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Autore: Annalisa Dell'Abate
La leggenda dei cuori di drago
Fantasy
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La leggenda dei cuori di drago
RE Gastor di Rocoba aveva due figlie, Giada di sei anni ed una neonata di appena pochi giorni che aveva preso il nome della madre, la regina Agata, morta dandola alla luce.
Il re osservava con occhi stanchi, dalla finestra del salone nord della sua imponente dimora, ciò che accadeva fuori. Là, dove un tempo gruppi di viandanti avevano esposto le loro merci, inscenato un qualche spettacolo per racimolare poche monete, dove la gente aveva passeggiato tra banchi di frutta, verdura, pesce, senza immaginare mai quale luogo testimone di tanta crudeltà, da lì a non molto, sarebbe diventato, tutto taceva, in un silenzio lugubre, quasi spettrale.
Era da poco calata la sera, la povera gente di Rocoba attendeva, nelle mura della fortezza, l'ultima decisiva battaglia, che avrebbe segnato il destino del regno: Una nuova vita o la fine. A nulla erano valsi i tentativi di resistenza, il nemico era troppo potente, invincibile, ma piuttosto che piegarsi ad un destino tanto crudele, ad un tiranno così ingiusto, la popolazione aveva deciso di combattere, fronteggiare l'incursore fino a che l'ultimo alito di vita avesse abbandonato quelle terre.
Re Gaspar di Nosna, il regno al confine nord già caduto nelle mani del nemico, era accorso per offrire sostegno, essendo anch'egli, colpito dalla guerra architettata da Kalb, il mago oscuro che progettava di impossessarsi di tutto il mondo, piano che il potente mago, con la conquista di Rocoba, avrebbe finalmente compiuto.
Rocoba e Nosna, i due reami più ricchi e fiorenti, erano l'ultima tappa nel suo cammino di distruzione e conquista.
“Non temete il peggio prima che esso sopraggiunga, maestà” osservò Zerdo, il Druido, con voce sommessa, scrutando il volto del sovrano e rompendo il silenzio.
“L'attesa è più straziante della battaglia... dobbiamo cercare di arrivare saldi allo scontro finale contro Kalb” proseguì re Gastor privo di espressione.
“Questa volta ne va del destino di tutto il regno. I suoi orchi, i troll e tutte le creature malvagie al suo servizio, non avranno pietà in alcun modo di noi. Lo affronterò di persona, Zerdo. Se devo morire, voglio farlo con l'orgoglio di aver cercato di sconfiggerlo, anche se sono consapevole del fatto che la sua potenza è nettamente superiore a quella di tutto il nostro esercito messo insieme”.
Il re tornò a scrutare fuori dalla finestra. Una donna stava stringendosi ad un uomo, tenendo una bambina tra le braccia. Forse salutava per l'ultima volta il marito, avrebbe difeso fino alla fine la bambina che stringeva al suo grembo, fino a che gli orchi non avessero lacerato le loro membra, si fossero cibati delle loro carni. Non poteva sopportare quel pensiero. Tante vite quella notte si sarebbero spezzate e non avrebbe potuto farci niente, anche lui sarebbe morto, anche le sue figlie...
“Maestà,” esordì Zerdo quasi imbarazzato per ciò che stava per pronunciare “forse c'è un modo per fermare tutto questo...”
“Spiegati Zerdo!” esclamò il re, riducendo gli occhi a due strettissime fessure e analizzando la lunga figura del Druido.
“Guardate...”
Zerdo vuotò un sacchetto di cuoio sul tavolo da tè al centro della sala. Il re si allontanò dalla finestra ed allungò il collo per osservarne il contenuto. Sul vetro risuonò il rotolare di quattro pietre preziose, rubini grandi quanto grosse ciliege.
“Non ho tempo per queste sciocchezze, dovresti saperlo! Kalb non si farà corrompere con quattro pietre preziose!” tuonò adirato verso il Druido.
“No sire, per queste pietre dovrete concedermi il vostro tempo. Non sono comuni rubini, sono “I RUBINI” quelli della leggenda...”
“I Rubini magici donati dai draghi a re Artimedo, cinquecento anni fa? Non è possibile!” blaterò il re confuso “Quelle pietre sono scompare da tre secoli, perché il cuore degli uomini era troppo colmo di rabbia e odio. Non sarebbero mai più ricomparse, a meno che non fosse nato l'erede, uno dei discendenti di stirpe umana, colui il cui cuore è puro e degno di portare il più potente dei Rubini con sé... io non ho e non avrò alcun erede!”
A queste parole lo sguardo di re Gastor si rabbuiò. La ferita per la morte della sua amata regina non si era ancora rimarginata.
“L'erede è nato...” prese a dire Zerdo quasi in un sussurro “solo pochi giorni fa. Esattamente nello stesso momento in cui io ho trovato i Rubini, giù al paese delle cave di Gesesvud, durante il viaggio di reclutamento uomini per questa battaglia.”
“Agata...?” chiese il re sconcertato “Agata è nata quel giorno! Non può essere lei! Non dovrebbe nemmeno diventare regina!” questa ultima frase suonò più come una supplica.
“Anch'io ho trascorso un'intera settimana a osservare i Rubini, avevo paura di aver preso un abbaglio, ma quando li ho avvicinati alla neonata, essi hanno sprigionato una potenza tale da rendere incomprensibile solo al più sciocco la risposta a quel quesito. Agata, la principessa Agata è l'erede, colei che porterà la pace a Rocoba e la corona del suo regno”.
“Un momento Zerdo! Tu vuoi dire che dovrei sacrificare mia figlia?”
“È possibile sire, potrebbe essere troppo giovane per sostenere la potenza, anche di uno solo dei Rubini. Ma ho guardato nel futuro della principessa: il suo destino è vincere per la pace del mondo!”
“Cosa vuol dire?” chiese il re, confuso.
“Non lo so sire, gli spiriti mi hanno suggerito solo queste poche parole, dicendo di confidare...”
“Non posso mettere in pericolo mia figlia...” il re chinò il capo sconfitto e si mise a sedere su di una poltrona “non posso farlo Zerdo.”
Il Druido esitò per qualche istante, osservando il volto amareggiato del sovrano, dalla cui espressione traspariva solo tacita rassegnazione alla fine. Tante guerre erano state superate, molte volte il monarca aveva condotto il suo popolo alla vittoria, conservando l'aria orgogliosa, non perdendo mai la speranza, anche nei momenti di grande sconforto, ma questa volta nulla nel suo volto rammentava il vigore passato.
“Forse c'è un modo per evitare il sacrificio della piccola.” Esitò il Druido, quasi con timidezza.
“Quale?” il re non riusciva nemmeno a raccogliere il fiato sufficiente per parlare. Era stanco, scoraggiato.
“Potreste provare voi a usare il primo Rubino. Il secondo che sarà dell'erede al trono di Nosna potrebbe essere usato da re Gaspar e gli altri due dai cavalieri Argos e Czamel.”
“Funzionerebbe?”
“Sì, ma vi costerebbe la vita.”
Il re levò lo sguardo verso il dipinto che raffigurava la regina sua moglie, come per chiederle consiglio. Il volto della donna, sottile, dai lineamenti morbidi, l'espressione soave, sembrava sorridergli, offendo sostegno ed incoraggiamento per quella tanto amara decisione. La chioma fulva della donna, apparve fiammeggiare per un impercettibile istante. L'illuminazione giunse da quegli occhi dipinti, ma stranamente vividi e quasi reali, che tanto ancora sembravano torcere il cuore del re in una morsa dolorosa, che lo attanagliava.
Re Gastor si alzò in piedi con addosso, nuovamente, la fiducia e l'ardore di un tempo.
“Lo farò Zerdo! Manda a chiamare i due cavalieri e re Gaspar. Questa notte vincerà la giustizia!”
Zerdo stava per andare, ma il re lo bloccò dicendo “Un momento Zerdo, chi saranno, oltre ad Agata gli altri tre prescelti?”
“Oris di Nosna, il bambino che porta in grembo la regina del sovrano Gastor, è il Prescelto per il secondo Rubino, quindi sarebbe giusto che diventasse lo sposo di vostra figlia Agata. Gli altri due sono bambini qualche mese più grandi di lei: Mical, figlio di Rastor, del Pese delle Cave di Gesesvud e Sevio, figlio di Pegnos, del Villaggio di Asmiored. Sarebbe opportuno diventassero i cavalieri personali della principessa”
“Voglio che i due bambini vengano portati qui subito dopo la fine della guerra e cresciuti alla Reggia. Devono amare la loro futura regina come una sorella ed essere addestrati a proteggerla sempre e per il meglio. Sarai tu ad educarli come combattenti.”
“Come desiderate sire!” rispose il Druido chinando il capo.
“Per quanto riguarda il principe, ne parlerò con re Gastor appena sarà qui. Adesso va Zerdo, il tempo stringe.”
Ciò detto, il Druido si congedò, lasciando il re da solo, nuovamente immerso nei suoi pensieri, ad osservare, per l'ultima volta, il suo regno da quelle finestre, conscio del fatto che il suo sacrificio avrebbe donato il futuro alle sue due figlie e al suo popolo. Poi osservò ancora una volta il ritratto della regina che dall'alto della sua bellezza appariva sempre più reale, più tangibile.
“Sta notte il mio spirito si ricongiungerà al tuo, mia amata” sorrise osservandola.
Sul volto del re si allargo un sorriso, anche se una lacrima piano solcò il viso stanco e angosciato. Nessuno là fuori avrebbe potuto immaginare che il re piangeva in quell'istante, nessuno avrebbe mai pensato che il sovrano stava per dare la vita per la salvezza di tutti. In lontananza risonava l'avanzare lento delle armate di Kalb, ma questa sarebbe stata l'ultima battaglia. L'alba sarebbe tornata ad illuminare un nuovo giorno, migliore di quello che stava per concludersi, una nuova era, e non importava che lui, il re, a quell'alba non avrebbe potuto assistere. Il raggio di sole che avrebbe squarciato il cielo l'indomani, avrebbe portato sé un po' del suo spirito.

La verità

Erano trascorsi quasi diciotto anni da quella notte, che era costata la vita ai due sovrani e ai cavalieri. La pace era tornata, i villaggi ricostruiti, la gente dimentica dell'antico dolore, del quale era solo rimasto il racconto del leggendario sacrificio dei re per la conquista della pace. Miriadi di storie si erano avvicendate negli anni, ognuna colma di avvenimenti straordinari, ma la presenza dei due impavidi re e degli altrettanto impavidi cavalieri, era per tutti la storia più straordinaria che potesse essere udita. Nonostante il lungo tempo trascorso, i cantastorie continuavano ad intrattenere il popolo narrando la “Notte della Grande Battaglia” e catturando l'attenzione di chiunque fosse in grado di ascoltare.
Agata era diventata una donna, educata per essere la nuova sovrana di Rocoba, i cui unici affetti erano rimasti quelli di Zerdo, il Druido consigliere fidato di suo padre, Lemmec, maga di corte e sua educatrice, dei suoi cavalieri personali, Mical del Paese delle Cave di Geselvud, e Sevio del Villaggio di Asmiored, e di Semira, sua nutrice. Giada, la sorella maggiore della principessa, era venuta a mancare sei mesi dopo la fine della guerra, per una febbre che le era costata la vita. La futura regina era sola ad attendere l'incoronazione, che sarebbe avvenuta dopo il matrimonio con Oris, principe di Nosna, figlio di re Gaspar.
Da quanto potesse ricordare, Agata aveva sempre sentito parlare del suo futuro sposo, senza però averlo mai incontrato. Per quanto si fosse da sempre rassegnata al fatto di dover andare in moglie ad un uomo che nemmeno conosceva, la principessa non poteva che sentire, ogni giorno che passava, il peso di questo matrimonio celebrato con qualcuno che non amava e nemmeno conosceva. Era cosciente del fatto che la maggior parte dei sovrani celebrasse le unioni coniugali più per scopi politici che per amore, ma sapeva anche che suo padre e sua madre avevano stravolto ogni teoria a riguardo. Seppure promessi alla nascita, i due avevano vissuto legati da un profondo sentimento, di cui spesso Agata aveva sentito parlare. Era forse questa meravigliosa favola d'amore che la rendeva così poco entusiasta della sua futura unione. Si chiedeva perché mai, anche lei, non potesse avere il diritto di amare colui che le sarebbe rimasto al fianco per tutta la vita.
Fin da quando aveva circa dieci anni, era sempre stata innamorata del cavalier Sevio. Avevano la stessa età ed erano cresciuti insieme nella Reggia, lei educata come sovrana, lui come suo protettore, insieme a Mical, anch'egli loro coetaneo. Nonostante la loro differenza di rango, i tre bambini avevano condiviso quasi tutto, erano legati da sentimenti profondi, scissi dal dovere. Non c'era momento nella loro memoria che non riconducesse, in qualche modo, a quella vita vissuta costantemente in simbiosi. Era stata appunto questo legame a fare in modo che la principessa iniziasse a considerare, quello che era il suo cavaliere personale, come l'incarnazione della persona che avrebbe desiderato accanto per il resto dei suoi giorni.

Annalisa Dell'Abate

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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