Per un puledro giovane e ingenuo come Ramón, il mondo era la prateria meravigliosa in cui vivevano lui, la madre e il resto del suo branco “civilizzato”. Quel mondo perfetto, dove il pericolo dei predatori era limitato e quello di rimanere senza cibo era del tutto inesistente, rappresentava un ottimo compromesso tra la vita selvaggia e quella in cattività. Per lui esisteva soltanto quell'universo, perché era l'unico che conosceva e pertanto gli bastava: il paddock era così grande che ci voleva un'intera giornata per percorrerlo tutto al passo fino al confine più esterno della proprietà. Sierra invece sapeva che esisteva una vita più dura al di fuori di quella tenuta, una vita che ogni giorno metteva alla prova e non concedeva distrazioni né sbagli, perché ogni mossa falsa veniva pagata a duro prezzo. Essere novella madre in questi confini protetti le permetteva di essere molto più rilassata e lo apprezzava. Ramón cresceva e talvolta si allontanava in cerca di nuovi posti da esplorare, ma lei lo lasciava fare, poiché non aveva nulla da temere. Era giusto che, durante lo svezzamento, cominciasse a fare le sue esperienze e imparasse da solo a capire fin dove poteva spingere il suo carattere esuberante e coraggioso. Ramón la guardava con occhi intelligenti e si sentiva fiero di poter svolgere quel compito importante che l'istinto cominciava già a dettargli: crescere, buttandosi nella vita e facendola sua. Questo, per un cavallo che avrebbe potuto diventare lo stallone dominante del branco, significava sviluppare il giusto rispetto per le gerarchie, saper affrontare nel modo più astuto il pericolo e saper scappare per tempo, cosa che poteva voler dire riuscire a salvaguardare i più deboli. Passavano i mesi e Ramón viveva mille avventure nelle praterie curate dell'estancia, come un cavallo allo stato brado, felicemente inconsapevole di non esserlo completamente. Ivan, Leandro, Norma e tutte le famiglie che gravitavano intorno alla fattoria, non si stancavano mai di osservare quella forza della natura, assidua nelle sue peregrinazioni. Galoppava con la criniera ormai lunga al vento, con dei tempi di sospensione tali tra una falcata e l'altra, che pareva potesse volare. - È un gran cavallo, nonno. Ero certo che da questa fattrice avremmo ottenuto un prodotto notevole. - - Sai Ivan, credo che sia il più bel puledro che abbia mai visto. E fidati, ne ho visti tanti nella mia vita. Ma questo concentrato di muscoli e grazia li batte tutti. Guarda che movimento! - - Speriamo che si sfoghi ora che è giovane, altrimenti ci farà vedere i sorci verdi quando sarà ora di montarlo. - - È talmente bello, che desidererai posare le chiappe su quella schiena anche se si rivelasse un gran figlio di puttana! E lo farai! Quando sarà ora. - - Ho già quella voglia! - gli confermò Ivan, con gli occhi che brillavano e non riuscivano a distogliersi da quella creatura. - Ora stacca gli occhi da quel cavallo e puntali su di me. Ho qualcosa da dirti che richiede attenzione. - - Sì nonno. - - Questa mattina mi ha telefonato Esteban e mi ha comunicato, con preoccupante anticipo, che la prossima settimana verrà a trovarci. - - E dunque? Non è mica la prima volta? - - Già, ma di solito piomba qui senza tanti preavvisi. - - E quindi? Cosa credi che voglia? - - Non so. Ma la faccenda mi puzza. Ho un debito verso di lui. Niente che riguardi il denaro, si intende. Mi ha fatto un favore tanti anni fa e credo che sia il genere di persona che non fa niente in cambio di niente. Non so se mi spiego. Non mi è mai piaciuta la gente come lui, anche se provo ancora un senso di gratitudine nei suoi confronti... Mah, vedremo cosa vuole. In ogni caso preferirei che ci fossi anche tu. - - Non mancherò. - - Posso chiederti, se non sono indiscreto, che tipo di favore ti ha fatto? - - Certo. - Annuì Leandro dandosi ina grattatina alla fronte. - Quando io e tua nonna abitavamo ancora in Colombia, vivevamo non molto distanti da Medellín, conosciuta anche come la città dell'eterna primavera, perché gode di un clima eccezionale. Pensa che durante i mesi più freddi la temperatura non scende mai al di sotto dei quindici gradi e durante i mesi più secchi raggiunge al massimo i trentasette. Avevamo comprato un terreno lì, dopo esserci sposati, e avevamo messo su il nostro piccolo angolo di paradiso; ci dedicavamo alla coltivazione del caffè. Eravamo diventati importanti produttori e gli affari andavano bene. I problemi iniziarono quando un certo Pablo Escobar Gaviria, di cui avrai già sentito parlare, che all'epoca – parliamo del '68 – era poco più che un ragazzotto, cominciò a far parlare di sé. Inizialmente si dedicava ai furti di automobili, ed è così che si fece tristemente conoscere nel circondario, ma poi intraprese una delle più brillanti carriere criminali, abbracciando il business della cocaina. Durante gli anni Settanta il suo impero, fondato sulla droga, lievitava come io avevo visto fare soltanto a un genere di polvere bianca molto più innocuo... - sorrise ironicamente - quella che sta nelle torte di tua nonna! - - Vai avanti - lo spronò Ivan, curioso di conoscere l'epilogo della storia. - Beh, puoi solo immaginare la quantità di problemi che questo personaggio cominciò ad avere con la giustizia. Ma stava diventando talmente potente che nulla lo avrebbe intimidito. Escobar cercò di corrompere un numero incalcolabile di ufficiali governativi, giudici e politici. Spesso uccideva personalmente i gregari che si rifiutavano di collaborare. La sua strategia intimidatoria si fondava sul motto “plata o plomo”, che significava letteralmente "o accetti i soldi o muori", non esistevano altre alternative. Era l'uomo più desiderato dai membri della Bloque de Búsqueda, la parte più esposta e operativa della polizia colombiana. - - E cosa accadde? - - Alcuni uomini, mandati da lui, vennero un giorno nella nostra finca a reclamare una parte di terreno che apparteneva a noi. Sostenevano che avevamo coltivato il nostro caffè oltre ai confini di nostra proprietà, invadendo parte di quella che dicevano essere terra loro. - - Ed era così? - - No, naturalmente non era vero. Tu lo sai, siamo persone scrupolose e leali noi altri. Ma quelli approfittarono della situazione. Le loro intenzioni erano quelle di espandere una delle tante piantagioni di coca e magari prendersi la nostra coltivazione di caffè come copertura. Ingenuamente, alla prima visita inaspettata di questi individui, io andai a prendere una serie di mappe e piantine che illustravano quelle che erano le mie terre. Le mostrai a quello che sembrava il boss. Ma loro mi guardarono con un ghigno ambiguo, che interpretai molto velocemente, e che fu molto più eloquente di tante parole. Non dimenticherò mai l'espressione di quell'uomo, con quello sguardo obliquo e glaciale. Voleva dire: accontentaci o te ne pentirai. Di comune accordo Norma e io, decidemmo di andarcene. Diciamo che i nostri vicini di casa non erano esattamente quelli che speravamo. Stavamo invecchiando e volevamo soltanto una vita tranquilla insieme e senza guai - sospirò. - Così abbiamo tirato su, o meglio, tirato giù, baracca e burattini e abbiamo fatto di tutto per venire qui in Argentina. Qui avevamo un figlio. Tuo padre era venuto anni prima e aveva cominciato a gettare le basi di questa estancia. Pensammo che avesse senso restare tutti uniti e continuare il progetto insieme. - Si versò un goccio d'acqua e bevve, sospirando nuovamente. - Inizialmente abbiamo avuto problemi ad avere la cittadinanza, probabilmente la nostra immagine era stata associata a quella dei narcotrafficanti, con cui noi però non abbiamo mai avuto nulla a che fare e da cui, anzi, siamo scappati. Ed è più o meno a questo punto che è subentrato Esteban. - - Come vi siete conosciuti? - - Lui lavorava presso l'ufficio dell'ambasciata argentina in Colombia, a Santa Fé de Bogotà. Il resto della sua famiglia stava invece dalle parti dell'altra Santa Fé, quella in Argentina. Dopo la visita dei narcotrafficanti, avevamo deciso di rivolgerci a qualcuno che ci aiutasse a capire cosa potessimo fare per diventare cittadini argentini. Il problema non era dove andare, tuo padre Santiago aveva già ben avviato questo posto e di spazio ne aveva a sufficienza per tutti. - Riprese fiato. - Norma e io avevamo bisogno della cittadinanza argentina, perché l'intenzione era quella di stabilirci qua in modo permanente. Sarebbe stato molto più facile avere una “radicación temporaria”, che è una specie di permesso di soggiorno che però non ti permette di lavorare. Avere a che fare con le burocrazie di questo paese per noi era come trovarci in un labirinto, senza una bussola e a tratti anche bendati. Esteban si è dimostrato molto disponibile e ha preso a cuore il nostro caso, anche se talvolta ho avuto il dubbio che avesse preso più a cuore tua nonna, che è sempre stata una bella donna. Già... diciamo che non era un uomo insensibile al fascino femminile. Comunque sia non so – e non ho mai voluto entrare nel merito della questione – quali tasti abbia premuto per farci avere la cittadinanza in un tempo così breve. Ma ci riuscì. E non è tutto. Una sera, prima di mettere in moto la grande macchina burocratica, ci invitò nel suo appartamento, vicino all'ambasciata, per farci gustare quello che a suo dire era la miglior lechona di tutta la Colombia. - - Meglio di quello di Norma? - lo interruppe Ivan incredulo e col fare di chi avrebbe voluto alleggerire un po' il racconto. - ¡Claro que no! Ma lui non poteva saperlo. Durante la cena, non so dire se fu grazie al vino, all'aguardiente, o semplicemente a causa del bisogno che avevo di consigli e comprensione, mi aprii e gli raccontai tutti i grattacapi che mi, anzi ci, affliggevano. Gli dissi che ci sentivamo costretti ad andarcene, a causa di quel gruppo di narcotrafficanti senza scrupoli, e gli feci notare che ero stato obbligato a vendere la mia finca a quella gentaglia. Avevo il denaro riscosso dalla vendita, ma esistevano serie possibilità che quello potesse essere denaro sporco. Denaro sporco nelle mani di un innocente che non era tenuto a conoscerne la provenienza. Non so se mi spiego. Io mi sentivo quasi in difetto, ma ero pulito, accidenti! - - Ti spieghi perfettamente nonno. Tu avevi investito tutto in quella finca e nella coltivazione del caffè, quello era il frutto di un'intera vita di sacrifici e di lavoro ben fatto. Avevi il diritto di ricevere del denaro vendendo ciò che ti apparteneva. È così che funziona il mercato. Certo che... sei stato sfortunato. - - Era un problema. Per trasferirmi qui in Argentina con un malloppo di denaro considerato sporco, avrei dovuto viaggiare via terra sicuramente. Ma capisci che non ci sono speranze di varcare i confini di tre stati senza che nessuno alla frontiera ti fermi e sequestri il malloppo. E magari ti arresti immediatamente anche se non c'è prova di nulla. Sai, loro ti dicono che l'assenza di prove non è prova dell'assenza. E intanto ti sbattono dentro! - Scosse la testa sospirando. - Nel dubbio... - - Beh, ad ogni modo, Esteban era molto influente e ci assicurò che ci avrebbe fatti passare indenni ai controlli, garantendoci che i suoi uomini ci avrebbero aperto la via. Stabilimmo una parola d'ordine da pronunciare ai suoi e nostri alleati di frontiera e partimmo. - - Accidenti nonno, che coraggio avete avuto. E da dove siete passati? - - Abbiamo preso il danaro, i nostri due cavalli migliori, a cui eravamo affezionatissimi, il nostro camion sgangherato e abbiamo imboccato la strada verso l'Argentina. Abbiamo inizialmente passato il confine con l'Ecuador, perché era più semplice passare da lì e inoltre uno degli uomini di Esteban ci aspettava. Che avventura! Pronunciai con terrore la parola d'ordine, l'uomo in divisa mi lanciò uno sguardo severo, fece un cenno con la testa e via, ci lasciò andare per la nostra strada, verso Quito, una città piena di chiese, dove il barocco sudamericano sfoggia un'ostentazione di oro che non potevamo immaginare. Tua nonna – ah, lo devo riconoscere, è sempre stata una gran donna – riusciva perfino a sdrammatizzare e in alcuni momenti canticchiava dicendo che finalmente ci facevamo il viaggio di nozze! - - Che spirito! - - Puoi dirlo forte! Poi proseguimmo lungo la Carretera Panamericana e puntammo verso sud per Riobamba; ricordo panorami esaltanti, vallate mozzafiato, canyon profondi che tagliano pianori brulli e poi El Arenal, un deserto di sabbia smisurato a un'altezza di quattromila metri. La vetta innevata di Chimborazo incombeva sul piano. Scendemmo verso Cuenca, beh, si fa per dire, perché si trova a 2500 metri di altezza. Lì rischiammo di perdere una giornata, perché scaricammo i cavalli per farli sgranchire un po' e uno dei due, spaventato da un botto improvviso, ci scappò. Per fortuna lo recuperammo in fretta grazie a un ragazzino sveglio. Proseguimmo verso il Perù, che varcammo all'altezza di Tumbes senza problemi. Viaggiammo per giorni lungo tutta la costa pacifica per poi deviare verso l'interno e raggiungere la Bolivia a Yunguyo, sulle rive del lago Titicaca. Fu un viaggio terribile, nel senso più sublime del termine. Naturalmente col senno di poi e la consapevolezza di essere qui a raccontarlo – che significa che ce l'abbiamo fatta – è emozionante e mi riempie d'orgoglio poter dire che sono le condizioni estreme che rendono le cose straordinarie. - Gli vennero gli occhi lucidi. Fece una piccola pausa e deglutì la sua commozione. - Sembra un racconto d'avventura. - - E senza dubbio lo è stata. Le strade ben battute erano davvero poche e questo rendeva tutto più difficile e faticoso, anche per i cavalli. - Si versò altra acqua e ne offrì al nipote, che rifiutò con un cenno cortese. - Ci abbiamo messo dodici giorni per arrivare in Bolivia e poi abbiamo imboccato le strade secondarie che Esteban ci aveva minuziosamente illustrato sulle cartine per avvicinarci al confine argentino, sterrate assolutamente sconosciute dove non incontrammo anima viva. In ogni punto di frontiera però, anche il più nascosto, c'era un uomo per noi che, al pronunciare della parola d'ordine, ci faceva passare. È stato come essere protagonisti di un film. - - Me la togli una curiosità? - - Se posso. - - Qual era la parola d'ordine? - Sorrise. Il suo volto rugoso e gli occhi astuti illuminati dal sole assunsero un'aria solenne. - “Ramón”! Era quella la parola d'ordine che avevo scelto. - Lanciò uno sguardo a Ramón, che a pochi metri da lì li osservava, sull'attenti, fermo come una statua. - Vedi, “Ramón” ha origini antichissime, longobarde mi pare. Significa protetto dal consiglio (divino). Lo si invoca anche contro le accuse ingiuste... e noi eravamo stati ingiustamente accusati di avere qualcosa a che fare con quei narcotrafficanti. Ramón! Un nome che ci ha fatto del bene! Anzi, posso dire che ci ha salvato la vita. Per questo ho chiamato così quel cavallo. È bello come un angelo. E sono certo che anche lui salverà la vita di qualcuno. - - Cavoli! Non mi avevi mai raccontato questa storia! - - Non c'era mai stato un Ramón! - Gli strizzò l'occhio. - Era il momento figliolo, c'è un momento per tutto nella vita. Ora, per esempio, è il momento che ci diamo da fare! Abbiamo dei lavoretti da sbrigare nella parte più a est della tenuta, vicino alla scuderia più vecchia. Forza, sella due cavalli che andiamo! - Ivan non se lo fece ripetere. Montarono sui loro recados e scomparvero al galoppo in una nuvola di polvere. 5
- Ci sono visite! - gridò Pedro dal cortile, sperando che qualcuno fosse in casa. Si affacciò Norma: - ¿Qué pasa? - - Ignacio e io abbiamo visto una Ford bianca venire in questa direzione, credo sia una Falcón Rural. Forse dovresti chiamare Leandro. - - Ora lo avviso, grazie - fece un cenno di saluto e rientrò. - ¡Amor mio! Credo che Esteban stia arrivando! - - Cosa te lo fa credere? - - Ho appena parlato con Pedro, era qua sotto a cavallo! Lui e Ignacio hanno visto una Ford bianca nella strada che porta qui, a pochi minuti. Ti aveva telefonato la scorsa settimana o sbaglio? - - No, non sbagli affatto. Non ho idea di cosa possa volere. Una semplice visita di cortesia mi parrebbe strana però. - - Soprattutto da parte di un uomo così impegnato. - Fece una pausa tendendo l'orecchio e indicando con l'indice verso la finestra. - Lo senti? Il cane sta abbaiando. Chiunque sia è praticamente qui. - - Vado a chiamare Ivan, lo voglio al mio fianco. I giovani non hanno la nostra esperienza, ma a volte hanno quel non so che in più, che manca a noi vecchietti. - - Parla per te, vecchietto! - Norma ci teneva a nascondere i suoi anni, era ancora una donna piacente e vanitosa, nell'accezione più gradevole del termine. - Sei tremenda - le disse dandole una simpatica sculacciata. - Femmina tremenda! Ma ora fammi tornare serio ... Dimmi, che aspetto ho? Sono in ordine? - chiese sistemandosi il collo della camicia. - Impeccabile, come sempre - lo rassicurò, prendendogli il viso tra le mani e dandogli un bacio nella fossetta che gli si formava sulla guancia quando sorrideva. Entrò Ivan. - Ciao nonni. Un'auto bianca ha appena parcheggiato qui sotto. È la persona che aspettavi? Esteban ha una Falcón Rural? - - E chi lo sa? Ma credo proprio di sì. Seguimi e lo scopriremo. - L'auto spense il motore. La porta si aprì e un piede lungo e affusolato, infilato in una scarpa marrone elegante coi lacci, toccò il terreno. Poi emerse un panama color crema, con sotto un uomo alto e magro, le gambe rinsecchite e i baffi grigi ben curati. Era lui, Esteban. Gli anni trascorsi gli avevano ulteriormente scavato il volto, lasciandone gli zigomi più in evidenza, quasi fossero scolpiti. Nel suo insieme era una visione che mal s'inseriva nel contesto agreste in cui era immersa l'estancia, sarebbe stato più adatto dietro una scrivania. - ¡Bienvenido Esteban! Quanto tempo è passato! - - Come va, Leandro? - disse stringendogli amichevolmente la mano. - Il tempo non ti ha cambiato, sei sempre esattamente l'uomo che conobbi in Colombia! - - È la vita all'aria aperta che mi mantiene giovane! Ti presento mio nipote, Ivan. - - Molto lieto - lo accolse il ragazzo facendosi avanti. Gli strinse la mano con la giusta dose di slancio e decisione che ci vuole in una stretta maschile, ma rischiò di fargli male in quanto si trovò ad avvolgere un fascio di dita fredde, molli e ossute. Stava quasi per chiedergli scusa per il vigore che ci aveva messo nel presentarsi, ma evitò di farlo un po' imbarazzato. - Dai, vieni dentro a salutare mia moglie! Ha messo sul fuoco la pava per preparare il mate cebado e sta tritando il ghiaccio per il tereré, così puoi scegliere quello che preferisci. L'ospitalità nella nostra famiglia è sacra e sai quanto ci tengono le donne! - - Oh, Norma - sospirò, riportando la mente al ricordo di quella donna, per cui aveva nutrito un debole fin dal primo momento in cui l'aveva vista. Leandro lanciò un'occhiata d'intesa a Ivan, mentre lasciava entrare l'ospite per primo. Appena udì un vociare animato in salone, Norma non indugiò ad andare a fare gli onori di casa. Era raggiante. Era un tipo di donna dall'età indecifrabile, i suoi tratti somatici erano un cocktail perfetto: una buona percentuale delle popolazioni indios, qualche lacrima di andino e un pizzico di asiatico. Non era alta, ma il suo corpo formoso e minuto la faceva sembrare una bambola. Aveva raccolto i lunghi capelli, ancora nerissimi seppur già avanti con l'età, in un morbido chignon che sulla fronte lasciava scivolare due bande nere che, come tendine, le incorniciavano il viso. Ma il vero fascino lo emanavano gli occhi che, incastonati tra foltissime ciglia d'ebano, possedevano una luce così vitale e piena d'energia da sembrare magnetici. - ¡Bienvenido! - esordì sfoggiando un sorriso smagliante. - Qual buon vento ti porta qui da noi? - Possedeva la dote non comune di andare subito al sodo lasciando disarmato l'interlocutore. - Ciao Norma! Anche tu, come tuo marito, non ti sei lasciata scalfire dai segni del tempo. Ti trovo molto bene. - Prese la manina tornita tra le sue e la baciò. - Sì, stiamo bene qui. Siamo sempre molto indaffarati, ma è quello che ci tiene in forma! E tu e la tua famiglia, come state? - - Stiamo discretamente bene. Sfortunatamente ci vediamo poco, sai, io continuo a lavorare in Colombia, i ragazzi studiano qui in Argentina. Non è facile. Ma tra poco, se Dio vorrà, andrò in pensione e finalmente mi godrò il meritato riposo. - - Cosa bevi? Devi aver fatto un bel viaggio e sarai assetato. Non fare complimenti! - - Cosa consiglia la padrona di casa? - - Mate naturalmente! - - ¡Con mucho gusto! - - Allora, Esteban, cosa ti spinge qui da noi? - Norma insisteva. - So che voi avete degli splendidi esemplari di razza criolla, mustang e chissà cos'altro... - - I cavalli sono la nostra passione più grande - sottolineò Ivan. - Dunque... devo regalare un cavallo a mio figlio. Compie diciannove anni e da tempo gli avevo promesso un puledro speciale e speravo di trovarne uno qui a un prezzo ragionevole. - Fu subito chiaro a tutti che tra le righe di questo discorso si nascondeva un significato che necessitava un'interpretazione lievemente diversa. Ovvero: considerato l'enorme favore che vi ho fatto anni fa, è giunto il momento che io abbia una ricompensa. - Ti mostreremo un bel po' di cavalli non ancora domati, se è quello che vuoi. Ma io ti consiglierei un cavallo fatto, adulto e addestrato, magari già esperto nel lavoro. I puledri sono spesso irruenti, sono come i ragazzini, hanno voglia di divertirsi e sono molto meno affidabili, soprattutto se sono interi. - - Se dipendesse da me prenderei un castrone maturo, ma sapete come sono i giovani: irruenti appunto! Mio figlio Alphonse desidera un soggetto verde, da addestrare per conto suo insomma. - - Se reputi che sia in grado di farlo, non ho certo obiezioni. Basta che non si faccia male. I cavalli possono essere pericolosi, sono animali pesanti e non bisogna prenderli troppo alla leggera. Perdona il gioco di parole! - Mentre chiacchieravano, Norma aveva preparato il mate e ne stava assaggiando un goccio per prima. Come vuole la tradizione, il primo sorso spetta al “cebador”, cioè al padrone di casa che ha preparato l'infusione, anche perché è la parte più amara e potrebbe risultare eccessivamente forte per gli ospiti. Nelle campagne circostanti, esisteva il detto “il primo sorso è per il tonto”. Per lei si trattava di un vero e proprio rito, una celebrazione, un segno della sua perfetta integrazione nella cultura argentina. La bevanda, nella sua versione classica calda, veniva preparata con le foglie di yerba mate, una pianta sudamericana che Norma si faceva mandare dalla sorella che la coltivava in Paraguay, già essiccate; lei si prendeva poi cura di tagliarle e macinarle. Andava bevuta attraverso una cannuccia di metallo chiamata bombilla, il cui gambo terminava con una testa bombata e bucata da minuscoli fori che la filtravano, facendo passare la parte liquida e trattenendo quella solida. Con tutti i crismi, Norma la versava e la serviva nel mate. Per l'occasione ne aveva scelto uno in legno ma, da buona cultrice qual era, ne possedeva una varietà: d'argento, corno e cuoio. Amava questi contenitori, sapevano di storia, di condivisione, di armonia. Le piaceva pensare che in qualche angolo del paese, un gruppo di persone stesse celebrando lo stesso rito, col mate che passava di mano in mano tra racconti, risate, lavoro o svago. Il sapore doveva essere amaro, altrimenti significava che il mate non era di buona qualità. Nessun dettaglio era stato trascurato, perfino la zuccheriera era stata messa sul vassoio, anch'essa in legno, anche se la bevanda avrebbe dovuto essere gustata così com'era. La yerba mate era stata messa in una yerbera d'argento, con lavorazioni in rilievo raffiguranti tanti cavallini al galoppo sul bordo superiore. Anche la pava, cioè il bollitore che aveva usato per scaldare e versare l'acqua, e che ogni tanto veniva rimessa sul fuoco, era un oggetto ricercato: assomigliava a una teiera, ma il suo becco speciale era studiato per facilitare il versamento del liquido nel mate, che ogni tanto andava rabboccato. Il tutto era accompagnato da biscotti, pasticcini e frittelle fatte in casa. - Delizioso nonna, la qualità del tuo mate e di tutto ciò che lo circonda è sempre ineguagliabile. - - Concordo, Ivan - disse Esteban asciugandosi i baffi col tovagliolo. - Non sono un gran mangiatore di dolci solitamente, ma qui uno tira l'altro. Complimenti davvero. - Come l'ospite assaporò l'ultimo sorso di mate, Leandro lo sollecitò, dando un ulteriore morso a una frittella ancora tiepida: - Allora, vogliamo andare a vedere questi puledri? - - Sono qui per questo. Certo! - Indugiò con lo sguardo sui dolciumi e successivamente fece lo stesso sul viso disarmante della padrona di casa. - Grazie, per ora. Tutto davvero squisito. Non potevo sperare in un'accoglienza migliore. - - ¡De nada! Per così poco! - - Senti Esteban, pensavo che il modo migliore per guardare i puledri è da cavallo. Alcuni sono figli di fattrici selvagge, altri sono stati catturati da poco e non sono ancora abituati al contatto con le persone. Ma vedere un uomo a cavallo non li intimidisce. Credi di poter montare fin là? Ci vorrà mezz'ora. - - Si, anche se sono un po' fuori allenamento. - - Ah, è come andare in bici! Ti vorrei dare però un paio di chaparejos per non rovinare i pantaloni eleganti che hai addosso e per proteggere le gambe dalla vegetazione. - - Accetto l'offerta, grazie. - - Ivan, vai per favore a prendere i chaps e sella i cavalli, tu che sei giovane! Prepara Jarabe per Esteban, questa mattina l'ho fatto mettere nel box, perché l'abbiamo vaccinato e volevo lasciarlo un po' tranquillo. Da quando c'è Ramón non fanno altro che giocare a rincorrersi! Ma una passeggiatina fin là a trovare i suoi amici gli farà piacere e gli rimetterà in moto la circolazione. - Si rivolse a Esteban: - È un cavallo sicuro ed esperto. Ti sembrerà di essere in poltrona. - - È quel che ci vuole. Sono un po' arrugginito, sai, non monto da mesi. Solo lavoro, lavoro e ancora lavoro. - Nonostante la gentilezza sovrabbondante che lo contraddistingueva, Esteban continuava a essere una di quelle persone con cui Leandro non riusciva a sentirsi totalmente a proprio agio. Era come se indossasse sempre una sorta di maschera, che non permetteva al suo interlocutore di capirne le reali intenzioni, né il carattere. Non era mai stato un uomo completamente trasparente e questo creava una sorta di ansia a Leandro, che invece era un tipo diretto e cristallino. Ad ogni modo, si trattava solo di vendergli un cavallo a buon prezzo. O al limite addirittura di regalarglielo. Forse era quella la ricompensa che intimamente Esteban si aspettava da lui. Durante il tragitto, il rumore dei passi dei cavalli sembravano scandire i suoi pensieri, rendendoli sempre più chiari e lineari. Ogni scalpiccio sembrava riordinare qualche ragionamento. Tutto improvvisamente fu chiaro. Quell'uomo li aveva tolti da guai che avrebbero potuto diventare molto seri, se non addirittura trasformarsi in tragedia. Lui e Norma avevano ormai quasi rimosso quelle vicende, distratti da una vita serena e impegnata, ma certamente Esteban non aveva fatto altrettanto e voleva un suo ritorno, ora. Sì, sicuramente se non gli avesse concesso un cavallo in regalo avrebbe deluso le sue aspettative. Più avanzavano verso i paddock e più Leandro sentiva il peso di un debito di riconoscenza crescere dentro di lui come un macigno. Ora visualizzava da vicino la questione e, poiché era necessario risolverla con urgenza e una volta per tutte, capì che questa era l'occasione adatta per sdebitarsi, che non avrebbe avuto altre alternative, e decise di chiudere definitivamente quel vecchio capitolo. - Allora, come ti ho detto prima, io sono dell'idea che per un cavaliere giovane sia più adatto un cavallo vecchio... Non nel vero senso del termine, si intende, ma secondo me uno dei nostri cavalli di quattro anni, già domati e maturi, potrebbe regalare grandi soddisfazioni al tuo figliolo. Quel sauro che vedi laggiù per esempio è un soldato, addestratissimo, ubbidiente e robusto come un toro. Il baio là sulla destra invece è agile e scattante come una gazzella, pensa che l'altra settimana... - - Scusa Leandro - lo interruppe Esteban - sono certo che hai ragione, ma mio figlio compie diciannove anni e non vuole un cavallo fatto. Vuole farselo da solo. So che hai grande esperienza in materia e, se si romperà l'osso del collo, rimpiangerò di averlo voluto assecondare, ma sai com'è, io non ci sono mai e se posso accontentarlo almeno in questo, beh, desidero farlo. Gliel'ho promesso. - - Claro, claro... Allora tiriamo dritto ancora dieci minuti e arriveremo dai puledri. - - Ottimo. - Leandro provava un senso di pesantezza e nervosismo che sperava di riuscire a mascherare. Sentì un calore irradiarsi dal centro del petto verso le zone più periferiche del suo corpo, come se fosse vittima di un'eruzione vulcanica e non potesse evitare che la lava si diffondesse con innumerevoli rivoli verso valle. Era una sensazione spiacevole, il cuore come chiuso in una morsa, ma non ne capiva il motivo. Forse si trattava di qualche brutto presentimento che lui inconsciamente cercava di affogare in quel suo magma interiore, ma che a dispetto di tutto sentiva riaffiorare. Avrebbe voluto lanciare un urlo liberatorio. Invece si passò la lingua sulle labbra aride, asciugò la fronte imperlata di minuscole goccioline e fece finta di niente. Gli altri gauchos, impegnati nel lavoro e nella monta, non avevano fatto caso alla sua condizione. Arrivarono davanti al paddock dei puledri e subito una delle fattrici di casa, cresciuta e vissuta lì da anni, corse verso di loro con l'affabilità di un cane. - ¿Cómo te va, Angelina? - Ivan scese da cavallo e andò ad accarezzare il muso della cavalla. - Ecco, questa è una fattrice che ci ha dato prodotti magnifici e di buon carattere. Quello là con il collo massiccio, morello, è suo figlio. Promette bene perché il padre è uno stallone molto pregiato. Guarda che muscoli ha già. Che ne pensi? - - Bello, non si può negare - disse Esteban, privo di entusiasmo. - Quell'altro piccolo ha solo quattro mesi, è figlio di uno stallone arabo di linea egiziana. Ho tentato di ingentilire la morfologia con qualche incrocio, vedi che bel musetto camuso? E credo che, quando sarà il momento, darà sfoggio del suo sangue. Ha il fuoco dentro! Il padre era un cavallo da corsa molto forte. - In quel momento, due cavalli al galoppo sfrenato catturarono l'attenzione di tutti, lanciati com'erano in una sfida da togliere il fiato. Uno dei due, dopo aver indugiato in un testa a testa con il suo sfidante, decise di interrompere il gioco e di fare sul serio. I posteriori cominciarono a spingere come un motore incontenibile, la coda, portata alta come un vessillo, si tendeva sempre più orizzontalmente per effetto della velocità d'accelerazione, mentre il muso, proteso in avanti con le orecchie totalmente aderenti alla nuca, sembrava voler bucare l'aria dando uno smacco ai migliori designer di aerodinamica. - Quel cavallo in testa, quello dorato! - furono le sole parole che Esteban, totalmente rapito, riuscì a pronunciare. - Ma no, quello è un matto! - mentì Leandro, sperando che l'attenzione del suo acquirente si spostasse altrove. - Non ... non ho mai visto un cavallo galoppare così! Sembra un ghepardo! - - Lascia perdere, è uno scoordinato bastardo... - anche Ivan cercava di distogliere l'attenzione da Ramón. Sperava che svalutarlo agli occhi di un inesperto potesse servire. Il palomino era senza ombra di dubbio il miglior esemplare dell'estancia, ma quella era casa sua. Era lì che doveva restare. - Stai scherzando? Scoordinato? - - Bastardo più che altro. - - Mah... Non ho mai visto tanta perfezione in vita mia! - - Ma no, quello è soltanto un bellissimo ignorante. Il mantello attira, sì, ma sai come si dice: l'abito non fa il monaco! È quello che noi chiamiamo un angelo dalla faccia sporca! - Leandro non sapeva più quali carte giocare per dirottare gli sguardi altrove. - Ho un altro puledro davvero veloce, forte, meraviglioso, di diciotto mesi ... pronto per la doma. Quello fa al caso tuo! - - No, grazie. Non mi interessa vederlo - rispose Leandro deciso. - È lui che voglio. Quello è il cavallo speciale che avrà mio figlio! - Intanto Sierra li fissava con uno sguardo che sembrava parlare. I suoi occhi apparvero improvvisamente tristi. Si voltò con la testa bassa verso Ramón e li chiuse lentamente. Restò così, immobile. Riprese a muoversi poco dopo, vedendo che si avvicinavano ancora, per rivolgere il posteriore verso di loro. Ivan lanciò uno sguardo preoccupato verso il nonno. Non poteva dargliela vinta. Ramón era della famiglia. Era lui che avrebbe dovuto domarlo, lui che gli voleva bene. Il nonno interpretò bene quelle occhiate, ma aveva il viso sconfitto di chi non aveva più possibilità di scelta. Lo sguardo di Ivan immediatamente si incupì. Il nonno lo guardò e sentì i suoi stessi occhi diventare liquidi. Le parole gli morirono in bocca. Una doccia gelata spense improvvisamente tutte le venature incandescenti che l'avevano percorso poco prima. - Qual è il prezzo di quel puledro? - domandò Esteban con una freddezza schiacciante. - Ramón non ha prezzo - rispose secco Ivan. Il nonno cercò di mediare - Se è proprio lui che vuoi, lo avrai. Ma dovresti pensarci bene... - - L'ho fatto - - Allora - proclamò rassegnato Leandro - sarà il mio regalo, per tuo figlio. - - E sia! - Di colpo il registro di Leandro sembrava trasformato e i suoi modi gentili e logorroici parevano sostituiti dai toni decisi e indiscutibili di un uomo d'affari. - Quanto ha? - - Devi lasciar passare ancora qualche tempo prima di domarlo. Ha un corpo ben sviluppato, perché corre dal mattino alla sera, ma è ancora giovane. Vorrei tenerlo ancora qualche mese per permettergli di concludere la crescita qui, nel suo branco. - - Va bene in parte. Il compleanno di Alphonse è tra due mesi. In quell'occasione lo porterò a casa. Manderò qualcuno col trailer a prenderlo. - - Come vuoi - annuì Leandro avvilito. Si sentiva morire. Aveva praticamente promesso al nipote che quel cavallo sarebbe stato suo e ora, a causa di faccende che non lo riguardavano e da cui avrebbe voluto difenderlo, lo doveva ingiustamente privare di un puledro unico, rimangiandosi la parola data. Non era da lui. Ma questa volta non aveva altra scelta. Ivan era un ragazzo intelligente, aveva capito la situazione difficile del nonno. Non riuscì a proferir parola, ma gli diede un'amichevole pacca sulla spalla che significava: - Ti perdono nonno, posso capirti, tranquillo. - Risalì in groppa al suo destriero. Lo girò, indirizzandolo sulla via di casa, in preda a un nervosismo che cercava di reprimere con tutte le sue forze, ma che il cavallo percepì e manifestò partendo di scatto con una mezza impennata. Esteban, invece, oltremodo soddisfatto, restò indietro per poter buttare ancora qualche sguardo sul suo nuovo regalo. Leandro raggiunse Ivan a un galoppo sostenuto. Restarono comunque visibili al loro ospite per non essere scortesi. - Perdonami Ivan, se ci riesci. Mi dispiace tanto, credimi. - - Non è un problema nonno. Posso capire. Ti ho già perdonato. - - Sono io che non so se riuscirò a perdonarmi. Non so cosa dire. - - Non dire nulla. Sai che ti voglio bene comunque. - Serrò le labbra e tirò le redini guardandosi indietro per aspettare Esteban. Quando questo si congedò, un velo di silenzio avvolse tutta l'estancia. All'ora dell'imbrunire, il cielo non regalò lo spettacolo del tramonto, ma diventò presto scuro. Mentre l'auto bianca si allontanava sulla strada, risaltando come un gabbiano solitario nel cielo plumbeo, si mise a piovere. 6
Poiché si avvicinava il momento in cui Ramón sarebbe stato allontanato da sua madre, Leandro aveva cominciato a separarli, per periodi inizialmente brevi e poi più lunghi, in modo da rendere il futuro distacco definitivo meno traumatico. Dovevano entrambi abituarsi a una vita autonoma e priva di quel legame rassicurante. I due si erano prestati bene a questi esperimenti e, dopo un po' di tentativi, si erano dimostrati piuttosto sereni. Leandro aveva l'impressione che quei cavalli fossero dotati di un'intelligenza superiore rispetto alla media equina, si convinceva sempre più profondamente che avessero capito che si trattava soltanto di “prove” e che prima o dopo sarebbero stati riavvicinati. Forse si fiutavano nell'aria e accettavano di buon grado una distanza che offriva quanto meno un conforto olfattivo. Anche in questo frangente, Leandro, sempre affiancato dal nipote, aveva dimostrato una grande competenza e sensibilità nei confronti dei suoi cavalli. Se è vero che la civiltà di un popolo si misura dal modo in cui esso tratta i suoi animali, allora tutti, quadrupedi compresi, avrebbero potuto confermare che l'estancia era il microcosmo di una dimensione perfetta. Il tempo però è talvolta tiranno e sembra dilatarsi oltremodo quando vorremmo trascorresse velocemente o, al contrario, comprimersi quando vorremmo averne di più a disposizione. Il fatidico giorno arrivò inesorabile, fortunatamente in un momento in cui Ramón e Sierra erano fisicamente già separati. A rompere il silenzio surreale in cui era immersa l'estancia a quell'ora dell'alba, fu il latrare del cane. Il cielo era blu cobalto e all'orizzonte una linea arancione preannunciava la comparsa del sole. Il primo profumo del mattino, quello cioè dei cereali con cui veniva preparato il mangime dei cavalli, aveva già lasciato la sua scia, segno che la vita nella fattoria era cominciata. Quel profumo assumeva d'inverno una fragranza più dolce, perché la pietanza, composta da vari semi e fiocchi, veniva scaldata e offerta ai cavalli sotto forma di pastone. In quel caso era il mais a inebriare l'olfatto, liberando un aroma simile a quello dei popcorn, che avvolgeva tutta la proprietà facendola sembrare un'originale versione del paese dei balocchi. Più tardi l'aria sarebbe stata impregnata dal fieno, che veniva distribuito ai cavalli ricoverati nella scuderia. Da quel momento in avanti i sensi si sarebbero sintonizzati su di un altro canale, quello uditivo, e non si sarebbe sentito altro suono che quello prodotto dalla masticazione delle tante bocche. Ma quella mattina, il consueto andamento delle cose fu alterato: il silenzio fu rotto dal rumore di un mezzo, a sua volta fagocitato dai latrati del cane, il profumo del mangime venne contaminato da un insolito odore di olio dei freni e il colore del cielo bucato dalla luce abbagliante dei fari. Molti uomini, tra cui Ivan, Pedro e Ignacio erano già al lavoro, ma Leandro aveva ancora gli occhi pesanti e, sebbene avesse sentito un'agitazione insolita, sapeva di poter contare su validi aiuti. Si crogiolava tra le lenzuola sprofondando nel materasso, ignaro di quell'invasione dall'esterno e consapevole di essersi guadagnato, con gli anni, il diritto di poter indugiare al mattino accanto a sua moglie per tutto il tempo che desiderava. Non era un uomo pigro, pertanto il suo oziare non avrebbe mai oltrepassato un certo limite. Vide una luce insolita e, dopo essersi stropicciato gli occhi, realizzò che si trattava dei fari di un'auto. Sgusciò fuori dal letto con la velocità di una lepre, spostò la tenda con l'indice e si mise a osservare con un'espressione interrogativa e le sopracciglia aggrottate quel che accadeva di sotto. Un bellissimo fuoristrada Wolf Mercedes- Benz con un trailer sgangherato attaccato al gancio di traino stava parcheggiato a motore e luci accese sotto la sua finestra e Ignacio a cavallo sembrava dare delle direttive a due uomini, che ne erano probabilmente i proprietari. La mente ancora oscurata dal sonno lasciò improvvisamente spazio a una lucidità tanto immediata quanto scioccante: erano venuti a prendere Ramón. Un nodo gli strinse la gola e si sentì inerme, impotente spettatore del suo mondo, impalato dietro al tendone di un sipario che svelava una scena indesiderata. Non poteva fare più nulla, se non scendere, aiutare e dire addio per sempre al suo amato puledro. Un fruscio di lenzuola gli lasciò intuire che anche Norma si era svegliata. Leandro era ancora immobile con l'indice agganciato alla tenda quando si voltò lentamente e vide nella penombra la sagoma del corpo della moglie, messa su un fianco, con un gomito sotto la testa e i capelli scompigliati. - Cosa fai lì? - le parole di lei si fecero spazio tra uno sbadiglio. - Sono le sei di mattina. - - Non hai sentito il rumore di un motore? E il cane che abbaiava? - - Mmmh... Credevo di averlo sognato. - - No, tesoro mio. Sono venuti a prendere Ramón. - - Ramón? Ma non ti hanno nemmeno avvisato! - - No. - Cominciò a vestirsi. - Ma sapevo che sarebbe stato questo il periodo. - - Non è il modo però. - - No, non lo è. - Si infilò uno stivale. - Amen. Non ha più importanza ormai. - Calzò anche l'altro, la baciò sulla fronte e uscì. Quando scese trovò un cavallo già sellato, pronto per lui. Nulla si sarebbe mosso senza il suo consenso. - Buongiorno a tutti! - esordì, cercando di nascondere il malumore dietro a un sorriso tiratissimo. - Immagino siate qui per caricare il cavallo. Sei il figlio di Esteban? - chiese amichevolmente rivolgendosi al ragazzo più giovane. - No, señor. Siamo suoi aiutanti. Però ci ha mandati proprio lui, Alphonse, a ritirare il suo regalo di compleanno! - precisò quello alla guida, facendo un sorrisetto e scostandosi un po' il cappello dalla fronte. - Peccato, avrei voluto conoscerlo. Mi fa sempre piacere guardare in faccia gli uomini che monteranno i miei cavalli. - Poi sottovoce si rivolse a Ivan, che gli stava mettendo in mano le redini della sua cavalcatura: - Grazie per quello che avete fatto in mia assenza, non li avevo sentiti arrivare. - - Seguiteci, vi faremo fare la strada più agevole. - C'erano tutti, Pedro, Ivan, Ignazio e Leandro. Partirono al piccolo trotto, con calma, uno a fianco all'altro, formando un muro di muscoli davanti al fuoristrada. Non dissero una parola e restarono immersi nei propri pensieri. Dovettero fermarsi per lasciar passare Santiago sul suo arabo. Era il padre di Ivan, stava conducendo la cavalla madrina, quella cioè che rappresenta il fulcro del branco, verso il paddock a ovest, per lasciar riposare la vasta pampa che avevano occupato a lungo a est. Ad accompagnarlo c'era tutta la tropilla, un branco di una ventina di cavalli in libertà, tutti col mantello isabella, che seguiva la madrina. Quest'ultima, come detta la tradizione gaucha, aveva un mantello diverso e portava un collare con una campanella che serviva da richiamo per gli altri componenti del gruppo, chiamati anche fratelli. Passati tutti, proseguirono verso sud attraverso una sterrata lievemente in discesa. Era una zona molto selvaggia, la natura sembrava volesse riappropriarsi del terreno che le apparteneva e che l'uomo aveva alterato con il proprio intervento. I bordi della pista erano già stati divorati dalla pampa e i lunghi fili d'erba, come tentacoli, si protendevano verso il centro, pronti a riunirsi in un abbraccio finale che avrebbe cancellato completamente ogni traccia di strada. Il sole intanto era quasi interamente riemerso infuocando le nuvole all'orizzonte, che assumevano forme cangianti ambrate, dorate e vermiglie. Leandro si sentiva profondamente in armonia con quello scenario surreale: non più spettatore del mondo, ma protagonista di una sorta di discesa nell'inferno dantesco. Qualche idea diabolica cercò disperatamente di farsi spazio tra il suo buon senso. Avrebbe potuto prelevare un cavallo palomino dal branco che Santiago stava spostando e scambiarlo con Ramón, in fin dei conti Alphonse non l'aveva mai visto. Ma cosa sarebbe accaduto se Esteban se ne fosse accorto? Anche uno stolto lo avrebbe notato. Ramón era unico. E lui era un uomo d'onore e aveva una parola sola. No, non poteva fare una scorrettezza del genere, la sua etica morale non gliel'avrebbe permesso. - Eccoci arrivati! - gridò Ignacio voltandosi verso i ragazzi sul fuoristrada. - Parcheggio qui allora, c'è spazio sufficiente per aprire la pedana del trailer! - rispose quello alla guida del fuoristrada. - Bene! Vai, vai ancora indietro... okay stop! - concluse alzando il pollice in segno d'approvazione. Appena Ramón vide quel gruppetto lontano, si mise sull'attenti, con il collo teso e le orecchie puntate verso di loro, dilatò le narici per fiutarne l'odore, per poi risputarlo in un soffio sonoro. Le luci dell'aurora, posandosi sul pelo dorato, creavano infiniti riflessi metallizzati e un lapacho rosso porpora, non distante da lui, completava il quadro facendolo sembrare una tela incandescente. Ivan sapeva che, se avesse fischiato, sarebbe venuto di corsa verso di lui, ormai avevano instaurato un rapporto molto affettuoso. Quotidianamente, nell'ultimo mese, lo premiava con una carota ogni volta che ubbidiva al primo fischio. Lo accarezzava teneramente, gli infilava la cavezza in cuoio crudo di Jarabe, che forse Ramón accettava perché ne sentiva l'odore, e poi passeggiava su e giù per il prato, improvvisando qualche slalom per vedere quant'era bravo a seguirlo. Poteva lasciargli la lunghina sul collo e il suo pupillo lo tallonava come un'ombra. L'aveva preso come un gioco, anche se in realtà non si trattava soltanto di questo, ma dell'inizio di un ottimo addestramento. Questa volta, però, Ivan non avrebbe fischiato. Sarebbe stato come tradire un amico e non voleva che questo avvenisse per mano sua. Ramón si fece avanti, cauto ma ubbidiente, con la testa un po' inclinata. - Vattene - pensava Ivan, - non ti ho chiamato! Sembra che si stia chiedendo come mai non fischio... Sparisci bello, non farti prendere, non oggi! - Per fortuna nessuno poteva leggergli nel pensiero. - Ma guarda chi c'è qui! È più socievole, o sbaglio? - chiese Leandro. - Mmmh, più o meno. Credo sia soprattutto curioso - bluffò Ivan. Il palomino si lasciò subito accarezzare dal nonno, il quale, volendo rendere tutto il più veloce e indolore possibile, gl'infilò rapidamente la capezza prima che potesse cambiare idea o spaventarsi per qualche ragione e fuggire. Non chiese a Ivan di condurlo sul trailer, perché capiva benissimo quel che provava e non voleva infierire. - Pedro, pensaci tu! Vai deciso verso il trailer! - disse consegnandogli la lunghina con la fretta di chi sta passando il testimone e non vede l'ora che la sua squadra raggiunga il traguardo. - Sì capo! - rispose in tono falsamente allegro, nel tentativo di sdrammatizzare un'azione che lasciava a tutti l'amaro in bocca. Allargando la curva per far mettere il cavallo dritto verso la pedana, Ignacio passò davanti a Ivan, che lo fermò un istante. Accarezzò il suo Ramón sugli occhi con entrambe le mani mentre le lacrime gli ribollivano dentro. L'amico lo guardò, sopraffatto da una comune commozione. Quello splendore era capitato lì, a loro, come un dono del cielo o forse come ricompensa per il lavoro svolto per anni con passione. Dopo la cattura di Sierra si erano presi insieme cura di lei e poi del suo piccolo, poteva quindi capirlo perfettamente. - Non ti dimenticherò - pensò tra sé e sé, massaggiando dietro le orecchie Ramón, che restò immobile ad ascoltare i suoi pensieri. - Non indugiate troppo - consigliò Pedro, anche lui con la sua parte di nodo in gola. Odiava gli addii, lo facevano sentire fragile. Detestava dover deglutire le lacrime che lo inondavano dal profondo e gli facevano tornare in mente le parole di sua madre: - C'è qualcosa di terribilmente virile in un uomo che piange. - Anche se realizzava che in quell'affermazione c'era del vero, non poteva permettere che accadesse ora, davanti a quel pubblico e in quella circostanza. Pedro proseguì deciso verso la pedana ma, quando fu a un paio di metri da essa, Ramón inchiodò, fissandola con gli occhi terrorizzati e soffiando con le narici aperte come due cannoni pronti a sparare. Dopo averla annusata tirò indietro con la forza di un colosso, esibendosi in una rapidissima retromarcia, che strappò quasi via la lunghina dalle mani di Pedro. - Non ha mai visto un trailer! È comprensibile che sia spaventato - lo giustificò Pedro e, rigirandolo con calma, fece subito un altro tentativo. Questa volta Ramón si lasciò condurre più vicino, ma quando sembrava che stesse per posare il primo piede sulla pedana, improvvisò un'impennata a candela e, girando su un solo posteriore, atterrò nella direzione opposta rispetto a quella utile. Preoccupato cominciò a lanciare dei nitriti acuti verso la pampa e, nell'arco di breve tempo, ottenne il risultato sperato: richiamò l'attenzione dell'amico Jarabe, che si fermò a distanza di sicurezza a osservare le strane manovre. La sagoma di Jarabe appariva in lontananza come un bassorilievo intagliato sulla materia bronzea dell'aurora, a tratti attraversato da scosse sismiche provocate dai suoi stessi nitriti, che lo facevano vibrare tutto. Nonostante il concertino tenuto dai due, furono fatti molti altri tentativi, ma l'agilità di Ramón era incontenibile e non concedeva tregua. Cambiarono strategia, sperando di prenderlo per la gola, ma anche il secchio pieno di mele e carote lo lasciava del tutto indifferente: continuava a saltare a destra e sinistra della pedana, col rischio di ferirsi i garretti. Se le cose si mettevano in questo modo, diventava inutile combattere. Era necessario intervenire con l'intelligenza e l'esperienza, perché a livello fisico non esisteva confronto con l'uomo. Bisognava approfittare dell'ingenuità di Ramón che, in fin dei conti, era soltanto spaventato da quell'insolito trabiccolo. Abituato a vivere all'aperto, interpretava quella specie di scatola su ruote, come una trappola che non concedeva vie d'uscita. Pertanto, pretendere che un erbivoro, che per natura ha come unica difesa la fuga, si mettesse nella condizione di rendersi vulnerabile diventando preda sicura, era piuttosto illusorio. - Ho un'idea! Fermi tutti. Finché Jarabe starà là a chiamarlo, dubito che lui si lascerà convincere (...) -
Silvia Ferrero
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