorni prima, aveva superato il suolo lussemburghese, il suo reggimento non aveva fatto altro che marciare senza mai un attimo di riposo, neppure di notte. La calura poi, era opprimente; cicale e grilli frinivano tutto il tempo, accompagnando la loro marcia forzata attraverso i campi lasciati in abbandono dai contadini fin dallo scoppio delle ostilità. Era accaduto tutto così in fretta che Thorsten ancora non riusciva a capacitarsene. Il 28 giugno, in un attentato a Sarajevo, era caduto Francesco Ferdinando d'Asburgo-Este, l'erede al trono d'Austria-Ungheria e per un lungo momento il mondo era rimasto con il fiato sospeso, pronto a udire la fatidica dichiarazione di guerra da parte dell'impero austro-ungarico. Invece, a sorpresa, l'ottuagenario Francesco Giuseppe I aveva tentennato, dando modo alle diplomazie di volare da una capitale all'altra per mantenere la labile tregua che vigeva in Europa dal lontano 1870. Non era un segreto che le potenze erano strette tra loro non solo da vincoli di parentela tra regnanti, ma anche da vincoli di alleanza militare che negli anni si erano così intensificati e allargati da rendere impossibile la visuale di un ipotetico scenario di guerra. Del resto, le alleanze servivano allo scopo di evitare un conflitto, un po' come mostrare i muscoli per intimorire l'avversario e condurlo a più miti consigli. Così, da una parte gonfiavano i muscoli i paesi della Triplice Intesa -ossia Inghilterra, Francia e Russia-, dall'altra i paesi della Triplice Alleanza, ovvero Austria, Germania e Italia. Per un mese esatto l'Europa aveva vissuto in un limbo, continuando a godersi l'estate come se nulla fosse accaduto in quel di Sarajevo, come se la Belle Époque dovesse durare per sempre con le sue luci, i suoi lustrini, le sue scoperte tecnologiche, la sua frivolezza e la promessa di una pace duratura. Poi, quando nessuno più pensava a una guerra, l'Austria aveva spedito un ultimatum alla Serbia, il “documento più duro che uno stato abbia indirizzato a un altro stato”, come si era espresso sir Edward Gray, ministro degli esteri inglese. A quel punto tutti avevano ricominciato a parlare di una guerra, poiché il paese balcanico non avrebbe mai accettato di sottoscrivere un simile documento. E mentre i regnanti si scambiavano promesse di pace per evitare il peggio, i governi si rimboccavano le maniche per saggiare le forze avversarie e capire come meglio colpire. La mobilitazione generale era stata inevitabile ma, quasi a voler scongiurare il conflitto, la Serbia aveva capitolato, sottoscrivendo l'ultimatum, accettando tutte le clausole tranne una, la più dura -quella che prevedeva la partecipazione dell'Austria all'inchiesta giudiziaria contro i colpevoli dell'assassinio-, rimettendola al Tribunale internazionale dell'Aja. Con quella miracolosa vittoria intascata dagli austriaci, il mondo aveva tirato un sospiro di sollievo e lo stesso kaiser tedesco, Guglielmo II, se ne era tornato in vacanza, certo che il vecchio imperatore sarebbe stato un folle a non ritenersi soddisfatto da ciò che aveva conquistato senza neppure sparare un colpo. Invece, il 28 luglio, senza neppure considerare l'atto di sottomissione della Serbia ma puntando orgogliosamente il dito sull'unica clausola rifiutata dal governo balcanico, l'Austria-Ungheria aveva spedito la dichiarazione di guerra alla Serbia, cogliendo ancora una volta di sorpresa l'intera Europa. Era stata la scintilla iniziale e per effetto domino tutti i paesi, costretti dai vincoli delle alleanze, erano scesi in guerra con un'esuberanza fanciullesca, convinti che a Natale sarebbero tornati tutti a casa. Thorsten prese la borraccia attaccata alla cintura e bevve un sorso d'acqua, giusto un poco per non morire disidratato. Gli dolevano i piedi, le gambe, la schiena e la testa, ma voleva far riposare il cavallo che ora teneva per le redini. Gli uomini, che erano partiti con il sorriso sulle labbra di chi sapeva di trovarsi nel giusto, avevano smesso di intonare inni, di ridere a ogni stupida battuta e avanzavano in silenzio come formiche incolonnate. Avevano invaso il Belgio neutrale per potersi ricongiungere con la Quinta Armata comandata dal principe della corona Guglielmo di Prussia e da lì penetrare in Francia per dare inizio alle ostilità. Thorsten, come tutti i soldati tedeschi, sapeva che la rapidità era fondamentale per poter attuare il piano Schlieffen ma nulla l'aveva preparato alla fatica, allo stress, alla mancanza di sonno, al caldo e alla paura. Neppure gli addestramenti più duri erano paragonabili alla realtà e quella scoperta lo stava disorientando. Avrebbe pagato oro per poter dormire un po', per farsi un bagno, per scrivere a casa; invece gli ordini erano tassativi: bisognava andare avanti a ogni costo per sorprendere il nemico. Il casco chiodato che tanto amava, stava iniziando a odiarlo. Diventava più pesante ogni ora che passava, più incandescente sotto i raggi del sole e non riusciva a smettere di sudare. Andava avanti per forza di inerzia e in un'occasione aveva quasi perso i sensi. Chissà dove si trovava Gerdt. E suo fratello Hellmuth? Chissà se anche loro erano sottoposti a quel martirio. Di certo si stavano dirigendo verso il ricongiungimento con l'armata, per poter ricompattare l'intero esercito tedesco. Dovevano fare presto: annientare la Francia per poi fare dietrofront e affrontare la Russia. Se il piano Schlieffen fosse fallito, la Germania si sarebbe ritrovata a combattere su due fronti e la sola idea faceva tremare le ginocchia. - Herr Feldwebel. - Il richiamo gli fece sbattere le palpebre e lentamente mise a fuoco il volto di un sergente che lo osservava. - Sì? - rispose senza smettere di camminare. - Herr Feldwebel, signor maresciallo, - riprese il soldato indicando un punto alle loro spalle, - gli uomini sono sfiniti e affamati. Chiedono quando ci fermeremo per la cena. - Thorsten girò lo sguardo verso il sole che rosseggiava all'orizzonte e che riluceva sugli elmi chiodati degli uomini davanti a lui, accecandolo. Che diamine, pensò indispettito. Nessuno ha mai notato questo inconveniente? Sembriamo un serpente che risplende di luce propria, un invito a fare da bersaglio per il nemico. Tornò a osservare il sergente che attendeva una risposta e con tono duro disse: - Ci fermeremo quando sarà il momento. E farebbero meglio a tenere la bocca chiusa. - L'uomo si irrigidì appena e in silenzio rallentò, mentre Thorsten continuava ad avanzare ignorando i dolori.
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Solo al raggiungimento della foresta delle Argonne, quando ormai il crepuscolo aveva lasciato spazio alle tenebre, si fermarono per poter mangiare e lì, una volta accampati, giunse la lieta notizia: al 124° reggimento Württemberg, per lo sforzo sostenuto, era infine concesso un giorno di riposo. I soldati esultarono e a Thorsten piacque quell'euforia che a malapena lui stesso contenne e restò a osservarli mentre, a ridosso di una quercia, seduto tra due grosse radici, provava a tenere in mano la forchetta per mangiare il rancio. Vedere quegli uomini, abbrutiti dalla mancanza di riposo, lasciarsi andare alla gioia fu per lui un tuffo nel passato, un dilagare nel dolce ricordo di un capodanno che aveva cambiato la sua vita, rendendolo l'uomo che era. Indugiò nel rivivere ancora una volta quelle emozioni travolgenti, ma era talmente stanco che le sue palpebre si chiusero, consegnandolo alle confortevoli braccia di Morfeo. Aveva appena iniziato a sognare, almeno così credeva, quando si sentì toccare su una spalla. All'inizio pensò che stesse continuando a sognare, ma quando la voce che lo chiamava si fece più insistente, riaprì gli occhi con molta fatica, pronto a mandare al diavolo l'inopportuno. - Herr Feldwebel, il comandante vi aspetta con la massima urgenza al recinto dei cavalli. - A quella comunicazione, Thorsten si strofinò gli occhi per essere certo di non stare dormendo e il soldato commentò in modo sbrigativo, fugando ogni possibile dubbio: - Sì, esatto. Il comandante vi aspetta. - e tornò sui propri passi. Thorsten si alzò con un gemito, ignorando un conato di vomito, sorreggendosi al tronco per impedirsi di crollare di nuovo a terra e tornare a ronfare. Cosa diavolo voleva il comandante? Possibile che fosse ancora sveglio dopo tre giorni di marcia forzata? Lo individuò presso un carro che trasportava munizioni, intento a discutere con un superiore, il mento alzato e l'aria battagliera che aveva imparato a conoscere in quell'ultimo mese. Il ventitreenne sottotenente Erwin Johannes Eugen Rommel era il comandante del 2° battaglione del 124° reggimento Württemberg di cui lui faceva parte ed era il suo diretto superiore. Nonostante fossero stati entrambi nella caserma a Weingarten, si erano solo incrociati senza mai scambiarsi una parola se non il saluto dovuto a un superiore e Thorsten non aveva idea di che tipo di comandante fosse. Di certo era sempre sorridente ed era sufficiente questo a infondere sicurezza nei subalterni. Ma lui riponeva poca fiducia in un uomo che aveva solo due anni più di lui e che, come tutti loro, non era mai stato in guerra. Comunque fosse, era il suo comandante e non poteva far altro che ubbidire. Si diresse al recinto dei cavalli così come ordinato e si accorse che altri quattro uomini si stavano accostando con facce cupe e stanche. Erano sottufficiali come lui e si osservarono in silenzio, i caschi chiodati che rispecchiavano l'argenteo chiarore della falce di luna. Un secondo dopo videro Rommel raggiungerli, un sorriso tirato sulle labbra, una mano che passava sui corti capelli biondi e, nonostante mostrasse i segni della stanchezza, rimise il casco chiodato in testa esordendo: - Signori, capisco che la fatica accumulata sia tanta, tuttavia il generale ha chiesto al nostro plotone di andare in perlustrazione per individuare il campo nemico. Finora al nostro contingente sono state riservate scaramucce di poco conto, ma più ci apprestiamo al suolo francese, più avremo la possibilità di cadere in imboscate. Pertanto, per evitare brutte sorprese, vi chiedo di montare a cavallo e di seguirmi. - Thorsten sbatté le palpebre, reprimendo uno sbadiglio mentre vedeva gli altri quattro uomini scambiarsi un'occhiata sfinita. Così, mentre il reggimento riposava sotto le prime stelle della sera, loro sei, montati sui cavalli, partirono per andare in ricognizione, ombre nere tra le tenebre, spingendosi in avanscoperta cercando di fare il meno rumore possibile. Thorsten restò in silenzio, tutti i sensi all'erta per captare la presenza del nemico, scambiando solo cenni d'intesa con i compagni. Quando capirono che dei francesi non c'era traccia -sarebbe stato impossibile non notarli con i pantaloni rossi della loro divisa- tornarono indietro e Thorsten si rilassò immaginandosi di nuovo a ridosso dell'albero per poter finalmente dormire. Va bene, si disse, erano andati in perlustrazione e avevano fatto un buco nell'acqua, perdendo preziosi momenti di riposo che le energie, ridotte al lumicino, invocavano. Ora si sarebbe finalmente rilassato e il maledetto mal di testa sarebbe sparito, così come la strana sensazione di trovarsi in una guerra anomala. Per carità, non aveva termini di paragone, tuttavia gli sembrava strana. Quando aveva letto le imprese di Federico II di Prussia, aveva sempre avuto la sensazione che il tipo di guerre condotte dal grande re fossero quasi epiche, un trionfo del suo genio militare. Fin da piccolo aveva sempre immaginato un conflitto simile: uno scontro in campo aperto, dove i due eserciti si incontravano e se le davano di santa ragione. Ora si rendeva conto che, invece, qualcosa non quadrava. Certo, stavano andando incontro al nemico per scontrarsi, ma stranamente non avvertiva l'eroicità che si era atteso. Forse, pensò ciondolando la testa, leggere di guerre e viverle è ben diverso. Quando scese da cavallo, si accorse che un ufficiale aveva accostato Rommel e gli stava dicendo qualcosa. Il suo comandante non era ancora smontato da cavallo e ascoltava immobile, mentre gli altri uomini si preparavano ad andare a dormire. Thorsten indugiò ancora accanto al destriero, incerto se seguire l'esempio degli altri ufficiali, quando Rommel li richiamò: - Signori, che modi sono? Vi ho forse dato licenza di ritirarvi? Per ordine del generale, dobbiamo intercettare il 1° battaglione e metterlo in contatto con il nostro. Quindi rimontate in sella e seguitemi. - Thorsten restò immobile per un lungo attimo, pensando di aver udito male, poiché era impensabile chiedere un ulteriore sforzo a chi di forze non ne aveva più, ma si sbrigò a ubbidire, seguito a ruota dagli altri. Gli bruciavano gli occhi, la testa gli scoppiava e ogni tanto aveva una strana nausea causata dallo sfinimento. Tutto intorno a loro era calma e solo il richiamo di alcuni uccelli notturni faceva loro compagnia mentre si dirigevano verso il 1° battaglione. Né Rommel, né Thorsten avrebbero immaginato che la richiesta di spostare il battaglione per farlo ricongiungere con il 2° sarebbe stata rifiutata categoricamente dal generale e quando tornarono indietro per riferire l'esito negativo, il loro generale, stizzito per la mancanza di collaborazione, ordinò di raggiungere il generale Moser e di fargli presente la situazione affinché fosse lui a impartire l'ordine. Sgomento, con le palpebre che faticavano a rimanere aperte, Thorsten vide Rommel ubbidire senza battere ciglio e, ridotti ad automi, ripartirono verso le retrovie per incrociare il comandante. Il generale Moser, dopo aver ascoltato gli inutili spostamenti fatti da quel pugno di soldati, inveì contro il pasticcio di ordini e rispedì Rommel dal suo superiore, con l'ordine tassativo di far riunire i due battaglioni. In quei primi giorni cruciali, la mancanza di comunicazione tra i reparti fu un'inutile perdita di tempo che rallentò le operazioni, situazione aberrante per il piano concepito da von Schlieffen, tanto che Thorsten rimase basito dinanzi a quell'incompetenza. Quando, infine, riuscì a tornare a ridosso della quercia, si addormentò con il fucile tra le braccia, il lucore dell'alba che avanzava tra gli alberi della foresta.
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Non ci credeva. Non era vero. La tromba suonava per l'alzata, sancendo la fine del riposo e l'inizio di un nuovo giorno di marcia. Non era possibile, si era appena messo a dormire! Si sarebbe lasciato andare a una risata isterica per sfogare la frustrazione, se non avesse visto l'esile figura di Rommel stagliarsi davanti ai suoi occhi. Oh, cristo, pensò sgomento, ancora? Doveva alzarsi? Sì, certo. E allora perché le sue gambe non ubbidivano? Il comandante svevo gli rivolse un mezzo sorriso, esordendo: - Maresciallo, gradirei che da oggi rimaneste al mio fianco. Ho apprezzato molto il vostro spirito di abnegazione e a me piacciono gli uomini determinati. - Determinati? si ripeté mentre si alzava a fatica, l'aria spaesata. Non era esattamente quello l'aggettivo che avrebbe usato, ma non poteva certo controbattere il suo superiore. Mise il fucile in spalla, indossò l'elmo chiodato e ignorando i dolori ai muscoli si irrigidì sull'attenti rispondendo: - Sissignore. - - Bene. Il vostro nome? - - Thorsten Harber, signore. - si presentò gonfiando il petto in un moto di orgoglio. - Bene, maresciallo Harber, mi segua. - Thorsten lo vide rigirarsi e dopo essersi passato una mano sugli occhi gli andò dietro. Non aveva idea del motivo che avesse spinto il suo comandante a volerlo al fianco e neppure ci teneva a saperlo: quello che sapeva con certezza era che avrebbe pagato oro per essere galvanizzato come tutto il resto del reggimento. Una notte di riposo aveva fatto miracoli: la truppa aveva ritrovato il sorriso e gli uomini sembravano più motivati. Mentre passava accanto al carro dei viveri, afferrò al volo un pezzo di pane per mettere qualcosa nello stomaco e al fianco di Rommel si mise alla testa del battaglione. L'avanzata in territorio nemico riprese baldanzosa, i fucili in mano, la giornata luminosa e calda riempita dal frinire delle cicale, gli ufficiali che seguivano la colonna sui loro cavalli. Thorsten avanzava a piedi così come il suo comandante e solo quando si voltò la prima volta verso il resto degli uomini, si rese conto che il loro battaglione aveva distaccato di diversi chilometri il resto del reggimento. - Herr Kommandant... - mormorò incerto, richiamando l'attenzione di Rommel. Questi gli lanciò un'occhiata interrogativa e Thorsten indicò un punto indefinito dietro di sé, facendo notare: - Siamo troppo distanti dal resto del reggimento. - - Sì, lo so, ma non vedo il motivo di rallentare se gli altri sono lenti. Il nemico non aspetta i comodi nostri e se vogliamo che il piano riesca, non possiamo permetterci rilassamenti. E dunque... - Alzò il braccio lasciando la frase in sospeso e rivolgendosi al plotone urlò: - Zum Sturm, auf Marsch, Marsch! - Con rinnovata vigoria, gli uomini allungarono il passo e Thorsten non poté che adeguarsi al forsennato ritmo imposto da Rommel, come se quell'essere gracile avesse riposato insieme ai suoi soldati anziché correre a destra e a manca senza fermarsi da quattro giorni. Non poteva ribellarsi al proprio comandante, tuttavia, essendo un graduato, si azzardò ad accostarlo per dire: - Signore, questi uomini sono sfiniti. Hanno marciato per giorni interi e se dovessimo incontrare il nemico le loro prestazioni potrebbero non essere all'altezza. - - Herr Feldwebel, - rispose Rommel chiamandolo con il suo grado di maresciallo, - se io riesco a stare ancora in piedi con lucidità, allora vuol dire che anche i miei uomini possono farlo. Ed io non mi reputo migliore né superiore a nessuno. Pertanto, finché ne avrò la forza, andremo avanti. - Thorsten ricambiò lo sguardo diretto e lentamente annuì, prendendo coscienza per la prima volta che Rommel era lì con loro, in prima linea e non dietro, insieme agli ufficiali dove sarebbe dovuto stare. Quel ragazzo dagli occhi azzurri un po' cadenti, dal sorriso stampato sulle labbra sottili, dall'espressione bonaria, stava mettendo a rischio la propria vita esattamente come tutto il plotone che comandava e si aspettava che i suoi attendenti lo sostenessero. Be', rifletté, non era da tutti condividere fatiche e rancio con il proprio comandante, scoprendo che era esattamente un uomo in carne e ossa come loro, e con un profondo respiro guardò verso il villaggio dove erano diretti. In quel frangente, mentre andava avanti a forza di inerzia, portò la mano sulla giacca della divisa, all'altezza della fotografia che custodiva gelosamente nella tasca interna e che non avrebbe potuto mostrare a nessuno. Solo la notte, al riparo da occhi indiscreti, riusciva di tanto in tanto a darle un'occhiata e in quei frangenti accarezzava il volto amato con il pollice, come se con quel gesto avesse potuto ricreare un labile contatto con quella pelle morbida. Sbatté le ciglia bionde e per una frazione di secondo chiuse gli occhi color ardesia chiara, cullandosi in un momento di nostalgia che riuscì a strappargli un pallido sorriso. Quando riaprì gli occhi, scoppiò l'inferno.
Capitolo 2
Bleid, 22 agosto 1914 Dal paese piovvero scariche di artiglieria e tutti si gettarono sui campi di patate in cerca di rifugio. Thorsten sgranò gli occhi e l'adrenalina lo svegliò dal torpore. Era il suo battesimo del fuoco. Per la prima volta si trovava sotto il tiro nemico e si scoprì impermeabile alla paura: avvertiva solo il cuore pompare furioso e la bocca farsi secca. D'istinto si girò verso il comandante, anche lui ventre a terra e dopo essersi scambiati una semplice occhiata rimasero in attesa che l'artiglieria nemica tornasse muta. Quindi, con cautela, si rialzarono e ripresero ad avanzare con tutti i sensi all'erta. Ad un certo punto Rommel fece cenno al battaglione di bloccarsi, quindi osservò Thorsten e l'artigliere al suo fianco, ordinando: - Voi due, seguitemi. - Thorsten scambiò un'occhiata con il soldato accanto a sé e in silenzio seguirono il comandante, inoltrandosi nel villaggio in avanscoperta. Con il cuore in gola, si adagiarono contro il muro di un palazzo, il fiato corto, gli occhi vigili, le orecchie tese nel percepire rumori di armi che venivano caricate. Sembrava che, all'improvviso, dopo le prime sventagliate di artiglieria leggera, il villaggio fosse ripiombato nella rassicurante quiete dell'estate. Thorsten portò la mano all'elmo per alzarlo quel tanto che gli consentisse di detergersi il sudore dalla fronte, quando vide Rommel sporgersi dal muro per osservare la strada. Fu sul punto di tirarlo indietro, immaginando già il cecchino pronto a sparare, ma Rommel si ritirò da solo e spiegò in un bisbiglio: - Dai quindici ai venti soldati, stanno bivaccando bevendo caffè. Sembrano tranquilli. - Thorsten intravide l'opportunità e girandosi verso l'artigliere ordinò: - Correte a chiamare il plotone. - - No. - lo bloccò Rommel categorico. - I nostri impiegherebbero troppo tempo per raggiungerci, tempo che non abbiamo. Ci avvicineremo con cautela, rimanendo al riparo dietro le case, quindi usciremo allo scoperto, sparando in posizione eretta, dando l'impressione di essere un plotone intero. Così facendo coglieremo i francesi di sorpresa e potremmo ucciderne un po' o prenderli prigionieri, evitando che sparino di nuovo contro i nostri soldati. - A quelle parole, Thorsten deglutì. Eccolo: era arrivato il momento. Per tutta la vita si era preparato, lo aveva sognato, lo aveva immaginato e vissuto più volte; solo che avrebbe preferito farlo con più commilitoni: essere tre contro venti lo riteneva un tantino sproporzionato. Certo, dalla loro avevano l'effetto sorpresa, ma una volta che questo si fosse esaurito, consentendo al nemico di riaversi e controbattere, come se la sarebbero cavata? Si accorse che l'artigliere aveva annuito, riponendo cieca fiducia nel comandante; allora serrò il fucile tra le mani, capendo che Rommel, prima di esporsi, stava chiedendo loro il consenso a un'azione folle, che li avrebbe messi in pericolo di vita. La situazione avrebbe intimorito anche il più impavido degli uomini, perché la differenza di forze in campo era terrificante. Boccheggiò come se avesse voluto alzare obiezioni, invece si ritrovò ad annuire. Si guardarono tutti e tre ancora un attimo, come alla ricerca di un ennesimo consenso, quindi, serrate le armi, uscirono spavaldi allo scoperto, urlando e sparando contro i nemici. Come previsto da Rommel, la sorpresa giocò a loro vantaggio, tanto che uccisero circa la metà dei soldati, prima che dai palazzi circostanti i francesi riuscissero a ricompattarsi per rispondere al fuoco. Solo a quel punto, quando l'assalto a sorpresa si era esaurito, Rommel diede ordine di ritirarsi e tutti e tre corsero verso il resto del plotone rimasto indietro, con le pallottole nemiche che fischiavano nelle orecchie, sfiorandoli senza colpirli. Thorsten udì le urla di giubilo dei loro compagni prima ancora di raggiungere il campo di patate e una volta al sicuro, azzardò un'occhiata indietro per osservare il villaggio, pensando che per la prima volta aveva ucciso. Istintivamente abbassò lo sguardo alle mani che tenevano ancora il fucile e si rese conto che non tremava. Non provava rimorso per le vite prese, solo sollievo per essere ancora vivo e, paradossalmente, euforico e pronto a scendere di nuovo in campo. Era strano, eppure i veterani di guerra avevano ragione: quando sei in battaglia non hai tempo per i sentimentalismi, non hai tempo per pensare a nulla se non a uccidere per non essere ucciso e la minima esitazione può risultare fatale. In quel primo scontro era riuscito a capire quello che intendessero e che aveva faticato a credere. - Sì, sì, erano venti e ne abbiamo uccisi la metà! - stava raccontando l'artigliere galvanizzato dal combattimento, i militari che lo ascoltavano a bocca aperta. Thorsten ripensò ai soldati francesi rintanati a Bleid, ai loro pantaloni rossi così visibili che erano un facile bersaglio per i proiettili tedeschi e si domandò se le loro divise fossero adeguate ai tempi. I francesi indossavano le stesse uniformi delle guerre ottocentesche che li avevano resi immortali, mentre i caschi chiodati dei tedeschi si impigliavano negli arbusti del sottobosco e rilucevano sotto il sole. Era davvero così importante apparire in un mondo che si era velocizzato, dove i dettagli e l'eleganza svanivano nel riflesso del loro ricordo? - Poche storie. - Il tono secco di Rommel lo riportò alla realtà e sbattendo le ciglia si accinse ad ascoltare. - Abbiamo un'occasione irripetibile, - continuò il comandante, - che anche i nostri stessi superiori ci invidieranno: ci avvicineremo al villaggio e lo prenderemo. - Mentre spiegava velocemente cosa avesse in mente, i soldati si animarono e senza attendere l'arrivo del battaglione né del reggimento, seguirono il comandante nelle viuzze del villaggio, rimanendo accostati alle mura degli edifici per ripararsi. Thorsten si accucciò accanto alla porta di una casa, il fucile imbracciato, pronto a ogni evenienza. Appena vide Rommel dare il segnale, lo ripeté per gli uomini dietro di lui e questi si misero a sparare contro i portoni e le finestre di un'abitazione, mentre lui, con Rommel e altri uomini, assaliva la casa dal lato opposto con granate e l'occupava. Thorsten si ritrovò nel bel mezzo della battaglia di Bleid, tra urla, fragori di artiglieria, fuoco e fumo, sempre accanto a Rommel, seguendolo senza porsi domande, pensando solo a compiere il proprio dovere nel migliore dei modi e nel giro di poco tempo Bleid cadde quasi del tutto in mano tedesca. Solo un gruppo di francesi ostinati continuava a resistere, sparando e urlando riparati dai muri delle abitazioni. Trincerati all'interno di un edificio, superato momentaneamente il pericolo, Thorsten si rese conto solo in quell'attimo che un'intera famiglia era rannicchiata contro un angolo e che tremava cercando di stringersi il più possibile per passare inosservata. Schiuse le labbra e portò una mano avanti per far capire che non gli avrebbero fatto del male, quando si accorse che anche Rommel li aveva visti. - Civili? - esclamò questi stupito, mentre il frastuono delle mitragliatrici riempiva l'aria. Thorsten lo vide rimanere un secondo in contemplazione di quei volti pallidi, di quegli occhi sgranati e delle lacrime che inondavano le guance dei bambini, prima di ordinare categorico: - Che nessuno tocchi queste persone o giuro che lo uccido con le mie mani. E ora, - esortò con vigore girando lo sguardo sui propri soldati, - inastate le baionette e seguitemi! - Thorsten capì al volo che avrebbero potuto combattere corpo a corpo e spinto dall'entusiasmo inastò la propria baionetta, correndo dietro al comandante, il morale alle stelle. Anche gli altri uomini del plotone li imitarono, lanciandosi tra i vicoli, giungendo fino all'estremità del paese prima di rendersi conto che i francesi si erano ritirati. Erano rimasti solo loro, padroni di Bleid. A quel punto Rommel diede ordine di attendere il resto del battaglione, poiché non vi era più motivo di avanzare di slancio e incaricò un soldato di portare del cibo alla famiglia rintanata in casa. Con il fiato grosso, il sudore che scendeva copioso all'interno della divisa, il sorriso luminoso sulle labbra, Thorsten mise il fucile sulla spalla e osservò il suo comandante con occhi nuovi. Rommel aveva appena dato un assaggio della sua cavalleria, dell'audacia, dell'inesauribile energia, della sua propensione a cogliere al volo le opportunità combattendo al fianco dei suoi soldati, pronto a eludere ordini superiori rasentando l'insubordinazione se era certo di poter vincere senza mettere in pericolo la vita dei suoi uomini. Sarebbero trascorsi anni e il sottotenente mingherlino sarebbe diventato il terrore dei soldati inglesi in Africa, conquistandosi non solo il soprannome di “Volpe del deserto” ma, soprattutto, la stima dei suoi nemici per la sua strabiliante tattica militare e per il modo umano in cui trattava soldati e prigionieri. Il giorno non era ancora finito, la truppa si stava riversando nel villaggio, quando Rommel, chiamato Thorsten e l'artigliere, tornò in perlustrazione, convinto che da qualche parte ci fossero i francesi. Li individuarono in una colonna che stava sfuggendo alle artiglierie tedesche e ancora una volta, dopo aver ragionato se fosse stato meglio chiamare a sostegno il battaglione, Rommel parlò con Thorsten e un secondo dopo stavano sparando contro la testa della colonna nemica. I francesi sbandarono e si ritirarono fuggendo, incalzati dal trio che continuava a sparare senza sosta, fino a quando incrociarono un reggimento tedesco e a quel punto si arresero. Solo in quel momento, quando il pericolo era finalmente cessato, Thorsten vide Rommel impallidire e cadere a terra svenuto per la stanchezza.
Sud ovest di Verdun, 7 settembre 1914 L'esplosione di gioia volò di soldato in soldato, accompagnata dal grido che tanti, da troppo tempo, volevano sentire: - È arrivata la posta! - Thorsten udì quelle parole in lontananza e subito il suo spirito si animò. Finalmente! Dopo giorni e giorni di combattimenti, finalmente giungevano notizie da casa. Non avrebbe mai potuto credere che una banale corrispondenza proveniente dalla famiglia potesse sembrargli la cosa più bella e più vicina a ciò che di umano sopravviveva in lui. Da quando il suo plotone aveva conquistato Bleid, c'erano stati altri scontri, molto più sanguinosi e aveva visto così tanti commilitoni cadere come mosche sotto il tiro dell'artiglieria nemica e barellieri che correvano senza tregua per cercare di salvare i feriti, che ora i morti non lo spaventavano più. Anzi, a dirla tutta, in un caso aveva accettato di porre termine alle sofferenze di un compagno d'armi che non sarebbe mai sopravvissuto alla terrificante ferita che una granata gli aveva inferto. Nessuno, durante gli anni di accademia, lo aveva preparato alla guerra moderna, alla guerra meccanizzata. Aveva studiato le tattiche napoleoniche, si era addestrato per combattere corpo a corpo con la baionetta, consapevole che le perdite sarebbero state comunque contenute. Gli scontri in campo aperto erano un romantico ricordo del passato, quando i due eserciti si affrontavano faccia a faccia, quando per ricaricare il fucile occorreva tempo, quando il cannone sparava per uccidere una manciata di uomini. Le nuove armi belliche, a partire dalla mitragliatrice per finire al cannone con proiettili devastanti, avevano dimostrato che il combattimento sul campo si era rivelato una inutile carneficina. In una sola battaglia cadevano migliaia di uomini, non più centinaia. Non vi era più onore nella guerra ma solo un infinito orrore. In quei giorni il suo comandante aveva più volte fatto presente ai superiori che occorreva scavare trincee per dare riparo agli uomini, per evitare che fossero crivellati dalle mitragliatrici nemiche. Ma, a quanto pareva, gli ufficiali preferivano mandare al macello la truppa pur di conseguire il risultato previsto dal piano Schlieffen, il quale, sulla carta, era geniale, ma sul campo aveva dimostrato come fosse inadeguato per una guerra meccanizzata. Ora, anziché avanzare velocemente e conquistare la Francia per poi voltarsi a fronteggiare il vero nemico, ossia la Russia, si ritrovavano impantanati, come se lo slancio iniziale si fosse esaurito contro la formidabile fortezza medievale di Verdun. A dispetto delle ottimistiche previsioni di agosto -che avevano calcolato un conflitto lampo tra Austria e Serbia- le cose si stavano mettendo male, molto male. C'era già chi, a distanza di un solo mese dall'inizio delle ostilità, l'aveva rinominata “La Grande Guerra”, a causa del gran numero di paesi belligeranti e dei settanta milioni di uomini mobilitati: una situazione mai vista prima. La Grande Armata di Napoleone, così appellata per il milione di soldati coscritti, al confronto impallidiva. Eppure, nonostante tutto, il morale degli uomini era ancora alle stelle, i treni viaggiavano veloci con soldati e ufficiali che ogni giorno raggiungevano il fronte, consapevoli che la macchina bellica tedesca avrebbe superato la momentanea difficoltà e che tutti sarebbero tornati a casa per Natale. Del resto la Germania, a differenza delle altre nazioni europee, era l'unico paese che aveva militarizzato l'intero popolo, l'unico paese in cui la popolazione si immedesimava nel suo portentoso esercito e che vantava un servizio di leva che era praticamente inesistente negli altri paesi. Anche Thorsten era convinto che avrebbe trascorso il Natale in famiglia e con calma si accostò al postino circondato dai soldati. Questi aveva un'enorme borsa a tracolla, dalla quale tirava fuori pacchi di corrispondenza e di volta in volta chiamava a gran voce il cognome del destinatario. - Ehi, ehi! Fai il mio nome, il mio nome! - urlò un soldato indicandosi, cercando di farsi individuare in mezzo alla moltitudine. - No, il mio! C'è nulla per me? C'è nulla? Controlla bene! - gridò un altro spintonando per crearsi un varco. - Un attimo, ci sono prima io! Non ho mai ricevuto niente! - - Neppure noi, idiota! - - Fate silenzio! - urlò il postino. - Se c'è posta ve la consegnerò! - Thorsten attese trepidante, ripensando a quando, anni prima, aveva assaggiato la gioia di avere tra le mani la lettera della persona amata, la consapevolezza di sopravvivere alla lontananza solo per ricevere la successiva missiva e poi toccare il cielo con un dito mentre leggeva le parole vergate sul foglio. Ma da tempo quella corrispondenza era terminata e la colpa era solo sua. - Maresciallo Harber! - Si fece avanti, prese le lettere e tornò sui propri passi, alla ricerca di un posto tranquillo dove poter leggere. Con gioia vide che non solo sua madre gli aveva scritto, ma anche suo padre e c'erano due lettere, una di Hellmuth e una di Isolde: tutta la sua famiglia gli faceva capire che gli era vicino. Quella di suo fratello maggiore giungeva dal fronte, dove stava combattendo e la lesse per prima, per accertarsi che stesse bene e non fosse ferito. Quindi passò alle altre e mentre scorreva quelle grafie così diverse, gli parve di essere tornato di nuovo a casa.
Verdun, 12 settembre 1914 Seduto a un tavolino traballante, all'interno della foresta delle Argonne, Thorsten scriveva di proprio pugno alle famiglie dei caduti, cercando le parole giuste per rendere meno duro il colpo che difficilmente sarebbe stato assorbito. Non osava immaginare il dolore di madri, sorelle, mogli e cercava di consolarle enfatizzando i gesti eroici dei loro cari. Sul limitare della foresta, la città di Verdun era stranamente calma, come se si stesse preparando alla bufera. Anche in campo tedesco l'offensiva si era momentaneamente arrestata, in attesa di ricevere rinforzi. Sarebbe trascorso poco più di un anno e Verdun sarebbe diventata una delle più sanguinose battaglie della Prima Guerra Mondiale, con quasi settecentomila morti, subito dopo la Somme che ne avrebbe tristemente contati più di un milione. Ma in quel giorno di settembre, sembrava che le ostilità si fossero prese un attimo di respiro e tutto appariva quieto. Thorsten era persino riuscito a dormire dopo due giorni di battaglie e ora si apprestava al compito arduo di scrivere quelle lettere che mai avrebbe voluto vergare. L'elmo chiodato -che solo di lì a due anni sarebbe stato abolito per un più maneggevole casco- era appoggiato sul tavolino e la luce del sole che filtrava attraverso le fronde degli alberi illuminava la capigliatura bionda del giovane, mettendo in risalto la sporcizia. Erano giorni che non riusciva a farsi un bagno e di certo non l'avrebbe potuto fare in quelli seguenti. Avrebbe dovuto attendere la sua prima licenza per tornare a sentirsi un uomo. Quando udì un rumore diverso dai soliti, alzò gli occhi ardesia dal foglio e vide in lontananza una fila di soldati che avanzava. Posò la penna e si girò verso il maggiore Salzmann che era al suo fianco, notando il suo compiacimento. - Sono i rinforzi, giusto? - domandò. - Esatto. Ci volevano. - confermò il maggiore. - Vado a informare il sottotenente Rommel. A proposito: si è svegliato? - s'informò alzandosi dalla seggiola. - Non ancora. Lasciamolo riposare, non dorme da tre giorni. Andate voi, maresciallo. - lo esortò il maggiore. Thorsten prese l'elmo chiodato e lo indossò sopra i capelli unti, quindi infilò i guanti bianchi, sistemò la giacca della divisa e si incamminò verso la colonna di uomini. Salzmann aveva ragione: i soldati di rinforzo erano indispensabili dopo le perdite subite e fu lieto di constatare che nella compagnia ci fossero ufficiali a cavallo, così che avrebbero rimpiazzato quelli caduti due giorni prima. A mano a mano che andava incontro alla colonna, stringeva gli occhi per evitare il riverbero del sole e solo a distanza di pochi metri dagli uomini a cavallo, scorse il volto di Gerdt sotto l'elmo chiodato. Inarcò le sopracciglia con evidente sorpresa, la bocca gli si piegò in un sorriso solare e dopo aver salutato l'ufficiale indicandogli il punto di ritrovo per presentarsi al capo di Stato Maggiore, si soffermò sull'amico. Mentre il resto della compagnia proseguiva per acquartierarsi, lui e Gerdt restarono nella radura a osservarsi. Per la prima volta dopo tanto tempo Thorsten rivedeva un volto amico che portava con sé i dolci ricordi di un'infanzia felice che, per un attimo, furono in grado di fargli dimenticare gli orrori vissuti in quell'ultimo mese. - Gerdt, che sorpresa! - esclamò con tono vibrante. - Vero? - rispose questi smontando da cavallo e sfilandosi i guanti bianchi. - Quando l'ho saputo avrei voluto scriverti, ma poi ho pensato che sarei giunto prima della posta. - - Hai ragione, vecchio mio. - rispose Thorsten abbracciandolo. - Cristo... - sospirò. - È bello rivederti. - Gerdt ricambiò la stretta, quindi lo tenne per le spalle e lo studiò attentamente. - Sei... sei diverso. Sembri provato. Stanco, direi. - - In effetti. Da dove arrivi? - domandò indicandogli il quartiermastro. Gerd prese le redini del destriero e mentre si incamminava rispose: - Oh, è presto detto: io e il mio gruppo siamo scesi dal treno proveniente da Berlino. - Thorsten aggrottò le sopracciglia, non sapendo cosa replicare. - Cioè, - azzardò con cautela, - per te la guerra inizia solo ora? - e subito si pentì di aver pronunciato quelle parole. Potevano sembrare un'accusa all'amico che si era guadagnato più di un mese di vita pacifica, mentre lui non aveva smesso di combattere. Non era colpa di Gerdt e lo sapeva, bensì della logistica. Non era facile spostare milioni di uomini e per forza di cose erano costretti a partire a scaglioni. - Esattamente. - rispose l'amico. - E non vedo l'ora di menar le mani! - aggiunse con tono gioviale. Thorsten sghignazzò a quel genuino entusiasmo e indicando verso la roccaforte di Verdun rispose: - Oh, be', allora sei capitato nel posto giusto: preparati che qui c'è molto da fare. -
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- E così state tenendo sotto assedio Verdun. - commentò Gerdt dopo aver adocchiato i cannoni posizionati davanti alla città per poi posare lo sguardo sulle sue mura. Stava in piedi accanto a Thorsten mentre questi aveva ripreso il suo posto al tavolino e intorno a loro ferveva l'attività bellica. - Sembra essere tornati al medioevo! - sghignazzò Gerdt. L'amico lo guardò in tralice e continuando a scrivere borbottò: - Questa guerra non ha nulla di quelle del passato. Non leggerai niente del genere nei manuali. Comunque sì, - aggiunse con tono comprensivo, - siamo gli assedianti, ma anziché essere colpiti dalle frecce, i francesi ci vomitano addosso milioni di shrapnel e noi non possediamo le armature dei cavalieri per ripararci. Credimi, non si può più combattere in campo aperto. - Gerdt distolse lo sguardo da Verdun per posarlo su Thorsten che continuava imperterrito a scrivere. Le sue parole lo sorpresero non poco e stava per ribattere, quando prese coscienza di quello che l'altro stava facendo seduto a quel tavolino. - Sono quello che penso io? - s'informò indicando i fogli sul tavolo. - Già. - rispose Thorsten con un tetro sospiro. Gerdt allora si inginocchiò per essere alla sua altezza e lo studiò a lungo. Era sempre il suo amico eppure non lo era. Sembrava invecchiato: ai lati degli occhi erano comparse piccole rughe che prima non aveva e la bocca si era inclinata in una piega amara che tanto stonava con l'amico che ricordava. Avevano entrambi ventun anni e, tuttavia, Thorsten sembrava più maturo. Come se qualcosa, all'improvviso, lo avesse catapultato in una dimensione che lui ancora non conosceva. - Ehi, ti ricordi i capodanni in Italia? Ricordi quanto ci siamo divertiti? - Thorsten si irrigidì e di colpo lasciò la penna per concentrarsi sull'amico accovacciato al suo fianco. Gerdt aveva ancora uno sguardo limpido, i suoi occhi azzurri non avevano perso la gioia di vivere che da sempre li animava e la bocca grande era ancora piegata in un sorriso luminoso. Per un istante lasciò che la sua mente dilagasse nella reminiscenza delle violente emozioni che gli avevano fatto prendere coscienza di chi fosse realmente, dimenticando gli orrori della guerra per concedersi ancora una volta un dolce sorriso. - Come potrei dimenticarli? - mormorò con tono strozzato. Gerdt aprì la bocca per replicare qualcosa, ma all'improvviso i colpi di una mitragliatrice squarciarono la fatua tregua. Si alzò di scatto, tutti i sensi all'erta, e con occhi sgranati fissò la città. Thorsten sbatté le palpebre, tornando bruscamente alla realtà e riprendendo la penna in mano lo rassicurò con voce piatta: - È normale, non preoccuparti. - - Ma stanno sparando! Dovremmo intervenire! - gridò l'altro in preda a un misto tra preoccupazione ed eccitazione. - Sono solo raffiche per ricordare che loro sono ancora vigili e noi non stiamo facendo una colazione sull'erba. - L'altro si girò a guardarlo, prendendo nota della sua calma glaciale, dello strano velo di freddo distacco che era sceso sul suo volto e domandò incerto: - Che significa? - Thorsten scrollò le spalle e riprendendo a scrivere rispose: - Che è il nuovo modo di fare la guerra. Non darti pena: ci cadrai dentro prima di quanto immagini. -
Capitolo 3
Varennes, 22 settembre 1914 - È un rischio che non intendo far correre ai miei uomini. - sentenziò Rommel determinato, lo sguardo fermo di chi è consapevole di essere nel giusto. Il maggiore Salzmann, che era il comandante del battaglione e, pertanto, il superiore di Rommel, aggrottò le sopracciglia e gonfiando il petto replicò: - Intendete disattendere all'ordine di attaccare Varennes? - - No, solo rivedere il piano per limitare le perdite. Così come è stato concepito dal comandante del reggimento, è un rischio inutile. Loro stanno laggiù, - aggiunse indicando un punto indefinito lontano dalla prima linea, dove era alloggiato lo Stato Maggiore, - mentre noi stiamo qui e abbiamo una visuale diversa del campo di battaglia. - Salzmann lo studiò a lungo, ricordando la lavata di testa che il suo esuberante subalterno aveva ricevuto dopo le battaglie nel bosco di Defuy quando, di sua iniziativa, in piena notte Rommel aveva preso il comando di un battaglione di mitraglieri per attaccare il nemico, scalzando il comandante in carica che si era rifiutato di seguire il suo suggerimento di attaccare dove lui aveva intravisto un punto debole. Certo, lui e i suoi uomini erano riusciti a sorprendere le riserve francesi che non si aspettavano l'attacco, ma per un miracolo Rommel non aveva aperto il fuoco sui propri soldati. Per quella sua negligenza il comandante lo aveva duramente redarguito e il battaglione era stato svincolato da Verdun per essere spedito a Varennes. - Ricordate cos'è accaduto nel bosco? - Rommel alzò il mento e per nulla intimorito rispose: - Potete star pur certo che non dimenticherò mai più la lezione. Ed io godo di un'ottima memoria. E proprio per questo motivo, per non far correre rischi inutili ai miei uomini, ritengo che questo piano, così com'è stato concepito, ci getterà contro le mitragliatrici nemiche come carne da macello. Siete così ansioso di immolarvi? - A quelle parole Thorsten trattenne il fiato e girò lo sguardo da Rommel a Salzmann, per poi posarlo su un incredulo Gerdt. Erano da poco rientrati dal posto di comando del 124° reggimento, situato ben al di là della linea del fronte, dove avevano ricevuto l'ordine di attaccare e Rommel aveva subito alzato obiezioni. - Cosa suggerite? - domandò Salzmann circospetto. Il sottotenente si accostò al tavolino dove era aperta una mappa della zona e puntando l'indice su Varennes spiegò: - La Quinta Armata francese è disposta di fronte alla nostra. Per noi sarebbe sufficiente ripiegare, raggiungere questo luogo riparato, - e spostò di poco il dito per mostrare la posizione sulla carta, - e da qui sferrare l'attacco. - - Da una posizione angolare e non frontale? - - Esattamente. - Salzmann strinse gli occhi, riflettendo che fino a quel momento i loro attacchi erano sempre stati frontali, esattamente come da manuale; tuttavia non impiegò molto a capire come la proposta di Rommel fosse la soluzione più logica. Questo, in ogni caso, sottintendeva disattendere alle modalità dell'ordine che aveva ricevuto dal suo diretto superiore e l'insubordinazione, nell'esercito imperiale tedesco, poteva portare al plotone di esecuzione. Alzò gli occhi su Thorsten, l'uomo che da tempo era al fianco di Rommel, quasi alla ricerca di un sostegno morale, e questi annuì. Con un sospiro portò le mani nelle tasche della giacca della divisa, pregò il Signore che l'insubordinazione conducesse a una vittoria e capitolò: - Prendete il comando e date ordine alla compagnia di ripiegare. Attaccheremo all'ora di cena, quando i francesi meno se lo aspettano. -
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- Fammi capire. - gemette Gerdt afferrando Thorsten per un braccio, approfittando di un attimo in cui si ritrovarono soli. - Stiamo disattendendo a un ordine? - Si erano allontanati per dare disposizioni agli uomini, in modo tale da prepararsi a lasciare il campo per ripiegare sul lato destro e da lì sferrare un attacco. - Be', non la metterei così. Lo stiamo solo migliorando. - rispose Thorsten con un sorrisetto sulle labbra. - Migliorando? - ribatté Gerdt sconvolto, serrando la presa sul suo braccio per poi lasciarlo andare e indicare un punto indefinito. - Stiamo facendo l'esatto opposto di quello che il comandante ci ha... - - Noi, - lo bloccò risoluto, lo sguardo dardeggiante, - ubbidiamo a un solo comandante che si chiama Rommel. Credimi, - aggiunse con maggior comprensione, - all'inizio anch'io, come il maggiore Salzmann, nutrivo dello scetticismo verso di lui, verso quel suo modo diverso di intendere uno scontro armato. Tu ancora non lo conosci, non l'hai visto in azione, ma hai appena avuto un assaggio del suo temperamento: è il primo a litigare con i superiori se ritiene che la vita dei suoi uomini sia in pericolo e, fidati, è il primo a scendere in campo a condividere la nostra stessa sorte. È già capitato e capiterà ancora. In questi giorni avrai notato che mangia lo stesso rancio destinato alla truppa, ignorando il suo stato di sottufficiale che gli consentirebbe un pasto abbondante e decisamente migliore della brodaglia che viene distribuita ai soldati, malgrado soffra di mal di stomaco e necessiti di cibo adeguato. E per questo, e perché non è uno Junker, bensì un semplice uomo come noi, ci comprende e capisce le nostre esigenze. Noi del 2° battaglione lo adoriamo. In quest'ultimo periodo abbiamo imparato che sotto il suo comando abbiamo più possibilità di restare vivi e di vincere contro il nemico e sai perché? Perché è in grado di scorgere il punto debole nell'avversario e colpire senza perdere tempo. La sua strategia non sarà da manuale, ne convengo, ma è scaturita dalla tattica di osservare le manovre direttamente dalla prima linea anziché stando seduto a un tavolo come gli altri ufficiali. Ora, se hai obiezioni da fare, rivolgile direttamente a lui. - - Oh, ma... Thor... - balbettò Gerdt, stupefatto da quell'arringa e da quell'espressione dura. - Prepara i tuoi uomini, Gerdt. Ne parleremo poi. Ora abbiamo una guerra da affrontare e ci tengo a rimanere in vita. - Si allontanò senza rigirarsi, dispiaciuto per l'amico perché non l'aveva mai trattato così, ma altrettanto certo che, appena avesse ricevuto il suo battesimo del fuoco, avrebbe capito. In quella strana guerra non c'era il tempo per riflettere e dilungarsi in disquisizioni superflue e chi lo faceva veniva stritolato. Come previsto da Rommel, i francesi furono colti di sorpresa mentre stavano preparando la cena: l'intera brigata, dopo aver tentato di resistere, fuggì lasciando ancora i fuochi da campo accesi e un gradevole odore di carne arrosto che avrebbe dovuto sfamare i soldati. La 7° compagnia tedesca requisì tutto il materiale e a quel punto lo Stato Maggiore del battaglione la seguì, fino a ritrovarsi sulla linea del fronte. Nel momento in cui i reparti della Quinta Armata francese contrattaccarono, Thorsten si girò per accertarsi che Gerdt fosse pronto, poiché era giunto il suo momento, ma le tenebre e il fumo glielo impedirono. Fu il suo ultimo pensiero razionale prima di gettarsi nella mischia. Il fragore assordante delle mitragliatrici, delle granate, delle urla dei feriti squarciò la notte settembrina, mentre i comandanti gridavano ordini e incitavano gli uomini a non perdersi d'animo. Quando ebbe terminato i proiettili, Thorsten si chinò per sottrarre il fucile a un cadavere e riprese a combattere, preparandosi a inastare la baionetta per un incontro ravvicinato. Alla luce delle esplosioni di granate, cannoni e shrapnel, intravide Gerdt cavarsela bene e sollevato tornò a concentrarsi sul nemico, fino a quando vide Rommel, che stava combattendo alla baionetta, cadere colpito da un proiettile alla coscia sinistra. Corse da lui chiamando a gran voce i barellieri, mentre schegge di shrapnel lo raggiungevano a una spalla, facendogli digrignare i denti. - Avanti, avanti! - urlò Rommel da terra, incitando gli uomini a non mollare. Ignorando il dolore al braccio e il sangue che colava, Thorsten lo raggiunse cadendo in ginocchio accanto a lui, nelle orecchie le urla del maggiore Salzmann che continuava l'assalto. - Barellieri! Barellieri qui! - gridò agitando il braccio sano per richiamare l'attenzione. - Maresciallo, - esclamò Rommel fissandolo, - andate a combattere! - - Sì, appena sarete al sicuro. - Intorno a loro gli uomini cadevano come mosche, alcuni che chiamavano la madre in modo straziante, altri che non avevano fiato neppure per implorare soccorso e, sopra ogni cosa, il tuono continuo e incessante dell'artiglieria pesante che faceva rabbrividire anche il più impavido degli uomini. Thorsten tenne le mani premute sulla ferita di Rommel per cercare di tamponare l'emorragia, facendogli scudo con il proprio corpo e quando arrivarono i barellieri, questi caricarono il comandante e ordinarono a Thorsten di seguirli per farsi medicare. La ferita alla spalla gli valse due giorni interi di riposo che spese per la maggior parte a dormire per recuperare le forze. Gli eserciti continuarono a combattere, ma da quel momento in poi avrebbero rallentato le ostilità, stazionando nelle trincee, logorando gli uomini, al punto da consegnare la Grande Guerra alla Storia come “L'inutile strage”, la più grande carneficina di tutti i tempi, fino all'avvento della Seconda Guerra Mondiale.
Cividale del Friuli, 22 maggio 1915 Quel giorno la brigata Salerno raggiunse il Friuli dopo aver lasciato Genova, per porsi alle dipendenze dell'8° divisione e da lì prepararsi all'entrata in guerra. Tutto era stato predisposto e l'esercito si era radunato ai confini, pronto a dilagare appena dichiarata guerra all'Austria-Ungheria. Il maresciallo Nazario Orlando tolse il chepì e passò una mano tra i corti capelli castani, osservando il ponte sul Natisone dove transitavano uomini, carri e animali. La piccola cittadina era pingue di soldati con i loro zaini in spalla, i sigari in bocca e lo spirito alle stelle. E come poteva essere altrimenti? Non più tardi del primo maggio, proprio a Genova, Nazario aveva assistito a un comizio del Vate, portavoce degli italiani che esortavano all'intervento, ed era stato meraviglioso constatare l'esultanza di quanti fossero pronti a scendere in campo. L'Italia, che allo scoppio delle ostilità si era dichiarata neutrale, era stata sferzata dalle arringhe di D'Annunzio, che aveva proseguito la sua propaganda a Roma, inneggiando alle “Radiose giornate di maggio”, costringendo il governo a far pendere l'ago della bilancia verso una presa di posizione. Del resto, Inghilterra e Francia premevano da mesi, corteggiando il governo Salandra per attrarre l'Italia verso la Triplice Intesa e farle abbandonare la Triplice Alleanza sottoscritta da decenni con Germania e Austria-Ungheria. E il motivo era chiaro: costringere i tedeschi a spostare le divisioni schierate in occidente per spedirle sul fronte italiano e alleggerire la pressione sugli anglo-francesi. In cambio, gli italiani avrebbero ottenuto la restituzione di Trento, Trieste e Gorizia, al momento in mano austriaca. Nazario appoggiò le braccia sul ponte di pietra e osservò le gorgoglianti acque del fiume. Be', tutto sommato era andata bene: l'indomani avrebbero dichiarato guerra all'Austria e non alla Germania. Non era un segreto che le armate tedesche, create e inquadrate nel ferreo stampo prussiano, fossero lo spauracchio di ogni esercito. Ma lui era contento per un altro motivo: non sarebbe stato costretto a pensare prima di sparare. - Ma non mi dire! Orlando! - Nazario si girò di scatto e in groppa a un magnifico sauro bianco incontrò il volto pacioso di Fabrizio Maltoni, suo commilitone alla Scuola Militare di Fanteria e Cavalleria a Modena. - Maltoni! Anche tu qui! - esclamò ridendo, lieto di rivedere un volto familiare. Fabrizio smontò da cavallo e si abbracciarono, felici di incontrarsi di nuovo dopo tanti anni. - Eh, caspita, ora porti i baffi. - notò Nazario. - Fa più uomo, non trovi? - rispose l'altro pavoneggiandosi. - Vero. Dovrò decidermi anch'io a lasciarli crescere. - - E tu? Dio santo Orlando, hai sempre due occhi meravigliosi; non ti vergogni neppure un po'? - rise. - Come stai? - - Bene, grazie. È bello rivederti, non speravo di incontrare qualcuno di mia conoscenza: c'è l'intero esercito radunato qui. - e indicò tutto intorno. Era un'iperbole che però si avvicinava di molto alla realtà e Fabrizio arricciò il naso divertito. - Un esercito pronto a cacciare via i maledetti austriaci. Era ora che entrassimo in guerra per non rimanere testimoni passivi di questo grande evento! - Nazario lo guardò, ingoiandosi le mille domande che all'improvviso erano transitate nella sua mente e per rimanere sul vago chiese: - I tuoi genitori stanno bene? - - Sì, mio padre ha esultato quando gli ho scritto che saremmo entrati in guerra. A proposito, - aggiunse facendogli l'occhiolino, - Zelda mi ha chiesto più volte di te, a quanto pare le sei piaciuto parecchio. - Nazario arrossì, ripensando al capodanno a casa di Fabrizio e abbassò lo sguardo, farfugliando qualcosa. Era meglio non pensarci, non in quel contesto di violente emozioni che rischiava di sopraffarlo. - Credo di non averti mai ringraziato abbastanza per avermi ospitato quell'anno. - disse poi. - Ma non dirlo neppure per scherzo. Ci siamo divertiti e solo questo conta. Ehi, - aggiunse indicando alle proprie spalle, - che ne dici se andiamo a prendere qualcosa da bere e ci raccontiamo un po' di cose? - Nazario adocchiò una locanda presa di mira da molti soldati, riflettendo che era pericoloso parlare con Fabrizio, perché sapeva che sarebbe stata dura evitare di fargli alcune domande; tuttavia, nel momento in cui l'amico lo prese a braccetto, accettò a una condizione: - Va bene, ma non posso rimanere a lungo, voglio scrivere a casa prima di partire. -
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Nazario dormì poco quella notte, intento agli ultimi preparativi prima di lasciare Cividale alla testa dei propri uomini. In realtà avrebbe potuto, nonché dovuto riposare in vista dello sforzo previsto, ma non era riuscito a togliersi dalla mente i dilaganti ricordi che la chiacchierata con Fabrizio aveva riacceso. Se poi si soffermava a immaginare la rabbiosa reazione della Germania al tradimento dell'Italia, gli tremavano le gambe. A ridosso del muro di una casa, spalancò gli occhi al primo chiarore dell'alba, rimanendo assorto ad ammirare l'astro nascente, mentre uno stormo di uccelli sfrecciava verso le cime maestose ancora innevate. Portò la mano all'interno della giacca della divisa e rovistò in una tasca. Prima di estrarre la fotografia gettò un'occhiata furtiva intorno per accertarsi che altri soldati mattinieri fossero lontani, quindi osservò l'immagine. È l'alba del 23 maggio, pensò amaramente osservando il volto amato, e non oso neppure pensare cosa dirai quando saprai che siamo entrati in guerra. Avrei tanto voluto che non fosse andata così. In quei mesi, dallo scoppio delle ostilità, aveva seguito con apprensione gli eventi e fino all'ultimo aveva sperato che il governo Salandra mantenesse fede al patto stipulato, in modo tale da scendere in campo al fianco della Germania. Invece, alla fine di quel giorno, l'Austria-Ungheria si sarebbe vista recapitare la dichiarazione di guerra, palesando il tradimento dell'Italia. Con un sospiro ripose la foto nella tasca interna e indossò i guanti bianchi. Udì la tromba squillare l'adunata, si staccò dal muro e posizionò il cappello in testa prima di raggiungere i propri uomini. Era arrivato il momento. Così, mentre l'esercito italiano marciava per raggiungere il confine e dare inizio alle ostilità fissate per il 24 maggio -costringendo gli austriaci a spostare in tutta fretta le armate dal fronte occidentale- i tedeschi si ritrovarono a dover fronteggiare da soli gli anglo-francesi da una parte e i russi dall'altra, nonché rafforzare l'altro alleato, l'Impero Ottomano, che combatteva contro gli inglesi. A Berlino l'aiuto italiano sarebbe servito non poco e per quel motivo il governo tedesco aveva fatto pressioni sull'Austria per indurla a cedere i territori di Trento e Trieste, affinché fosse eliminata la terrificante possibilità che l'Italia si alleasse con gli anglo-francesi. Ma Francesco Giuseppe I aveva acconsentito solo a denti stretti e non prima della conclusione delle ostilità. Ora, dopo quasi dieci mesi di guerra, l'Italia aveva fatto la sua scelta. E non era quella auspicata da Berlino.
Myrddin Emrys
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