Le indagini del Vicario di Giustizia Jacopo Lamberti.
Bologna, 14 giugno 1326
Il terzo tocco della campana sulla torre del Capitano che intimava ai cittadini di rinchiudersi in casa si era ammutolito da un pezzo. Nell'oscurità della notte, il rumore affrettato dei sandali sulle pietre sconnesse della strada lastricata echeggiò come uno scalpiccio solitario. Il monaco, coperto dal proprio saio cinerino, stretto ai fianchi da un cingolo di lana bianca, avvertì l'animo in gran tumulto. Il mandato di cui si era fatto carico, pur non reputandosi all'altezza, era alquanto delicato e temerario ma per dover d'ubbidienza non si era sottratto al compito gravoso. Ogni ombra che si presentava a ridosso dei portici, nella scialba luce della luna, gli muoveva uno scatto nei nervi tesi. Per prudenza, si mantenne al largo, preferendo percorrere la via maestra evitando i vicoli, fetidi e torti, colmi di ogni tipo di lerciume. Anche in quel modo, tuttavia, la strada rimaneva umida e minacciosa per chi l'attraversava non armato, senza contare il rischio di incappare in una qualche ronda. I birri o gli uomini del bargello potevano chiedergli ragione della sua presenza in giro a tarda notte e arrestarlo. In tal caso, la pena minore alla quale sarebbe andato incontro era la prigione. Deglutì a vuoto; la gola era secca, non per il passo svelto. Il suono dell'acqua che scorreva in un canale vicino gli diede modo di riflettere su quella città, i cui commerci le offrivano un ruolo così importante da porla in evidenza tra i centri più agiati e popolati d'Europa. Guardati dal denaro che crea denaro, l'esortava il vate di Firenze, esiliato come lui, e deceduto cinque anni prima. La sola anima intellettiva pareva non bastare a dirimere l'aspra contesa che opponeva francescani e domenicani sulla liceità delle ricchezze generate dal prestito che molti equiparavano all'usura. A sostegno di quella tesi, vi erano i precetti morali delle Sacre Scritture, se non l'autorità di Aristotele. Tuttavia, al di là di ogni peccato, era essenzialmente quello a muoverlo verso strada Maggiore, oltre a voler salvare la sua stessa vita. Il monaco gettò una rapida occhiata alle case intorno, dai tetti coppati e le pareti di pietra. Non un lume, non una voce. Unica compagnia, oltre alla ferrea volontà di giungere a destinazione, i versi degli uccelli notturni e una lieve brezza che però recava un fastidioso puzzo di pesce, proveniente da qualche vicolo laterale. Per esorcizzare i cattivi presagi infilò le dita nel piccolo taschino di cuoio, legato al suo crocefisso, e ne strinse il contenuto, controllando che fosse al suo posto. Quel che trasportava era tutto ciò che rimaneva dell'Ordine. Con una smorfia, chiuse le palpebre, per vincere il capogiro che lo aveva preso. Si sfregò gli occhi, quasi potesse vederci meglio e percepì i pensieri farsi imprecisi come ombre segno che le fatiche di quel periodo stavano presentandogli il conto tutte assieme. Quelle divagazioni lo indussero a distrarsi, tanto che non sentì i passi avvicinarsi. Quando avvertì il sibilo, qualcosa lo centrò da dietro, alla nuca, e non ebbe il tempo di reagire. Il mondo scoppiò in una folgore accecante, e lui rovinò avanti, la faccia sprofondata in un rigagnolo di acqua putrida.
15 giugno, strada de Portasteri
— Forse avremo una bell'estate. Che ne pensi, Niccolò? — chiese Jacopo Lamberti in piedi sulla soglia della bottega dell'amico speziale. A braccia conserte, spinse lo sguardo in direzione delle due torri di porta Ravegnana, svettanti con il loro rigoroso profilo sul centro cittadino, come numi tutelari dell'inquieto Comune. Di prima mattina, la via si presentava già popolata di distratti passanti, vestiti in modo sommario, che apparivano dediti a mille interessi, sotto il sole rovente e luminoso. L'intera città sembrava ridestarsi alla vita, dopo i lunghi mesi di rabbioso conflitto e la faticosa pace suggellata con Modena. — Sì, è probabile — affermò Niccolò, affacciandosi con tutta calma all'ingresso della sua vendita di erbe ed essenze medicinali, al momento priva di clienti. Lo speziale lisciò la parte davanti del camice che indossava per non sporcarsi con le sostanze che manipolava, e tirò su col naso, come se fosse raffreddato. Tuttavia, Jacopo sapeva che era un vezzo e stava rimuginando qualcosa. Infatti, di lì a poco, scosse la testa malinconico. — Di nuovo quella storia di Teresa? — gli domandò. — Sinceramente, non riesco a capire — rispose l'amico. — È andata così, non posso farci niente. — Questa, Teresa non te l'ha perdonata. Passi l'altra, la nobile e ricca Melania Rinaldi. Ma una strega — gesticolò a mani congiunte lo speziale. — Non so cosa ti dica la testa! — Cosa mi dice? Non lo so! Avrà fatto una malia anche a me — esclamò Jacopo spazientito stringendosi nelle spalle. — Non ne sono pentito, perché dovrei esserlo? Nessuno mi ha forzato, è stata una mia scelta, magari sbagliata però presa in piena coscienza... credo. Niccolò sospirò seguendo con lo sguardo un carretto che passava, tirato da un campagnolo con un cappello di paglia. — Ma perché poi gliel'hai detto? — Teresa è sempre stata una sveglia, l'ha capito subito. — Davvero non ti rincresce? — No, e poi ci hai pure guadagnato — gli rispose Jacopo voltandosi verso di lui. — Teresa si è trasferita a casa tua. — Ogni tanto chiede di te — disse Niccolò sconfortato. — Lo vedi? È tutto a posto — rise Jacopo schiudendo le braccia sorridente. Però lo speziale lo scrutò come se non gli credesse. — Non metterti pensiero. Al limite, potrai sdebitarti con un bell'invito a pranzo, quando alla tua signora sarà sbollita la rabbia. L'ultima volta che l'ho vista, mi ha gettato addosso la cucina. Per fortuna, le avevo nascosto le cose più taglienti. Niccolò gli sorrise impacciato, accarezzandosi la barba con uno sguardo ironico: — Sì, le passerà, ma non credo sia ancora tempo per l'invito. Non parla proprio bene di te. Non vorrei ti aggiungesse qualcosa di sgradevole nelle pietanze. Jacopo gli appoggiò la mano sulla spalla. — In tal caso, troveremo un'altra soluzione. Niccolò stava per garantirgli il proprio sostegno, quando udirono delle urla agitate provenire da porta Ravegnana. Una piccola folla si spostò come un sol uomo verso il fondo della strada. Jacopo si incupì. D'impulso, portò la mano all'elsa della spada, reprimendo un fremito: — Che cosa sta succedendo? — Andiamo a vedere! — suggerì Niccolò, stringendogli il braccio. Jacopo si voltò di scatto verso l'amico che lo fissava. Di solito, l'istinto di Niccolò non sbagliava in quelle cose. — D'accordo, seguimi! Senza tardare, sbarrata la porta della bottega alla svelta, assieme a Niccolò risalirono la strada di corsa oltrepassando i fabbricati del Comune e il palazzo del Capitano, giungendo trafelati alla piazza del mercato. Per il caldo che emanava dal suolo, un grave tanfo li assalì. Tra la torre Asinelli e la chiesa di San Bartolomeo i pescivendoli tenevano i loro banchi e in segreto gettavano gli scarti marci a terra anche se era vietato. Jacopo cercò di fendere la folla per primo, prontamente imitato da Niccolò, tutt'altro che una pertica. I curiosi, spalla a spalla, non lasciavano spazi. Ma alla fine pure i più riottosi si piegarono alle sue imprecazioni, e alle sue spinte, risultato di una lunga esperienza con i bifolchi. Quanti erano accorsi si tirarono indietro, e Jacopo riuscì a scorgere l'oggetto di tanta morbosa curiosità da parte della folla vociante. Scuotendo la testa, gli sfuggì dalle labbra uno schiocco di disgusto. Si chinò accanto al cadavere, lasciato a marcire come un sacco di cenci nella scolina che scorreva tra due ali strette e umide di muri, di fronte a una casa in rovina. Un frate colpito alla nuca. Poteva essere di malaugurio, ancor più di un prete grasso e ricco. In quell'attimo, sopraggiunsero anche due scagnozzi del bargello. La loro sede era presso il trivio di porta Ravennate; dunque, lì. Jacopo si meravigliò che fossero giunti per ultimi. — Signor vicario, siamo qui. — Lo vedo — ribatté Jacopo lisciandosi la barba intonsa da giorni. Troppe cose a cui pensare, e troppo poco tempo da dedicarvi.
Francesco Grimandi
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