Si camminava guardando sempre verso l'alto come degli idioti e controllando, in ogni momento, la distanza dal rifugio più vicino perché, quando si scatenavano gli elementi, bisognava ripararsi e farlo velocemente. Pochi minuti potevano fare la differenza tra la vita e la morte. Quando tutto cessava, si redigeva l'elenco dei morti come fosse un bollettino di guerra. Al di fuori del periodo dei Tre mesi della libertà aerea animali ed esseri umani venivano sistematicamente massacrati dalla violenza degli uragani che colpivano ovunque e senza preavviso: piante e alberi secolari erano sradicati da terra e sollevati fino a decine di metri di altezza. C'erano tempeste accompagnate da piogge e grandinate così violente che erano state soprannominate "falci d'acqua" perché falciavano le persone come fossero fili d'erba in un prato. Le alluvioni potevano trascinare le auto per chilometri come fossero dei giocattoli e il vento furioso staccare i tetti delle case portandoli via come fossero fogli di carta. Chi non trovava più la propria casa continuava a cercarla, incapace di accettare che fosse il cumulo di calcinacci che aveva davanti agli occhi. L'uragano era come un esercito di predoni che razziava tutto quello che incontrava nel suo cammino. La furia del vento s'impossessava delle lenzuola e dei vestiti stesi ad asciugare e li portava con sé, a volte perfino strappandoli di dosso alle persone. Quando la tempesta trovava una finestra aperta o chiusa male entrava dentro la casa e prendeva tutto quello che poteva: sollevava le coperte, i tappeti, i quadri, addirittura i materassi, e li portava a spasso come tappeti volanti. Le raffiche impetuose s'insinuavano ovunque producendo fischi, ululati e strani suoni che assomigliavano a dei sussurri umani. Non mancava chi affermava che il moloch d'aria fosse una punizione divina e quelle strane parole scandite dal vento fossero di Dio, di Yahveh o di Allah, e rivelassero dei significati misteriosi che i devoti credevano di poter interpretare. Quando il tornado trovava case accuratamente sigillate e inviolabili, risucchiava nel suo vortice ogni cosa che sporgeva all'esterno o che non fosse stata adeguatamente fissata: portava via le tegole dai tetti, interi comignoli, grondaie e antenne, e scagliava ovunque tutto quello che raccoglieva. Pareva d'essere attaccati da una flotta aerea dotata di catapulte invisibili poste tra le nuvole. A Venezia, dopo il passaggio del ciclone, nell'acqua dei canali si vedeva galleggiare di tutto e tra le barche rovesciate affioravano cadaveri di cani, gatti, uccelli ed esseri umani. Chi era sorpreso dalla furia degli elementi, mentre si trovava in barca nel mezzo della laguna, cercava di ormeggiarsi a qualche briccola, se non ci riusciva agli scalmi della barca stessa. Si provava di tutto per non essere portati via dalla furia del vento e non farsi rubare la vita. Una volta, alla fine di una tempesta, Amore vide dalla finestra di casa sua un uomo e il suo cane legati con una corda a una barca rovesciata, annegati insieme e ancora stretti tra loro, mentre venivano portati via dalla corrente del canale. Quando andava in Terraferma, nell'entroterra veneziano, portava sempre con sé lo zaino dentro il quale aveva gli stivali bionici. Con quelli, all'occorrenza, poteva muoversi velocemente e, se fosse stato sorpreso allo scoperto da una tempesta, gli avrebbero consentito di raggiungere rapidamente il rifugio più vicino. Invece, chi utilizzava l'auto o un qualsiasi altro veicolo aveva a bordo un giubbotto airbag, chiamato balloon, dotato di una fune e un gancio. Attivando il suo meccanismo di gonfiatura, in un attimo si creava una sfera protettiva d'aria intorno al corpo della persona che lo indossava. Gli automobilisti che non riuscivano a raggiungere il rifugio più vicino, dopo aver abbandonato il mezzo sul posto, indossavano il balloon agganciandosi a uno dei robusti anelli fissati lungo i bordi delle strade e presenti ormai in tutte le città. Non c'era mai una dinamica precisa durante una tempesta, perché dipendeva dall'intensità del vento e dai vortici improvvisi e inarrestabili che si potevano creare. Alcune persone, ancorate con il balloon al gancio di terra, erano rimaste sollevate nell'aria per tutta la durata dell'uragano senza subire danni, ma non sempre questo sistema di protezione salvava la vita: altre erano state sbattute ripetutamente contro l'asfalto subendo fratture e traumi a volte letali; qualcuno, pur rimanendo fisicamente illeso, dopo la tempesta era morto di crepacuore per lo spavento; altri ancora, furono trovati inerti a terra con la spina dorsale spezzata. Ci furono anche uccisioni causate da grandinate brutali durante le quali i chicchi di ghiaccio, spinti da un vento fortissimo, diventarono fatali come scariche di pallettoni che, dopo aver forato i balloon, penetrarono nelle carni come dei proiettili. I bang, che si diffondevano nell'aria quando arrivavano le bufere, rendevano l'idea di quanti non fossero riusciti a raggiungere i rifugi: ogni bang corrispondeva a una carica esplosiva che gonfiava un balloon, all'interno del quale si trovava un essere umano. Era ancora nitido nella memoria di Amore il ricordo di un giorno pericoloso che visse in quegli anni. Si era recato a Mestre per degli acquisti e si trovava nel cuore della città in Piazza Ventisette Ottobre, chiamata comunemente Piazza Barche a memoria di ciò che era stata secoli prima. Fu Giovanni Antonio Canal detto il Canaletto, uno tra i più grandi vedutisti veneziani del Settecento, a mostrarci in un suo dipinto com'era quella piazza attraversata in tutta la sua lunghezza dal Canal Salso, scavato nel XIV secolo dal governo della Repubblica Serenissima per collegare la città di Terraferma alla Laguna. Lungo le rive del canale, che servivano anche da approdo per l'arrivo delle merci, erano ormeggiate le imbarcazioni dei barcaioli e, nel dipinto di Canaletto, lungo le sponde del corso d'acqua sono visibili anche le loro modeste abitazioni. Fu proprio per la presenza delle barche lungo il canale, poi interrato, che la piazza nella tradizione popolare mantenne l'antico appellativo di Piazza Barche e continuò a essere chiamata così anche a distanza di secoli. Amore era proprio vicino a quella piazza quando, alzando gli occhi al cielo, si accorse del moloch d'aria che stava arrivando, proiettando a terra un'interminabile ombra scura. Si erano già formate lunghe file di auto riempiendo ogni lembo d'asfalto, come a comporre un enorme mosaico metallico fino all'ultima tessera. Erano tutti fermi, irrimediabilmente imbottigliati e senza via di fuga, mentre le nuvole scure trasformavano il giorno in piena notte, immediatamente violata da centinaia di fasci luminosi provenienti dai fari delle auto. Qualcuno perde la testa, accelera iniziando a colpire l'auto che lo precede e quella che lo segue, ingranando la marcia avanti e poi la retromarcia, in una serie di azioni compulsive e senza senso. Tutti suonano i clacson e si diffonde un suono potente, somma di tutti i singoli suoni, che poco dopo è coperto dal rumore delle raffiche di pioggia. Amore guarda la marea di auto, ai piedi ha gli stivali bionici, di quegli attimi ha un vuoto di memoria, soltanto più tardi ricorderà come e quando li ha calzati, ma sono la sua salvezza: gli permetteranno di raggiungere velocemente il rifugio più vicino. Corre con lunghe falcate, salta sopra le auto bloccate, rimbalza sopra i tettucci dei veicoli, facendo bene attenzione a non perdere l'equilibrio e cadere perché sarebbe la fine. Supera l'ultima barriera che lo separa dalla meta saltando oltre un'auto cozzata contro un lampione e dispersa come una barca alla deriva ed entra, quasi tuffandosi, nel rifugio. Alle sue spalle risuonano i bang dei balloon che continuano a gonfiarsi. Sono tante piccole esplosioni in successione e, mentre la porta del rifugio si richiude, gira la testa e vede delle lunghe fila di uomini e donne librati nell'aria come palloncini colorati. Quando la tempesta finisce, Amore torna a casa senza aver fatto nessun acquisto e poi, sedendosi sul treno della ferrovia sotterranea che lo riporta a Venezia, si accorge di calzare ancora gli ingombranti stivali bionici.
Già prima del 2050 le paratoie del MO.S.E. (Modulo Sperimentale Elettromeccanico) - il sistema concepito per proteggere Venezia dall'acqua alta - che erano state completate tra mille difficoltà, non servivano più a nulla. Durante i periodi autunnali il vento di scirocco spingeva grandi quantità di acqua marina in Laguna e la Luna contribuiva con la sua forza gravitazionale all'innalzamento della marea. L'acqua tracimava oltre le paratoie inserite alle tre bocche di porto del Lido, Malamocco e Chioggia, allagando tutte le abitazioni all'interno della Laguna di Venezia fino a quasi il solaio del piano terra. In città ormai si viveva solo negli appartamenti dei piani alti. Grosse imbarcazioni provvedevano ai generi di prima necessità per gli abitanti che, ormai per qualsiasi cosa, dovevano servirsi di barche a motore elettrico o di moto d'acqua. Le gondole e le altre imbarcazioni a remi furono considerate troppo lente in caso di emergenza meteorologica e utilizzate soltanto durante i Tre mesi della libertà aerea, quando le tempeste cessavano. Venezia è una città molto particolare, anche nell'origine del suo nome, che un anonimo scrittore veneziano fa risalire all'espressione latina veni etiam, cioè "torna di nuovo", indicando in modo poetico un luogo dove si vorrebbe poter ritornare. L'origine di un centro urbano così spettacolare come quello veneziano è ancora avvolto nel mistero, anche se già nel 300 avanti Cristo vi erano dei villaggi in Laguna collegati con la terraferma. La formazione della città avvenne gradualmente su degli isolotti edificabili creati da piattaforme melmose chiamate velme, circondate dall'arabesco serpeggiante di canali e dai ghebi, lingue d'acqua molto basse, che si dispiegavano come una gigantesca ragnatela in tutta la Laguna e le sue barene. La storia della Serenissima inizia in modo ufficiale soltanto nell'812 dopo Cristo, formandosi gradualmente su oltre un centinaio d'isole all'interno della Laguna, intersecate da circa centocinquanta stretti canali navigabili chiamati rii, e collegate tra loro da oltre quattrocento ponti, quindi, ogni volta che si attraversa un ponte, si passa da un'isola a un'altra. Soltanto nel 1846 la città fu unita alla Terraferma da un ponte ferroviario costruito dagli austriaci, che nel 1933 fu allargato diventando anche un ponte stradale, chiamato il Ponte della Libertà. Da quel momento, oltre ai binari per i treni, ci furono anche le strade per le carrozze con i cavalli e poi per le auto, le rotaie per il tram, la pista per le biciclette e i marciapiedi per i pedoni.
Franco Alesci
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