Aprì la bustina, ci infilò dentro un dito e poi lo poggiò sulle labbra. Sembrava soddisfatto, perché subito si alzò la manica della maglietta e scoprì il braccio. Io stavo lì impalato, la mia aura misteriosa era scomparsa, mi sentivo un vero deficiente davanti a Tony, che stava per farsi una pera nella mia camera. Non sapevo cosa fare. Mia madre era stata una tossica, ma non l'avevo mai vista farsi, perché smise prima di avermi. Gli altri che frequentavano casa nostra, andavano di solito dalla zia Vicky a provarla. Insomma, Tony era pronto a spararsela in vena, quando i suoi occhi si posarono su di me: - Vuoi provarla, amico? - mi chiese, lasciando che il mio sguardo si inebetisse ancora di più. Non risposi. - Coraggio, Ronnie - continuò - sembra proprio che tu ne abbia bisogno. Andiamo, una dose non ti farà alcun male - . Pronunciate queste parole e non so nemmeno io come, mi trovai con un laccio emostatico attorno al braccio e l'ago che sapientemente Tony mi infilava nella vena bluastra. Lo guardavo con un'espressione di terrore mista ad eccitazione. Non pensai nemmeno per un attimo che mia madre ci avrebbe potuti scoprire o che sarei potuto morire. Non ci pensai. Prima di allora non avevo considerato lo sballo come un modo per dimenticare tutto, ma da quel momento tutto cambiò, anche se non fu immediato: ci volle ancora del tempo, prima che diventassi quello che sarei diventato ai tempi dell'università e cioè un tossico con una dipendenza cronica. Ma questo ve lo racconterò più tardi. Ora voglio dirvi come andò a finire quella volta. Svenni, credo. Comunque, dopo la botta iniziale persi i sensi non so per quanto, ma abbastanza perché mia madre tornasse e ci trovasse riversi sul tappeto lurido della mia camera. Perse la testa: mi prese a schiaffi più volte, perché riprendessi conoscenza e poi, quando ci passò l'effetto della dose e una volta cacciato via Tony letteralmente a calci, Nina cominciò a colpirmi con una violenza, che non avevo mai visto in lei. Non era molto forte, ma con tutta l'energia che ancora avevano i suoi arti stanchi, me le diede di santa ragione, in modo che ricordassi quel giorno per sempre e lo feci, solo che non servì a farmi desistere dal provarla di nuovo. Anche io ero furioso con lei comunque e non per le botte, ma per ciò che avevo visto quel pomeriggio ed inoltre mi tornò in mente in quel momento che Nina non aveva ancora preso le sue medicine. Si rifiutò di prenderle e la cosa mi rese ancora più nervoso, perché sapevo dove ci avrebbe portato Nina col suo comportamento e non mi piaceva per niente. La guardavo col fuoco negli occhi, avrei voluto fulminarla, costringerla a ficcarsi in gola quelle dannate medicine e finirla con le cazzate, ma lei si sentiva invincibile: il principe era tornato da lei, se l'era scopata un'altra volta e si sentiva in paradiso, come se si fosse appena sparata una dose di eroina pura anche lei. E Nina in paradiso significava me all'inferno, in balia delle sue crisi, dei suoi cazzo di momenti, di cui iniziavo ad averne abbastanza. Se mia madre era una testa di cazzo non potevo cambiarla, ma se quella follia era a causa del principe, non era accettabile. Per non parlare del fatto che non riuscivo a digerire il fatto che mia madre potesse tornare ad aprire le gambe davanti all'uomo che l'aveva messa incinta ed abbandonata, l'unico che l'avesse mai trattata veramente come una puttana. Ma Nina non ragionava e se non aveva preso le sue medicine eravamo proprio nei guai. Le chiesi di prenderle, ma lei me le gettò in faccia. Ero ancora frastornato per l'eroina, ma raccolsi la rabbia che mi ribolliva dentro e le scaraventai contro il tavolo che avevamo in cucina con tutto ciò che c'era sopra. Mia madre, sbalordita dal mio comportamento, fino a quel momento mite e permissivo, iniziò a gridare: - Che cosa ti prende, sei impazzito? - . - Che hai fatto, Nina? - le chiesi - gli hai permesso di farlo ancora? E' così che funziona tra voi? Sparisce per degli anni, poi quando gli viene voglia viene a cercarti, ti mette incinta ancora e poi ti abbandona? E' così?!? - Non feci in tempo a finire la frase che mia madre mi sferrò un pugno, che quasi mi ruppe il naso. Non so dove colpì esattamente, ma l'indomani avevo la faccia viola e sentivo male dappertutto. Non la biasimai, però: in fondo me lo meritavo, non avrei dovuto anche io darle della sgualdrina, ci pensava già il principe ed anche lei a dirlo di sé stessa. Comunque Nina per qualche tempo smise di prendere le medicine per il bipolarismo, ma non smise di vedere lui. Fu un periodo strano. Lei sembrava felice almeno in apparenza, ma era quella sua solita felicità, artificiale, finta, impalpabile, disinibita e sapevo che presto se ne sarebbe andata via, così come era arrivata. Io invece, che ero stato fieramente iniziato all'eroina dal mio amico Tony gambadilegno, attraversavo la mia fase ribelle: una fase destinata a durare molto e anzi, forse a non finire mai più. Anche se Nina faceva di tutto per estromettere il principe dalle nostre conversazioni, anche se lo vedeva di nascosto negandolo puntualmente con me, sapevo che quello stronzo era ancora un problema ed ero deciso a farlo sparire, questa volta per sempre. Diciamo che il principe mi diede un pretesto per dire “basta” e per buttare fuori dalla mia vita tutta la merda che avevo sempre avuto intorno. Ma “il quartiere è il quartiere: puoi andartene, ma lui non te lo togli di dosso, lui ti resta tatuato sulla pelle” come diceva mia madre, quando rifiutava di concedermi il permesso di passare del tempo in giro con i giovanotti di strada. Forse si era fatta l'idea che sarei diventato un altro un giorno, che a dispetto del nostro cognome e del nostro retaggio, avrei combinato qualcosa nella mia vita. Si sbagliava: si era illusa, come faceva sempre. Il quartiere mi aveva cambiato già prima che lei, il principe o chiunque altro potessero farci qualcosa. Anche lei avrebbe presto o tardi dovuto accettare questa realtà. Quando tutti ci illudevamo che Nina fosse miracolosamente guarita dal suo disturbo dell'umore, quando era passato talmente tanto tempo dall'ultima crisi, che nemmeno ce la ricordavamo più, io perdevo i miei pomeriggi a fumare erba sotto casa mia, che pagavo a Tony facendogli i compiti o trascrivendogli le soluzioni dei test. Un giorno vidi mia madre scendere da una super macchina grigio metallizzato, che si fermò davanti al nostro palazzo, giusto il tempo di scaricarla in condizioni pietose, piangente e con la faccia piena di mascara colato dalle ciglia finte. Eccola, la crisi. Quella che sapevo dentro di me che si sarebbe rifatta viva, prima o poi. Nina era tornata quella che era e cioè un disastro: di nome e di fatto. Fumai la mia canna fino al filtro in poche boccate e gliela gettai davanti, ma lei non disse nulla stavolta e non perché si era rassegnata o cazzate simili, ma solo perché per Nina nei momenti “no” esisteva soltanto Nina e nessun altro. L'avevo capito la prima volta che l'avevo vista in quelle condizioni e ormai ci avevo fatto il callo. Il benessere psico-fisico che mi derivava dall'erba mi concesse degli attimi di self control inaspettati, durante i quali la squadrai dalla testa ai piedi, poi dissi: - Santo cielo, Nina, sembra che tu sia tornata a battere! - . Mia madre se ne stava malamente in piedi su dei tacchi altissimi, tirandosi inutilmente giù i lembi di una gonna nera succinta, che le lasciava in mostra anche la biancheria intima. La presi e l'accompagnai dentro. La trascinai sotto la doccia e lì le tolsi quegli stracci di dosso, poi l'avvolsi nel suo accappatoio ed alla fine le ficcai in bocca quelle cazzo di pillole, prima di farla sdraiare. Era come essere tornati indietro nel tempo, ma intanto in me era tutto diverso. La lasciai sul divano con la tv accesa ed una coperta addosso: i farmaci l'avrebbero stordita per un po' ed io usai quel vantaggio per tornare da Tony e dalla sua erba. Per la prima volta realizzai che non ero in pena per lei: c'era qualcosa che mi rodeva dentro, ma non era a Nina che stavo pensando. Tornavo con la mente al momento in cui vidi comparire l'auto grigia dal vicolo: la notammo immediatamente, perché nel quartiere se ne vedevano di rado di macchine del genere. Aveva i vetri oscurati, ma quando lo sportello si aprì e vidi precipitare giù mia madre, i miei occhi non distolsero lo sguardo dall'abitacolo: non le corsi incontro, perché volevo vedere e scorsi la faccia di quell'uomo per la prima volta. Fu così che, mentre ero seduto sui gradini di casa mia a spaccarmi di canne, vidi per la prima volta il volto del principe. Nonostante avessi vissuto tutta la mia vita a sentirne parlare, non avevo mai immaginato la sua faccia. Non mi interessava sapere come fosse: almeno avrei evitato di sprecare il mio tempo ad odiare il suo viso, ma quel giorno lo vidi e lui vide me. I nostri sguardi si incrociarono ed anche quando gettai il mozzicone e presi Nina, per portarla in casa, lui non smise di fissarmi. Ero incazzato da morire con mia madre, perché con le sue sceneggiate era riuscita a dare un volto alla mia rabbia, quella che avevo dentro da tutta la vita, quella con cui ero nato e che non aveva fatto altro che fermentare nella polveriera che era il quartiere. Ma del resto “Il quartiere è il quartiere”, come diceva sempre lei e questo pensiero mi tuonava in testa. [...]
Barbara Gentiluomo
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