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Autore: Mario Francesco Gastoldi
Il profumo dei papaveri
Romanzo
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Il profumo dei papaveri
Settembre 2019, Milano
Il ticchettio della pioggia tamburellava sul vetro del lucernario sopra il piccolo palco in legno di quercia, e quel rumore martellante, quasi impercettibile, lo violentava nella testa a ritmo costante. Lorenzo Corti, appoggiato in modo scomposto al piano, aveva appena buttato giù – svogliatamente – una pastiglia di analgesico con un mezzo bicchiere di bourbon ma l'effetto sperato si faceva attendere. Dava pigramente qualche occhiata ai suoi due compari di palco, intenti a sistemare gli strumenti per la serata, come fossero belle donne da accudire. Il locale era pieno quella sera e la cosa era alquanto bizzarra in quanto le ultime loro performance in quel club erano state pessime, al limite del dilettantesco. La presenza di un pubblico numeroso era comunque sempre piacevole e dava al piccolo ego dei tre musicisti una dose di adrenalina ben accetta. Ed era ancora più piacevole che Luca, il titolare del Club Ellington, uno dei più famosi jazz bar della città, volesse ascoltarli ancora e ancora e ancora Il loro trio era una delle più quotate jazz band della penisola ma negli ultimi anni avevano perso quell'energia che li aveva accompagnati fin dalle prime performance, quando si esibivano per pochi spiccioli nei piccoli locali di paese. Chilometri macinati su quel vecchio furgone Volkswagen anni Settanta, per tutto lo stivale, in lungo e in largo, con un entusiasmo che ormai era evaporato come fumo di sigaretta. Vuoi forse che Gianni e Paolo, i compagni di note di Lorenzo, avevano raggiunto quell'età dove era più eccitante una cena davanti al caminetto con moglie e marmocchi scalpitanti piuttosto che una session di musica no stop fino alle due di notte. E forse anche lui aveva perso lo smalto di un tempo e la voglia di creare musica era invecchiata come lui, male. A quarantasei anni compiuti aveva passato gli ultimi trentatré con le mani appoggiate sui tasti bianchi e neri. E pensare che odiava sua madre, quando di peso lo prendeva e lo portava a lezione dalla Lombardi, la sua prima e unica maestra di pianoforte. - Forza muoviti, Lorenzo, e non fare tante storie... un giorno mi ringrazierai! - gli ripeteva tutte le volte che doveva accompagnarlo. Fanculo stronza, pensava tra sé odiando la madre, come se fosse la moda del momento. Sì, perché a tredici anni suonare il piano era da sfigati, ma a venti era cool, molto cool, anche perché il jazz era considerato come il nuovo punk, se suonato da ragazzini poco più che maggiorenni. Si trovò subito in sintonia con Gianni e Paolo. Li conobbe nelle aule della Statale di Milano, al suo primo anno di università, ed erano entrambi amanti della buona musica. È risaputo che per suonare il jazz, devi amarla tutta la buona musica, ti deve scorrere nelle vene, ti deve mancare il respiro in sua assenza, come quando fai partire il tuo vecchio giradischi con un nuovo album appena acquistato. Deve diventare la tua unica ragione di vita. Nelle facoltà di Storia e Letteratura c'era un via vai di personaggi a dir poco pittoreschi: alla metà degli anni Novanta potevi trovare di tutto, dai punk ai metallari, dai secchioni con occhiali a fondo di bottiglia, ai bohémien con aria da poeti maledetti, ma che in fin dei conti erano solo dei fancazzisti ben vestiti. Ma Gianni e Paolo erano diversi e Lorenzo lo capì subito, guardandoli negli occhi. Gianni suonava il basso in una cover band dei Police e, dopo una serata al pub tra una birra e una vodka, decise di passare al contrabbasso. La sua scelta forse fu motivata dall'alto tasso alcolico che aveva in corpo o forse perché Lorenzo fu davvero convincente. Non è scontato che un bassista sappia suonare il contrabbasso ma in lui c'era quella scintilla che si poteva trovare solamente nei grandi musicisti. Si fece prestare quell'ingombrante e imponente strumento da una sua zia, ex componente di una big band blues, e iniziò a strimpellare brani di Nat King Cole e Frank Sinatra imparandone a memoria tutte le linee melodiche e ritmiche.
Di carattere esuberante, era sempre alla ricerca di nuovi stimoli e Lorenzo, in quel momento, gliene die de uno, e anche bello grosso. Paolo invece era un batterista autodidatta, amante di James Brown e Aretha Franklin. Cresciuto in scuole private gestite da fanatici religiosi, arrivò alla Statale dopo un periodo di guerra familiare, una crociata moderna dove ovviamente lui era l'infedele. I genitori di Paolo, infatti, avevano in programma per lui un percorso universitario in un istituto privato cattolico ma lui, che aveva già avuto una mistica folgorazione musicale, si ritrovava a vivere quei precisi momenti in cui un ragazzo di vent'anni va contro tutto e tutti. Li seguì subito, a occhi chiusi, appena gli accennarono del loro progetto di formare un nuovo e moderno trio jazz in un momento musicale dove il Brit pop e la musica hard rock la facevano da padrone. I primi tempi furono bellissimi, sperimentali, al limite del surreale. Il nome della band venne quasi per caso in onore del vecchio Glen Miller: In the mood jazz band, un po' lungo ma d'effetto. Affittarono un vecchio garage alle porte di Lambrate dove passavano gran parte delle giornate tra prove e sedute alcoliche. Forse è da lì, in quei giorni balordi, che la passione per i vecchi spiriti si impadronì di Lorenzo, ma la musica non dava tregua ai loro sogni. Le idee nascevano a fiumi, le note prendevano forma nelle misure più assurde, ed entravano in circolo, contorcendo i loro corpi con uno swing in quattro quarti. I tre erano consapevoli di creare qualcosa di unico, che andava al di là del jazz, del blues o di qualsiasi altro genere preconfezionato. Iniziarono i concerti nei luoghi e nei bar più disparati della città: alla fine degli anni Novanta bettole, piazze, sagre, erano un palco dove esibire le loro smanie da jazz-star. Poi, la svolta che tutti i musicisti aspettano li colpì al volto come un treno merci una sera di ottobre del 1998. Stavano partecipando a un concorso per nuovi talenti in un locale chiamato Jimmy's club, in zona Cinque Giornate. Il locale era stupendo e anche se avrebbero suonato solo venti minuti, sapevano che quel palco gli sarebbe entrato nell'anima. Dopo l'esibizione, che andò alla grande, un tizio si avvicinò a loro e tra un complimento e l'altro gli propose di collaborare per un progetto che, a suo dire, sarebbe andato fortissimo. A venticinque anni si ritrovarono, così, con in tasca un contratto discografico con la Blu Star, una delle più autorevoli etichette di musica jazz e blues del Paese. Con la Blu Star pubblicarono, in vent'anni, otto album e diverse partecipazioni in raccolte e, cosa più importante, la casa discografica diede loro la possibilità di esibirsi in grossi festival jazz e in locali di prestigio. Ma, si sa, il jazz non è musica per le masse, e questo fu penalizzante e demotivante, soprattutto nel corso degli anni. I guadagni al limite del modesto e il seguito sempre minore li fecero sprofondare, a poco a poco, sotto una coperta di polverosa routine che purtroppo non riscaldava più come prima.
E oggi, la In the mood jazz band è ancora qui, sul palco dell'Ellington, di nuovo insieme, ancora insieme dopo più di venticinque anni di onorato servizio musicale! Voi seduti ai tavolini che vi stordite di alcol e belle donne, non capite un cazzo di musica, non capite un cazzo di jazz. Siete qui perché potrete domani raccontare ai vostri colleghi ritardati, quanto siete fighi e quanto siete cool, perché ascoltate del buon jazz, dell'ottimo jazz. Io sono qui, al contrario di voi, per dimenticare la mia patetica vita. Solo con la musica riesco ad andare avanti, ad accendere una piccola fiamma nella mia stanza buia, annerita dai ricordi. E allora, forza. Suoniamo, cazzo!
Lorenzo appoggiò il bicchiere di bourbon sul pianoforte e lesse disapprovazione sul volto di Luca, che era dietro la tenda del retropalco. Odiava quando qualcuno appoggiava una qualsiasi cosa sopra il suo Steinbach. E Lorenzo lo faceva apposta, sempre. Accennando un mezzo sorriso da presa per il culo, gli lanciò un'occhiata provocatoria che non dava possibilità di replica e bevve un altro sorso di bourbon. Le luci in sala si spensero, ma rimasero accese – oltre i fari sul palco – delle lucine blu sopra ogni tavolo del club. Erano delle piccole finte candele in plastica appoggiate sopra un disco di metallo argentato proprio al centro di ogni tavolino, ed emanavano una fioca luce cobalto che donava alla stanza un'atmosfera onirica. Si girò verso il pubblico, coprendosi leggermente gli occhi con la mano per evitare che un fascio di luce lo accecasse, e cercò di cogliere il volto e le espressioni dei presenti. Lo faceva sempre prima di iniziare un concerto, voleva essere sicuro di avere l'attenzione del suo pubblico, come in una sorta di complicità tra vittime e carnefice. Si soffermò per qualche secondo a fissare un uomo seduto in ultima fila sulla destra, al tavolino vicino alla parete di mattoni newyorkesi, che era la cosa che adorava di più di quel locale. Aveva una fisionomia familiare ma al buio faceva fatica a inquadrarne con precisione il viso. Poi, distrattamente, cacciò quei pensieri. Non può essere lui, non può essere il Crucco.

Mario Francesco Gastoldi

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