Viale Marconi era sempre così caotica che avrebbe riempito lo spazio anche se non fosse esistita. Negozi che aprivano, negozi che chiudevano, gestori che cambiavano, affitti che salivano di prezzo. Flussi di persone di varia natura incrociavano il passo sui marciapiedi gremiti di gente. Le vetrine luminose brillavano di inviti fiammeggianti a comprare un nuovo capo di marca o un'anonima firma, il dvd del momento o, fra i libri, qualche vecchio classico imperdibile. Senza quel paio di occhiali da sole non potevi mostrare quel lato affascinante di te; senza quella biancheria intima, non saresti mai potuto assomigliare a quel famoso corpo dove la plastica aveva trovato largo impiego. Il discount di turno era davvero conveniente, ma il supermercato più caro era segno di benessere finanziario e se ti capitava di entrarci per comprare la carta igienica, ti sentivi quasi importante. Tessere e voucher di ogni tipo infoltivano il portafogli più del denaro, che era stato peraltro sostituito dalle carte di credito da un pezzo e per i più giovani le ricaricabili erano un must in versatilità. Ad ogni pie ‘sospinto incontravi un localino dove offrire da bere e scroccare da mangiare, per ricaricarti fra una compera e l'altra, mentre i gioielli ammiccavano dall'immagine di un maxi-cartellone pubblicitario da cui un immenso sorriso di donna sovrastava la strada trafficata e risonante di clacson e autoradio. Piuttosto agguerriti ragazzi con denti luccicanti volevano far riempire questionari cui apporre una firma per strappare all'ignaro, ingenuo passante, frastornato da tutto l'insieme del viale stesso, un contratto per qualche non sempre vantaggioso abbonamento. Cagnolini minuscoli al guinzaglio, zampettanti compostamente, passavano fra le gambe di individui in preda alla fretta. Grossi cani senza guinzaglio sonnecchiavano di fianco a qualche saracinesca abbassata, compagni di chi offriva il proprio cappello non per galanteria, ma per ricevervi monetine e soldi in carta di piccolo taglio. Ogni spartitraffico era aggredito dalle macchine. Alberi mozzati e sfrondati, buche pericolose ma ben camuffate, semafori oberati di lavoro e vigili dai taccuini facili in taluni casi, troppo generosi o distratti in altri, popolavano il viale. Palazzi da una parte e dall'altra con tanti piani da scalare, qualora si fossero rotti gli ascensori... Come quello che si era sganciato per via di una scossa di terremoto, si era detto al telegiornale. Cosa questa assai poco credibile se si pensa che la grande, bellissima Roma non conosce scosse così preoccupanti per via degli scavi sotterranei che la attraversano in lungo e in largo. Da una parte si sarebbe raggiunta la via del mare, fra le più incidentate d' Italia e dall'altra la caratteristica Trastevere, prigioniera dei varchi attivi e dei giovani ritrovi di ragazzi in vena di flirt, divertimento, passeggiate romantiche e canne condivise. Sul lato sinistro quartieri con altre vie pullulanti negozi e una chiesa svettante dal nome Gesù Divin Lavoratore, tanto per ricordare a tutti che non era un perditempo o un delinquente. Sull'altro lato della strada altri agglomerati di case, banche, negozi, pasticcerie, mercerie, officine... E poi c'era lei: quella seminascosta stradina sterrata che passava di fianco al Tevere, biondo degli scarti umani, triste di finali disperati, testimone di proposte di matrimonio come pure di baraccati, zingari e tossicodipendenti. E in quel piccolo rettilineo fra gli alberi, di fianco ai pescatori senza licenza, correva lei, si perdeva nei ricordi, sotto una coperta consumata dal tempo, lui e il ragazzino svelto andava a recuperare il suo pallone. Ed è proprio su questi tre personaggi che ora cade la nostra attenzione.
Diego Ro aveva sempre paura quando doveva andare a riprendere la palla lì sotto. Giocavano nel grande parcheggio poco conosciuto accanto alla fabbrica dismessa di... non sapeva cosa - tutti sapevano che era una fabbrica abbandonata, ma nessuno sapeva cosa vi si producesse un tempo-. Quello spettrale edificio grigio lo intimidiva tantissimo eppure c'era qualcosa che lo spaventava molto di più: la stradina parallela al parcheggio, che si svolgeva ad un livello sottostante, serpeggiando accanto al fiume. La temeva, perché in molti gli avevano raccontato che era una strada piena di insidie minacciose: tossicodipendenti che ti puntavano la siringa addosso, laceri delinquenti che ti rubavano anche le mutande, zingari pronti a deriderti ed a punzecchiarti con piccoli ma affilatissimi coltelli e loro... Gli spiriti silenti dei suicidi, gli ospiti più pallidi del Tevere, quelli con gli occhi senza speranza, quelli con gli occhi senza occhi. Ogni volta che il pallone andava a finire là sotto lui tremava. Si mettevano in cerchio, con la sua comitiva di piccoli amici e facevano la conta per chi doveva inoltrarsi nella strada tetra, così la chiamavano, per poter ancora giocare a calcetto. Gli era già capitato di dover scendere giù. Aveva corso a perdifiato, senza quasi darsi il tempo di respirare, con sassi e terra che gli scorrevano sotto i piedi come se volessero riportarlo indietro, come per avvisarlo, avvertirlo del pericolo cui andava incontro. Ma lui non poteva tornare indietro senza la palla. Lo avrebbero guardato come si guarda uno scemo, sarebbero scoppiati a ridere e lo avrebbero chiamato Piscialetto. Più forte della paura dell'ignoto era la paura delle prevedibili reazioni degli altri, così facilmente portati a usare il gruppo per demolire il singolo, quando le squadrette si scioglievano a partita interrotta. Così sapientemente scaltri nel trovare i punti deboli del solo. Perché era allettante sperimentare la cattiveria, quando ancora non si era deciso chi diventare, chi essere. Ed era per questo motivo che lui, ancora una volta, correva a prendere un oggetto che in fondo non lo identificava affatto, ma gli offriva il pretesto per sentirsi qualcuno e dato che di suo si percepiva ancora incompleto, aveva bisogno del branco, pur temendolo... pur odiandolo.
Correva. Non voleva pensare che domani tutto sarebbe cambiato anche se si era opposta a questo con tutta sé stessa. La musica che sentiva era nella sua mente perché non amava slanciarsi nella corsa con gli auricolari. Le infastidivano le orecchie, le riempivano spazi che preferiva lasciare vuoti e le precludevano la possibilità di ascoltare il mondo esterno, si trattasse del canto degli uccelli o di pericoli nascosti. Andava lì a dare respiro ai pensieri e spazio ai sogni, mentre il corpo seguiva la ritmica danza del jogging, che a tratti si trasformava in corsa su scatto, perché non c'era nessuno e a lei piaceva la solitudine. Era malinconica come la maggior parte dei giovani? No. Era indipendente al punto da non desiderare neanche la compagnia di un cane o di un gatto. Gli altri per lei erano sempre stati un peso, una seccatura da assolvere non come opera pia, quanto come necessità inevitabile. I capelli biondo cenere scendevano sulle spalle come per coprirle il collo dai raggi del sole. In effetti il sole era una presenza troppo invadente anche nelle giornate più nuvolose per lei. Preferiva la pioggia perché le dava l'impressione di essere l'organo preposto a lavare via tutto ciò che di resinoso e colloso rendeva la gente che la circondava così appiccicosa da ferire la sua riservatezza. Come un elastico che le tornasse addosso, come lo schiaffo di un boomerang che non voleva smettere di sferzarla. Amava il rischio? Cercava le forti emozioni dovute al brivido che suscitava un luogo come quello? No, affatto. Anzi accatastava ai lati del suo passaggio tutto ciò che avrebbe potuto rallentare il suo estraniarsi da ogni sensazione più acuta del previsto. Chi osservava il suo volto ne restava estasiato, le prime volte, ma poi finiva per etichettarla con la stessa espressione con cui tutti ormai la additavano, che peraltro era divenuta per tacito accordo il suo soprannome: Mah! Tutti la citavano semplicemente con un Mah. " Guarda! Sta passando Mah!", "L'avresti pensato che Mah sapesse anche parlare di tanto in tanto?". La citavano, ma poche volte accadeva che la chiamassero. Ne parlavano fra loro per il tempo che ci vuole a ridere e sentirsi rinvigoriti e rinfrancati da qualche insicurezza passeggera, di poco conto: giusto il tempo di un attimo. A lei stava bene. Era quello che desiderava. Poi Mah le donava. Pensava che la rispecchiasse molto. Sebbene non amasse la compagnia delle persone, ne apprezzava le doti ironiche e quell'epiteto che le era stato affibbiato le calzava a pennello e senz'altro la sottraeva all'obbligo della socializzazione, creando fra lei e il prossimo un abisso che le permetteva di studiare chi aveva intorno senza che questi le desse peso. Non era una leader e non le importava esserlo, come si può intuire. Questo le evitava anche di cadere nel ruolo di scorta, di giocatore in panchina, di seconda e terza scelta, perché lei non era la prima né l'ultima e nemmeno la successiva. Non conduceva e non seguiva. Lei era un pezzo a sé, vacante in un mosaico dove tutti erano incastrati, mentre lei era libera. Quindi correva libera, senza chiedersi dove tutto questo l'avrebbe scaraventata. Al momento era solo furiosa per non essere riuscita a mantenere la sua esistenza sempre piatta, sempre uguale, priva di scossoni. Perché, dannazione, il giorno dopo sarebbe cambiato tutto, anche se lei si era opposta a questo con tutta sé stessa.
Sergio non dormiva. Teneva sempre gli occhi chiusi quando andava a sdraiarsi sotto a quel ponte, ma non dormiva. Quella vecchia coperta diventava tutto ciò che aveva: la sua casa per qualche ora, il suo nido d'amore per tutta una vita. La brezza che gli accarezzava il viso era quella mano che ancora cercava ad ogni risveglio, come cera calda e densa, un olio profumato che sapeva di pane e confetti. Il letto d'erba, accanto alla stradina sdrucciolevole era l'inconfondibile tocco di quel solletico. Il venticello che vi frusciava attraverso era quella voce argentina. Se avesse aperto gli occhi tutto sarebbe svanito in un istante. Si sarebbe ritrovato solo con un baratro attorno, scavato apposta per lui come una fossa. Allora in taluni momenti stringeva gli occhi per serrarli completamente, nel tentativo estremo di restare in quel luogo di luccichii, dove il sopra, doveva essere così, avrebbe prima o poi incontrato il sotto. E si aggrappava a quel confine indefinito con tutta la forza del suo amore. La coperta logora era il suo rifugio, scudo contro il cemento di una porta chiusa a quattro mandate, senza possibilità di ritorno. Qualche volta gli scendeva giù una lacrima, mentre si chiedeva se stesse impazzendo, perché subito sapeva che non era così e che gli sarebbe stato negato il sollievo della pazzia. Poi di nuovo la carezza di una brezza, cera calda sul suo cuore. Ma inevitabilmente il giorno volgeva alla sera e la brezza si mutava in gelo, la cera in ghiaccio, il solletico in aghi pungenti. E la voce argentina lo rimproverava e gli imponeva con dolcezza di tornare a casa. A casa... Quale casa? Quella colata di catrame nero sbavato di ricordi? Quella sfumatura di macchie, ognuna delle quali testimoniava i suoi ostinati, prolungati silenzi assorti? Tutte le volte trovare la forza mentale per tornare richiedeva sforzi inumani, che lui, umano disassuefatto all'umanità, non aveva voglia di compiere. Ma il suo corpo infine comandava sul rigetto, imperava sopra al disgusto e gli imponeva di andarsene, perché la legge della sopravvivenza era più forte del suo desiderio di liberarsene e di questo lui si vergognava. Infine, se ne andava portando con sé la sua coperta, come una bussola senza la quale non avrebbe potuto raggiungere di nuovo la sponda del fiume, il giorno dopo, per essere presente al suo appuntamento. Tutto questo ormai accadeva nel suo quotidiano. E infatti per il momento se ne stava là, volutamente dimentico del freddo che sarebbe arrivato di lì a non molto a scardinarlo dal suolo per rigettarlo nel gas e ripiombarlo in quella vita di ogni giorno così inesorabilmente priva di lei.
Il cielo si stava inavvertitamente incupendo. Era strano in una giornata buona come quella. Tutte le previsioni avevano annunciato un clima senza sorprese. Per questo Mah lo guardava ora preoccupata. Si era distratta talmente tanto da non rendersi conto che era leggermente uscita dalla stradina e correva sull'erba che sfrigolava sotto le sue scarpe. Continuava a guardare in alto perché quell'impalcatura atmosferica che si era formata sopra la sua testa era qualcosa di mai visto ed incredibile... Non sapeva spiegarsi come, ma sembrava che tutto ciò che si trovava sopra l'orizzonte fosse diventato una sorta di suggestivo dipinto illuminato da scosse elettriche, tanto diverse dai lampi e dai fulmini quanto somiglianti invece a giganteschi schizzi di schiuma bollente e gorgogliante.
Sergio si era destato di botto dal suo sonno senza sonno, perché aveva sentito come un risucchio nelle orecchie, potente e spaventoso. Eppure riconosceva in quel suono qualcosa di naturale, di molto lontano da una minaccia in realtà, qualcosa di atavico, che faceva parte di lui, forse anche di tutti gli altri. Aveva lasciato che la sua amata coperta scivolasse via, trascinata da una forza sconosciuta. Poi si era slanciato in avanti, sedendosi di scatto, allungando la mano verso di essa e carpendone un angolo giusto in tempo per salvarla da quel vento razziatore.
La palla era finita avanti seguendo una sua traiettoria impazzita. Pareva che il mondo si fosse messo di traverso e quella gli fosse rotolata sopra. Sembrava che la gravità non gli permettesse di fermarsi. Diego Ro voleva puntare i piedi a terra e bloccare le gambe ma gli era impossibile. Sembrava tutto attratto in una specie di vortice invisibile. Tentò di voltarsi indietro per cercare i suoi amici, ma non riuscì a distinguere che una assurda distorsione delle immagini nel punto in cui normalmente giocavano ogni pomeriggio e non appena si voltò di nuovo in avanti fu tutto troppo veloce per lui.
Ancora guardando in alto, Mah inciampò nell'uomo che sembrava essersi materializzato dal nulla, seduto con quella brutta coperta in mano. E poi sentì cozzare contro di lei con violenza qualcuno, dietro una palla lanciata a grande velocità, che le era passata davanti proprio a pochi centimetri dal viso. Era un bambino. Cercò di agguantarlo ma non ce la fece. Quello era lanciato come un razzo. Le era stato impossibile fermarlo e accadde quello che temeva: il ragazzino cadde in acqua, mentre l'uomo su cui era scivolata, già la spostava senza troppi preamboli e, rinunciando alla sua vecchia coperta, si lanciava nel fiume. Ebbe un attimo di confusione totale, poi si tuffò anche lei. Non andava pazza per i bambini, ma non ne avrebbe lasciato affogare uno.
Eccolo il guizzo! I suoi occhi si riaccesero. Per la prima volta dopo tutto quel tempo perso nel vuoto. Sentì il sangue fluirgli di nuovo in corpo e permise alle sue membra di ricominciare a muoversi quel tanto che bastava a girarsi. Sdraiato ancora sul ponte in cui si trovava dall'ora immemore, guardava stavolta verso il basso e vedeva ogni cosa come se quella struttura fosse trasparente. Un fiume. Vedeva un fiume. Vedeva un grande spruzzo innalzarsi da un punto preciso del corso d'acqua. La sua vista si appannò, mentre l'immagine sotto di lui perdeva di nitidezza, ma assumeva concretezza. E cadde. Cadde nel cuore di quel getto d'acqua che sfidava le onde.
Laura Intino
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