(Volumi 1 e 2).
San Juan.
Entrare nella chiesa di San Juan è un'esperienza di vita, è uno scioccante contatto con una religione che somiglia alla nostra, ma che dalla nostra differisce alquanto. Il pavimento della chiesa è disseminato di aghi di pino che purificano l'ambiente. I fedeli, soprattutto anziani, inginocchiati davanti all'effigie di un San Giovanni vestito con pelle di montone, recitano le loro preghiere, sussurrandole di fronte a una moltitudine di ceri accesi. Nella chiesa c'è qualcosa che stona, ma cos'è? Forse sono le bottiglie di vetro di pepsi cola, perché ruttare libera il male che è dentro l'uomo, sono questi i simboli che non siamo abituati a vedere in un ambiente religioso. Ma non è solo la pepsi, qualcuno tiene in braccio un pollo, gli tira il collo, cerca il sacrificio facendo agonizzare lentamente la bestia e trasferendo il proprio male in essa. Non ci sono preti, c'è un collettivo di gente che amministra il culto a proprio modo. Odori e rituali, incenso ed erba, preghiere e bevute, effigi e statuette, cera e animali, croci e dipinti. L'invocazione del credente, poco più di un bisbiglio, diventa una litania che entra nel cervello e trasferisce un senso di vorticoso disequilibrio, destabilizzando le nostre certezze e il comune modo di vedere le cose. Oscilliamo, sferzati da un misticismo che non comprendiamo. Siamo estranei, stranieri su un suolo straniero, nemici da inseguire se solo osiamo fotografare. Franco è accompagnato fuori perché prova di nascosto a memorizzare nella sua camera lo spirito del luogo. Mario tradisce una forte emozione, tutti ci sentiamo strani, colpiti, scossi e non sappiamo se pregare e se farci il segno della croce all'uscita, quasi che il nostro modo di intendere il contatto con Dio sia diverso dal loro. Nella piazza antistante rumorosi petardi sono sparati verso il cielo. Bambini circondano il nostro gruppo alla ricerca di elemosina. Povertà e miseria, commercio e baratto, fede e misticismo.
Chichicastenango
Il mercato, il più grande del Centro America, dove confluiscono venditori di tutto il Guatemala. Visto dall'alto è una distesa sterminata di tendoni bianchi, che coprono un mondo. Visto da dentro è un dedalo di colori, il labirinto del commercio. Giallo, verde, rosso e blu. È come guardare dentro la tavolozza di un pittore, una tavolozza in movimento, dove acquerelli e tempere si confondono, si mischiano e creano nuovi colori; stoffe di lana grezza, tovaglie, centrini, amache, ma anche maschere e frutta, tutto è vorticosamente colorato. Volti rugosi, volti scavati, volti di donne piccole e minute, volti anziani di donne senza età, di donne che sulle spalle portano bimbi di un anno, di donne che sembrano quasi indiane o sud americane, che sembrano appartenere a tribù distanti. Volti di uomini che chiamano, uomini che barattano e contrattano, che mostrano la merce e chiedono il tuo prezzo. Volti di bambini che tendono una mano, bambini che chiedono una moneta, bambini che vendono braccialetti e regalano sorrisi al telefono. Volti di gente, che vive e sopravvive, che ti guarda e ti assorbe, ti rimprovera e ti desidera. Volti di un'umanità diversa, sofferta e vitale, di una civiltà orgogliosa, di un popolo con le sue regole e le sue tradizioni. Galli e maiali, pollame nelle ceste. Versi di animali venduti e trascinati al guinzaglio come fossero cani, versi di bestie gettate come merce una sopra l'altra, stipate, come se non sentissero il dolore e non provassero la paura. E poi gli autobus, i famosi “Chicken bus”, colorati, festosi, pieni, caldi, assurdi. Gli adesivi sul parabrezza non sono quelli dei nostri camionisti, non celebrano le donne ma Dio, nessun poster di playboy, ma solo crocefissi e rosari, nessun gagliardetto calcistico ma slogan di fede. Un mondo a parte, un mondo differente dove compriamo di tutto, t-shirt e magliette da calcio, braccialetti e collane, orecchini e monili, drappi e teli, simboli e feticci. Contrattiamo al ribasso per quelli che al cambio equivarrebbero a pochi centesimi di euro, discutiamo, tocchiamo la merce come esperti mercanti e ci lasciamo incantare dal colore e dal rumore. Il mercato estende le sue radici per tutto il paese. Quelli che ieri sera erano solo spazi in allestimento, questa notte sono stati riempiti e ora sono rigonfi di mercanzie, estendendosi fino a ridosso della scalinata della chiesa, dove per entrare è consigliato usare gli accessi laterali e non l'ingresso principale, in segno di rispetto per la gente del luogo e per non recare offesa alla divinità. Qui altri rituali, altri incensi, fumi, sciamani, preghiere sussurrate e animo ferito quando qualcuno ti cattura in una foto; ecco perché il buon Corrado è frustato da un guatemalteco troppo fiero per farsi fotografare mentre invoca il suo dio. Quando ne abbiamo abbastanza, quando abbiamo speso e siamo storditi, quando il caldo ci ha spossato e lo zaino dei regali già mostra segni di cedimento per i troppi souvenir acquistati, decidiamo di ripartire. Di nuovo sul pulmino di Daniel, con gli zaini sul tetto, diretti a Panajachel. La foschia lungo la strada non consente una visione panoramica del lago Atitlan e dei suoi vulcani. Torneremo domani in questo stesso punto e avremo maggior fortuna, catturando le luci di un sole volto al tramonto.
PANAJACHEL Panajachel sembra quasi una stazione balneare, è un paesino notevolmente vivace. Le camere hanno la vista sul lago e l'atmosfera è più turistica di Chichicastenango. Andiamo a cena in un posto che serve grigliate di carne fino a star male. Fingiamo sia il compleanno di uno di noi, in modo da poter piazzare sulla tavola una damigiana di rum da un litro e mezzo che finiremo questa stessa notte, per la seconda grande ubriacata di viaggio, un rum e coca che ci trascinerà in vorticose danze per tutto il ristorante, stimolati da un gruppetto che suona e da un'irrefrenabile voglia di fare baldoria. I primi ad aprire le danze siamo Linda ed io. Acclamati, applauditi, volteggiamo e ci strusciamo, improvvisiamo passi appena inventati, conservando a stento l'equilibrio, messo a dura prova da tanto alcool. Poi Mario e Silvia, poi Franco che spinge in pista una giovane straniera di fronte allo sguardo geloso del marito che resta seduto al suo posto. Trascino Betta nel delirio del ballo, ancora pochi minuti e saremo tutti in mezzo ai tavoli a danzare, dondolare, cantare, pestarci i piedi, ridere e fumare. Ma la magia del viaggio ha i suoi contrappassi, l'ebbrezza del vino ha nei suoi liquidi anche l'amarezza di momenti deprimenti. Anche l'assoluta assenza di pensieri non riesce a star troppo a lunga da sola ma, attesa la fragile natura umana, abbisogna di momenti di riflessione, di dure lezioni di vita, di sconforto. Un pezzo di carne avanzato che giace sul piatto è offerto a un cane. Ci liberiamo dei nostri avanzi così, con naturalezza, noi troppo gonfi di cibo per continuare a ingozzarci. Ma quegli stessi pezzi di carne qualcun altro li sta dando a dei ragazzini. Come cani affamati anche queste piccole creature reclamano la loro parte di nutrimento. Il nostro scarto è la loro cena, il nostro surplus, destinato al cestino, o a una bestia, è il loro miraggio. Il contrasto è destabilizzante. Chi non ha ancora mai visto la povertà (e sono in tanti in questo gruppo a non conoscere l'Africa e i suoi figli denutriti) riceve uno schiaffo al cuore e si sente morire dentro. Mario cede, continua a ripetere ho dato la carne al cane... e si sente in colpa. Si sfoga da persona sensibile qual è, ed è magnifico e terribile al tempo stesso il contrasto tra chi sta male per quanto ha visto e chi invece continua a ridere e dire cazzate perché troppo inebriato dal rum per rendersi conto di cosa è stato un momento di umanità. Potente e bella è la vita, labile e fragile l'animo umano, drammatico e incomprensibile lo sconforto che nasce dal donare, da un gesto di generosità. Ma nessuno ci può fare una colpa di quello che siamo e della fortuna che abbiamo avuto nel nascere in Italia e non in Guatemala. È tempo di andare, tutti abbracciati, stretti in mezzo alla strada in un gesto che sa di amicizia e fratellanza, riconoscenti al caso che ci ha fatto incontrare. È tempo di andare, verso un altro bar, dove una ragazza di nome Marisol ci verserà un giro di tequila, verso un lago, dove forse due coppie stanno per nascere, dove Franco e Linda spariscono per alcuni minuti, dove Mario e Silvia si stringono un po' di più. Buona notte gente, buona notte Guatemala, buona notte ragazzi che non avete in camera Corrado come me e potete gustare sonni tranquilli, buona notte a tutti, oggi è stata una buona giornata.
Giuseppe Pensieroso
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