Storia di Un Amore Perduto.
Viola rilasciò il fiatò, poi sospirò di nuovo e di nuovo, perché l'amore che provava ogniqualvolta usava le mani nel selezionare i fiori di lavanda da quel negozio in paese, dove si recava una volta alla settimana, era qualcosa che le bruciava dentro, un fuoco che le toccava l'anima, una amore vero e inestinguibile. Il profumo intenso le risvegliò la meravigliosa, e allo stesso tempo, insana memoria di quello che avrebbe voluto fare nella sua vita, e che non aveva potuto realizzare, ma i ricordi riemergevano ancora intatti, stordendola all'istante. Un'emozione che aveva sempre desiderato manifestare, ma che era stata costretta a nascondere, perché la natura intima di ogni desiderio, se era ostacolata spietatamente, rimaneva per sempre nel limbo della mente, trasformandosi in una sofferenza indelebile. Aveva scelto semplicemente d'innamorarsi della lavanda, perché era attraverso il suo profumo che lei ritrovava sé stessa. Fin da bambina aveva sempre avuto la predisposizione per le erbe officinali, e con l'adolescenza si era rafforzata l'idea che solo attraverso la lavorazione di quel fiore, riusciva a placare quella strana smania che l'accompagnava sempre, ogniqualvolta si ritrovava a studiare le antiche erbe, i profumi e le spezie. Era come se sapesse ancora prima di scoprire, che conoscesse ancora prima di studiare, che vedesse ancora prima di guardare. Quella smania, come la chiamava lei, era qualcosa di congenito, in grado di guidarla in ogni sua scelta, decisione, pianificazione. Era come se fosse pervasa da emozioni sconosciute, molto rare da spiegare, ma che lei giustificava semplicemente come uno smisurato amore per tutto ciò che era l'arte antica di distillare i profumi. A chi le chiedeva cosa desiderasse per sé stessa, Viola rispondeva sempre di non essere in grado di raccontare un mestiere che si realizzava attraverso le mani e l'olfatto, ma che richiedeva un forte coinvolgimento personale a più livelli. Per lei tutto passava dal corpo, entrava in una sorta di dialogo silente con le fragranze, e quando scopriva l'immensità delle note contenute nei fiori e lo rivelava attraverso la miscelazione delle stesse, si sentiva pervasa da un'emozione indescrivibile. Era come se lo vivesse, quel profumo, o lo avesse sempre vissuto. Così il tempo perdeva importanza, le sue mani e il suo naso diventavano strumenti che esploravano, che sentivano, che realizzavano qualcosa di speciale. Spesso a Viola capitava di perdersi e di ritrovarsi nello stesso momento, ma si guardava bene dal condividerlo apertamente, non tutti avrebbero compreso, né accettato quel suo modo di rapportarsi alla natura. Eppure a lei bastava annusare, scoprire nuove fragranze, e ogni volta che ci riusciva, sapeva di essere sulla strada giusta, perché l'amore e la passione, con cui compiva ogni singola azione, contribuiva al concepimento del suo profumo, una sintesi artistica in grado di restituire in un preciso momento, un meraviglioso concentrato di fragranze, unico, ora leggibile nel suo racconto originale. E poi c'era la bellezza del sentire, senza canoni certi, perché si evolveva e mutava, racchiudendo ancora di più la percezione di un momento straordinario, un tempo sacro, meditativo e universale in grado di far esaltare la creazione di una nuova essenza. Viola, però, trovò sulla sua strada un amore ancora più grande. Questa è la sua storia, la storia del suo amore perduto la cui fragranza è racchiusa in un essenza, in un Profumo.
Ecco del rosmarino; è per memoria. Non ti scordare, amore; e qui le viole, per i tuoi pensieri.
Amleto - William Shakespeare 2010
Ci sono dei giorni che non dovrebbero esistere, giorni devastanti che segnano per sempre le nostre vite e quando arrivano non lasciano scampo. Tutto cambia, si stravolge e sembra assumere strane sembianze. L'atmosfera si materializza, diventa solida, palpabile, e una strana nebbia sembra alzarsi piano piano, ricoprendo ogni oggetto, ogni spazio libero, fino a toglierne i contorni.
Nella bella casa della famiglia Scalabrini, due persone stavano in silenzio, sgomente, sbigottite, turbate da una notizia improvvisa, che era arrivata da poco.
Lei, Marta, aveva appena ricevuto una telefonata, la più terribile della sua vita, Adelmo, suo padre, era morto nel sonno. Lui, Mario, suo marito, guardava senza vedere la televisione, rimandando ogni istante, attimo, la voglia di spegnerlo per impedire che il silenzio prendesse il sopravvento su tutto. Poi, stanco di quella lotta interiore senza senso, senza scopo, si era alzato e aveva spento quell'apparecchio infernale, quindi era ritornato accanto alla moglie abbracciandola forte.
Era giusto che il dolore trapelasse, spesso è soffrendo che ci si libera, e quel macigno che ci opprime il petto e ci toglie il fiato, sembra darci una breve tregua. Lei ricambiò l'abbraccio e finalmente iniziò a piangere in modo convulso, lasciandosi andare completamente, spezzando quel silenzio ormai durato troppo a lungo.
Rimasero avvinghiati per qualche minuto, poi lei si scostò, lo guardò diritto negli occhi e sussurrò “Che cosa ne sarà di mia madre ?” Il marito scosse il capo. “Vedrai, se la caverà” disse.
Ad un tratto Marta si alzò e si diresse nella camera di Elena, sua figlia, tolse il trapuntino e si sedette sul letto ancora intatto. Voleva aspettarla, sveglia, fino a quando non fosse rientrata. Non era proprio il momento questo per un dolore così.
Certo la morte è imprevedibile, non ha date né scadenze, mentre il matrimonio imminente di Elena, sì. Solo due giorni prima l'aveva accompagnata a scegliere l'abito, un'operazione ‘ardua' per una come lei, che non riusciva mai a consigliare niente, perché era costantemente indecisa, dubbiosa, spesso anche insicura sul da farsi. Lo era stata anche quando sua figlia le aveva chiesto un parere su questo matrimonio, che non sembrava aver sortito in lei la naturale felicità che di solito trapela quando si decide di sigillare un'unione davanti a Dio.
“È un buon partito” le aveva solo risposto senza aggiungere altro, in fondo erano anni che si frequentavano ed era logico che un giorno o l'altro sarebbe successo.
Mario arrivò dopo qualche istante, si limitò a rimanere sulla soglia.
“Vieni a riposarti” suggerì, “No, va pure a letto, voglio stare da sola, aspetto Elena” replicò asciutta. Rimase un attimo seduta, poi decise di sdraiarsi, sapeva che l'attesa sarebbe stata lunga.
La sua mente iniziò a elaborare tutti i pensieri uno ad uno. Il ritmo con cui le immagini scorrevano nella sua testa era impressionante. I parenti, gli amici, gli zii dovevano essere avvisati tutti, poi ci sarebbero state le domande, i dubbi, le perplessità riguardo a quella morte quasi ‘annunciata'. Anche se Adelmo se n'era andato nel sonno, le parole di sua madre echeggiavano ancora nella sua testa - Al tu babbo non gli garba più di vivere - ma era stata forse una frase d'effetto? Perché lei, proprio, non l'aveva capita fino in fondo.
Certo suo padre era anziano, aveva compiuto novant'anni il mese scorso, ma era ancora in gamba, almeno questo era quello che credeva. Sua madre Viola, invece, era più giovane di vent'anni ed era ancora una donna attiva, anche se per tutta la vita si era appoggiata sempre al marito. Nella sua vita non aveva mai deciso niente, nemmeno il nome dei tre figli che aveva avuto, Riccardo, Alessandro e lei, Marta.
Elena varcò l'ingresso della sua stanza e trovò la madre assopita “Mamma... che cosa ci fai nel mio letto?” chiese, Marta si scosse e improvvisamente l'abbracciò. Elena preoccupata replicò “È successo qualcosa?” “Sì, il nonno è morto.”
In quella casa ritornò il silenzio. Novembre 1960 (Viola)
Faceva ancora caldo per essere novembre, eppure la leggera brezza riusciva a penetrare dalla finestra della mia camera, come fosse un alito notturno che risaliva gradatamente, rinfrescando la mia pelle fino a farmi fremere tutta.
Lì appoggiata al davanzale, catturata dal quel nero profondo punteggiato di stelle, mi ero accorta di essere in ansia. Mancava davvero poco all'arrivo degli uomini, quelli che mio padre avrebbe assunto per la lavorazione dell'olio.
Ogni anno arrivavano all'inizio di novembre e se ne andavano a metà dicembre. Amavo lavorare nelle filari degli ulivi, perché sapevo di avere nel sangue l'amore per la terra, per le piante; di solito ero la più veloce, la più precisa e spesso facevo a gara con gli uomini, che raccoglievano di buon grado la mia sfida, come se fosse un bel gioco.
Era insolito che una ragazza di vent'anni lavorasse come un uomo, ma io lo facevo. Lavoravo da quando avevo poco più di quattordici anni. La tenuta era una delle più grandi della zona, ed era situata nei pressi di Castellina in Chianti, il borgo in cui ero venuta al mondo. La chiamavano Casalvento perché confinava con un colle brullo, privo di alberi ma ricco di cespugli di elicriso, ginepro, lavanda e rosmarino che arrivavano fino alla casa, e grazie al vento la inondavano con le loro fragranze. Più in là, un altro colle ospitava i filari di ulivi, in cui era situato il rustico e il frantoio.
Quello era il fulcro del nostro lavoro. Strappare il vergine succo dal suo involucro e ricavarne il sublime olio era tutta la nostra vita e il mio babbo ne andava fiero.
Romanzi Rosa
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