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Autore: Simona Blasutig e Daniele Ossola
Rubli e Lire, corruzione senza confini
Storico
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Rubli e Lire, corruzione senza confini
Dieci anni dopo (‘72).

Trascorro la prima sera con Nataša in uno di questi komunalny kvartíry, in un appartamento comune, tra piatti di storione affumicato, pane nero, cetrioli, boršš, caviale rosso di salmone, vodka, parole e lacrime.
È il primo incontro con il senso di oppressione fisica e morale generato da quell'unica stanza dove tutta una famiglia deve dormire, litigare, far l'amore, allevare i figli, intrattenere gli ospiti, invecchiare, morire.
La cucina, il luogo nevralgico della casa dove le donne, sempre e solo loro, vanno quotidianamente a compiere miracoli gastronomici, è uno dei campi di battaglia principali.
Nella cucina, che nei vecchi appartamenti del centro è fortunatamente spesso grande, le famiglie sistemano i loro tavoli creando una collezione surrealistica di tavolini alti, bassi, rettangolari, quadrati, ovali.
Mai pieghevoli, mi avevano riferito, perché in guerra chi ripiega è fregato e non riconquisterà mai più il territorio perduto.
Purtroppo la cucina a gas è per forza unica, dunque in comune, e il numero di fornelli è sempre inferiore al numero delle famiglie che li vogliono usare.
Chi stabilisce i turni nelle ore di punta, quelle di cena? È la spietata legge della giungla, quella di chi urla più forte, di chi fa più paura.
Bere e piangere, piangere e bere.
C'è uno straordinario calore umano e fisico in queste stanze dove il piccolo Vladja dorme sul divano, la nonna Katja sonnecchia su una sedia accanto al frigorifero, la madre di famiglia si sbraccia come una dea indù dai mille tentacoli per passare i piatti del pane nero e del burro, il cane annusa e mordicchia le scarpe di tutti sotto il tavolo, gli uomini discutono, con la tranciante autorità degli ubriachi.
Igor, essendo un marmocchio magro con in testa la pilotka, la bustina dei militari, corre fra le gambe e le sottane delle vecchie, irritandole.
“Io stavo meglio prima.” Interloquisce una di loro.
“Stai zitta, vecchia scema,” la rimbecca una grassa donna sformata, avidamente abbracciata a un orso di peluche grande e spelacchiato quanto lei “eri povera anche prima, vecchia mucca, ma allora non lo sapevi.”
Erano poveri anche prima, ma non lo sapevano... Quanta ragione aveva la donnona con l'orso di peluche in braccio.
I poveri del socialismo avevano un enorme vantaggio sui poveri della nuova Russia: vivevano fra altri poveri e non si accorgevano della propria condizione.
Oggi devono vivere tra qualche ricco, ed è più duro essere povero tra i ricchi.
La mia elementare conoscenza della lingua mi fa comunque capire, anche con la traduzione simultanea di Nataša, i vari pettegolezzi soprattutto quello raccontato da Irina, la sorella di Nataša, che mi fa sorridere anche se con un retrogusto amaro.
“Nella casa dove abitava il mio amico saldatore alle Officine Putilov,” esordisce Irina “bisognava chiedere alla signora la lampadina per andare al gabinetto e avvitarla nel suo ricettacolo sopra la tazza.”
“Non dirla grossa!” La interrompo con un sorriso.
“La ragione era semplice,” prosegue Irina “perché nessuna delle quattro famiglie che si dividevano quel gabinetto unico si fidava delle altre e ciascuna difendeva gelosamente la propria lampadina dalla possibilità di furto, essendo le lampadine, come tu ben sai,” rivolgendosi a me “un prodotto rarissimo nei negozi di Mosca.”
La parola “vicino” assume quindi una connotazione sinistra, odiosa nella Russia della coabitazione.
Quel rubinetto unico per tutti, quelle lampadine gelosamente avvitate e svitate ogni volta che si deve far pipì e altro, quella pentola grossa per cuocere il cavolo che ingombra un fornello e occupa una fetta di spazio al fuoco accanto, sono fonti di continui attriti, che si espandono in liti, che dilagano in odi furiosi.
“Sarà un sistema duro, sarà un apparato misero, come dici tu, ma almeno qui sono tutti uguali.” Ribadisce Nataša.
E ascolto storie.
Una di queste, che mi hanno assicurato essere vera in quanto accaduta solo tre anni prima, mi colpisce profondamente perché riguarda Olga che amava Vladimir, ma Vladimir amava Oksana.
La storia comincia cosi, come un romanzetto d'amore, come il solito scontatissimo triangolo.
Olga era la compagna di Vladimir e i due progettavano un giorno di sposarsi, non appena avessero trovato un appartamento, un lavoro decente, le cose di sempre. Purtroppo Olga rimase incinta senza volerlo, anzi, senza neppure saperlo.
Poiché nessuno le aveva mai detto nulla del sesso, né in casa, né le amiche, né tanto meno a scuola, Olga cominciò a sospettare qualcosa soltanto quando arrivò al settimo mese di gravidanza.
Quando lo disse a Vladimir, questi la prese malissimo. Dopo avere urlato e sbraitato contro quella cretina di Olga, come se le donne restassero incinte da sole, Vladimir cominciò a picchiarla. E se le torture fisiche non fossero bastate, le rivelò che da molti mesi si era trovato un'amante, Oksana, ed era lei, non quella “stupida mucca” di Olga, che lui amava davvero.
Olga scappò da casa.
Tornò dal padre e dalla madre, i quali, scoperta la gravidanza, la rispedirono subito da Vladimir, che la riaccolse a botte.
Pochi giorni dopo Olga partorì in casa, con l'aiuto di una vecchia levatrice di paese che si prestava a far nascere ogni mammifero in quel villaggio, si trattasse di un cavallo o di un essere umano.
Miracolosamente, viste le circostanze, il bambino nacque sano e la madre sopravvisse al parto. Almeno per qualche giorno. Una settimana dopo la nascita, Olga infagottò il suo bambino, una femmina, in fasce strettissime.
Uscì da casa, s'incamminò lungo l'unica strada asfaltata, aspettò che arrivasse uno dei camion che trasportavano tubi di acciaio alla fonderia e si buttò sotto, lei e il bambino.
Morirono entrambi sul colpo, abbracciati.
Una tragedia umana, con un particolare inquietante: tutti e tre i protagonisti del tragico “triangolo” erano ragazzi sotto i quattordici anni.
La cosa aberrante che mi colpisce di questa storia sono la morale, le reazioni e i commenti riportati dagli astanti, quasi tutti contro la povera Olga, la madre suicida.
Aveva avuto quel che si meritava, commentano.
Se avesse tenuto le gambe accavallate e fosse rimasta vergine, nulla sarebbe accaduto.
Il falso pudore ufficiale, spesso accompagnato al libertinaggio privato, è una caratteristica classica di tutte le società contadine e fortemente dominate dalla tradizione giudaico-cristiana.
Mi fa subito ricordare l'enfasi data all'attività sportiva dal regime paragonata ai consigli di Don Tarcisio e di Suor Giustina che, quando frequentavo l'oratorio, esaltavano lo sport come calmante naturale alle pulsioni sessuali degli adolescenti.
A volte l'URSS sembra davvero un colossale oratorio di quasi trecento milioni di parrocchiani.
Tutto questo avviene mentre i cappotti bagnati, accatastati per terra, fumano nel caldo dell'unico e rumorosissimo termosifone, incapace di fare altro che produrre temperature d'altoforno o di rompersi.
È tutto molto tenero, molto umano, molto assurdo e molto russo in questa casa-stanza di forse trenta metri quadrati.
L'ironia suprema della coabitazione, fra il blocco quasi completo dell'edilizia pubblica e la scarsità, oltre che la costosità di quella privata, il vivere gomito a gomito, muro a muro, di tanti milioni di russi non rappresenta affatto un fallimento, un errore.
Paradossalmente è la realizzazione involontaria e grottesca di un progetto fondamentale della rivoluzione del 1917: una vita in comune, riscattata dall'individualismo abitativo imposto dai piccoli borghesi.
Anatolij Lunaöarskij, leggendario commissario del popolo all'educazione negli anni venti, uno dei cervelli del potere e ancora oggi sepolto nelle mura del Cremlino, teorizzava nel 1922: “Obiettivo principale della rivoluzione è rendere fratelli tutti gli uomini.”
Per arrivarci, secondo lui, nessuno strumento era più diretto e importante se non quello di “erigere grandi edifici per la vita collettiva dove la cucina, la sala da pranzo, la lavanderia, il nido d'infanzia, la sala di ricreazione, costruiti secondo i metodi più moderni e scientifici, con acqua corrente ed elettricità, servano tutti i residenti del palazzo che vivranno la loro vita anche in camere private.”
Non c'era nulla di particolarmente originale, ma la differenza è che Lenin e poi il primo Stalin tentarono di metterla in pratica sulla consueta scala gigantesca di tutte le imprese dello Stato sovietico.
Alcuni edifici modello furono effettivamente costruiti prendendo forma in ciclopiche case-formicaio a Mosca, dove la tragedia di un'utopia divenuta tirannide è ancora visibile nelle microscopiche stanzette-cella destinate al sonno e al cambio degli abiti e a null'altro, visto che ogni altra attività umana, dall'allevare i figli sino al gioco, dalla ricreazione alla lettura, deve essere condotta in comune.
Si rivelò impossibile per lo Stato cucinare e distribuire i milioni di pasti caldi destinati alle mense delle case proletarie, gestire i servizi di lavanderia, assicurare la circolazione del materiale di lettura, fornire le attrezzature sportive per milioni e milioni di palazzi.
Già lo Stato sovietico aveva i suoi problemi a occuparsi delle scuole e delle palestre normali, figuriamoci se l'inquilino di ogni edificio fosse dovuto dipendere dalla burocrazia pubblica per lavarsi le camicie e ricevere la minestra due volte al giorno.
Un'altra causa meno ovvia della coabitazione è il desiderio di abitare in centro, o nelle zone meglio servite di Mosca.
Piuttosto che traslocare in palazzi nuovi ma all'estrema periferia, dove i negozi sono rari e ancora più spogli, le strade non asfaltate, sterrate e perennemente fangose o ghiacciate, i servizi di trasporto pubblici imprevedibili e inaffidabili, centinaia di migliaia di persone preferiscono restare accatastate nei vecchi palazzi del centro a darsi di gomito con i coabitanti.
Ancora una volta, dopo aver abbracciato Nataša e Irina, m'incammino con un groppo in gola e lo stomaco in subbuglio non tanto per l'abbondante dose di cipolle e cetrioli ingeriti ma per il tipo di società, da me tanto sognata, che si è frantumata davanti ai miei occhi.

Simona Blasutig e Daniele Ossola

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