Sono nato negli anni in cui regnava l'incoerenza; in quegli anni in cui tutto ciò che appariva non era reale e tutto ciò che era reale sfociava in un'inesorabile contraddizione. Erano tempi in cui ognuno di noi indossava delle maschere e nessuno era chi diceva di essere. In quel mondo perverso, i cliché della società avevano defraudato l'uomo della semplice capacità di pensare o agire secondo il proprio volere e ogni cosa aveva perso il suo reale significato. Sotto il segno di queste premesse, l'età dei Social troneggiava su di un mondo plasmato attraverso falsità, inganni e bugie. A quei tempi, noi tutti tendevamo all'incoerenza; eravamo una generazione senza ideali, senza aspirazioni, una generazione infiacchita dall'enorme progresso tecnologico che, lentamente, ci aveva privati della forza di volontà, rendendoci schiavi delle menzogne e del credo virtuale. Non esistevano più sentimenti autentici, nessuno riusciva a instaurare rapporti veri e duraturi; il mondo era dominato dai vincenti, a cui si contrapponevano, immersi nell'ombra, i perdenti... e io ero uno di questi. Fino al compimento dei miei diciott'anni, non sono mai stato fiero di una simile condizione d'esclusività, ma in una società del genere, interamente votata alla contraddizione da essa generata, non ero solo. C'era qualcun altro con me, pronto a combattere al mio fianco e a darmi man forte; qualcuno con un'eccezionale verve... qualcuno il cui incontro cambiò radicalmente la mia vita.
Fino ad allora, indipendentemente da cosa facessi o dicessi, il mio nome, Daniele Serpico, non era stato altro che un sinonimo di nessuno. Ero un nessuno perché, fin da ragazzino, la società moderna, in palese disaccordo con la mia fragile personalità, non aveva fatto altro che declassarmi, costringendomi a una vita nell'anonimato. Fu nei miei anni da liceale che iniziai a muovere i primi passi nell'incoerente età dei Social, ma impiegai un po' di tempo per capire come stessero veramente le cose. A mie spese scoprii che le persone erano subdole e non si facevano scrupoli nel tradirsi a vicenda pur di raggiungere i propri scopi. Che senso aveva legarsi a gente tanto meschina? Era proprio questa domanda a giustificare la mia disastrosa vita sociale. Di amici ne avevo molti, ma non consideravo nessuno di loro degno della mia totale fiducia. Sebbene fingessi il contrario, ingannando il mio prossimo senza alcun rimorso, sapevo che tutti avevano scelto di indossare la maschera della società. Ciò mi diede la chiarezza e la cognizione che non esistevano persone autentiche, ma fantocci, manipolati e diversamente plasmati gli uni dagli altri a seconda del contesto, che, sotto spessi strati di menzogne, erano semplicemente l'opposto di ciò che in realtà desideravano ardentemente apparire. Fin da bambino, infatti, ho sempre avuto una certa tendenza a osservare il mondo con lo sguardo di un forestiere. Quella massa caleidoscopica e illogica, più comunemente nota all'uomo sotto il nome di popolazione, ai miei occhi appariva come l'unione dei singoli individui prostratisi alla volontà di un'età contraddittoria. Questa abilità, però, non mi aveva donato nient'altro che solitudine. In una società che spesso e volentieri tendeva a estraniarmi, l'unica azione a me concessa era guardare da fuori quel che vi era dentro, soppesando il mondo per ciò che era realmente: una farsa colossale. Con tale consapevolezza, non potevo assolutamente glissare le mie considerazioni, perciò mi ritrovai solo, senza veri amici. In mezzo a tanta incoerenza, così come un fiore sbocciava per sbaglio laddove un fiore non sarebbe dovuto sbocciare, solo una persona si distingueva dalla massa; il suo nome era William Esposito. William era una di quelle poche persone nelle quali ancora perdurava la coerenza. Quegli stessi ideali che dalla nostra generazione erano stati prima rinnegati e poi condannati ad ammuffire in un vecchio armadio in cantina, in lui avevano trovato un custode degno di preservarne il ricordo. Ma William era molto più di questo. Possedeva un carisma talmente eccezionale che il semplice stargli accanto equivaleva a ricevere una pacca sulla spalla con l'incoraggiamento: ‘Non ti arrendere. Io credo in te!'. All'ombra di una così strabiliante figura, tuttavia, giaceva, rinserrato a forza nel suo cuore, un antico obiettivo che, fin dalle prime ore di vita, aveva mosso i passi in una pura e casta forza di volontà. William aveva posto tale obiettivo al centro della propria esistenza e l'aveva trasformato in un pilastro portante che rimandasse ogni sua singola azione, parola o idea a qualcosa di più allegorico. Quel qualcosa, però, non poteva essere compreso da persone che ne venivano a contatto casualmente, poiché il suo fine andava ben oltre la misera percezione dell'uomo.
A parte William, molti anni prima, c'era stata anche un'altra persona con cui ero riuscito a stabilire un certo legame. Era il 2011, anno in cui gli SMS e Facebook spopolavano tra i più giovani, e il mondo stava entrando nella sua prima fase di annessione nella società virtuale, quando fui invitato a una festa che, nel suo primitivo richiamo dell'alcol e del fumo, rappresentava un mondo a sé, fatto di vincenti e perdenti e di ragazze dalla morale licenziosa; era un mondo grottesco, che rasentava la follia. In mezzo a quella tempesta vi era un piccolo raggio di sole che, con estrema umiltà, tentava di farsi spazio fra le nubi dense e opache, sussurrando candidamente il suo nome... Giulia. Avevo solo quattordici anni, ma, nonostante ciò, quel giorno ebbi come un'epifania, una rivelazione che, penetrando nella spensieratezza e nell'incontenibile euforia adolescenziale, mi suggerì di aver trovato una persona lontana dalla diversità comune ed estremamente vicina a un tipo di bellezza tanto unica quanto rara che, altrimenti, a lungo avrei cercato. Confesso di esser sempre stato particolarmente selettivo sul genere femminile e mai, fino a quel momento, avrei immaginato di conoscere una ragazza che rispecchiasse il modello di donna perfetta di cui ero alla ricerca. Eppure, lei era là e incarnava tutto ciò che vi era di più angelico e puro in quell'incoerente mondo. A quei tempi ero ancora troppo ingenuo e, riflettendoci adesso, a molti anni di distanza, se avessi saputo fin da subito che le ragazze tendevano per natura a scegliere sempre il vincente e mai il perdente, ci avrei pensato due volte prima di legarmi a lei come mai mi ero legato ad altri. Sfortunatamente, appartenevo alla categoria dei perdenti e, nei quattro lunghi anni che le fui accanto, non riuscii mai ad andare oltre l'amicizia a causa dell'appartenenza alla mia casta. Nonostante ciò, Giulia era accerchiata da un'aura mistica che, imperturbabilmente, mi spingeva ad avere fiducia in lei. Come amica era fantastica, ma se provavo a spingermi un po' più in là, soccombevo al mio destino. Ho affrontato questo discorso con William svariate volte. Era interessante sentire e, talvolta, apprezzare il suo punto di vista, poiché mi ero costantemente precluso la semplice possibilità di aprirmi con gli altri, ma di lui mi fidavo e sentivo di poter confrontare le mie idee e i miei sentimenti con i suoi. Una volta, infatti, mi disse: - Capisci di essere innamorato veramente soltanto quando sei disposto a fare di tutto per conquistare una ragazza; anche se ciò significa cambiare te stesso solo per darle l'impressione di essere migliore di ciò che sembri - . Era tutto vero e lo scoprii a mie spese nel momento esatto in cui, anziché lasciar andare Giulia e rituffarmi nel fluire magmatico della vita, privo d'individualità e di concretezze, decisi di provare a cambiare le carte in tavola in mio favore. Fu allora che, in un mondo plasmato su finzioni e apparenze, assunsi un aspetto più curato e abbandonai lo stile sportivo che mi aveva contraddistinto in precedenza. Da ragazzo trasandato passai a elegante e raffinato. Quei minimi particolari, che fino a qualche anno prima non mi ero mai degnato di curare, adesso erano all'ordine del giorno. Volevo fare colpo e dimostrarle di essere maturo e, quindi, degno di lei, ma in me perdurava l'animo del perdente. Alla fine, fui costretto a prendere una drastica decisione; col passare del tempo mi resi conto che le buone intenzioni erano inconcludenti e che, rialzandosi con caparbietà dopo ogni caduta, anche il più fiero dei guerrieri prima o poi si sarebbe arreso. Per quanto ci provassi, non potevo ignorare quella parte razionale di me che, prostratasi al cospetto del mio lato romantico, mi implorava di desistere, né potevo accettare l'idea di continuare a vivere nella paura di perderla. Così giunsi a pormi una domanda: a cosa mi avrebbe portato tutta quella determinazione? A niente, questa era la risposta. Conoscevo fin troppo bene la società in cui vivevo, perciò era inutile illudermi. Non ero un vincente; non avevo i mezzi per ribaltare la situazione a mio favore, quindi la lasciai andare. Piombai nell'apatia più totale; vissi quei pochi mesi antecedenti al mio incontro con William come il più misero e disgraziato essere sul baratro del nichilismo e dell'inettitudine. Ero diventato il perfetto Zeno Cosini del ventunesimo secolo. Abbandonando la mia mordace e caustica penna, sempre pronta ad assoggettare la realtà e filtrarla attraverso una visione più razionale e veritiera, mi tuffai in un mare privo di emozioni e di slancio vitale. Si è soliti dire che un uomo senza scopo non è un vero uomo e non possiede una vera vita; appresi questa preziosa informazione a mie spese sotto forma di vuoto interiore, capace non solo di dilaniarmi il corpo e la mente, ma persino l'anima... un'anima fino ad allora abituata a lottare e inseguire con inflessibile volontà ciò che più ardentemente desiderava.
Oltre a essere un perdente e un buon osservatore, ero anche uno scrittore alle prime armi, dedito alla mediazione tra mondo reale e mondo illusorio. Tale attività letteraria ebbe origine durante gli anni della mia infanzia, in cui dimostrai un'eccezionale inventiva. Creavo storie di tutti i generi, esploravo mondi lontani con il solo ausilio della fantasia, ma ero ben lungi dal comprendere la fuorviante verità. Imparai una preziosa bugia, che l'inoppugnabile bene trionfava sempre sul male, e ciò mi fornì il pretesto per crogiolarmi nella sicurezza di questa fallace ideologia, consentendomi di rannicchiarmi in un nido Pascoliano, che, molto più tardi, venne scavalcato dalla empia e tetra realtà. Era inutile cercare rifugio nell'immaginazione, sperare nel lieto fine o anelare a un futuro onirico di sola giustizia ed equità. Come l'ultimo dei miserabili, come feccia della peggior specie, fui strappato dall'amorevole culla della fantasia e gettato in pasto a un mondo offuscato dall'egoismo degli uomini, ormai capaci soltanto di calpestare cose e persone pur di raggiungere i loro scopi. Furono proprio tali considerazioni a facilitarmi lo sviluppo di una capacità di pensiero che andava ben oltre la semplice percezione umana. Tra i vari pro e i contro, le mie doti artistiche mi avevano offerto un quadro generale della società in cui vivevo, una visione che non tutti i miei coetanei sarebbero stati in grado di possedere, perciò decisi di riportare l'incoerenza e le maschere dell'età dei Social in una serie di racconti. Nella mia carriera di scrittore amatoriale sono stato ampiamente influenzato da un romanzo in particolare che, ottemperando alle mie voraci esigenze di allora, si impose sugli altri per poi innalzarsi come una bibbia. Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald non era solo la storia di un uomo e del suo sogno di rivalsa, ma rappresentava la perfetta metafora della mia vita. Così come nel romanzo il ricco soffiava al povero la donna tanto a lungo desiderata, anche nella mia personale ideologia accadeva lo stesso tra il vincente e il perdente. Gli anni Venti americani erano un periodo che ammiravo con tutto me stesso e rappresentavano l'epoca d'oro in cui sarei voluto nascere. Ero, tuttavia, tristemente incatenato al Ventunesimo secolo, costretto semplicemente a imitare i modelli di quegli anni, colmi di fasti e di gloria, ma ben presto capii che c'era ancora qualcuno, oltre a me, che, spingendosi oltre la superficiale percezione del semplice e inetto uomo moderno, custodiva in sé il rimpianto per quegli anni lontani. Contemporaneamente ai miei primi passi nel mondo letterario, iniziai a vagheggiare futuri sogni di gloria. A poco a poco persi completamente l'interesse per la scuola e mi limitai a fare il minimo indispensabile per andare avanti. Sentivo in me la crescente ostinazione di un sogno, di una possibilità di riscatto fortemente legata alla scrittura. Volevo e dovevo diventare uno scrittore, quindi, anziché concentrarmi sullo studio, preferivo dedicarmi ai miei racconti e alle letture dei classici. Quando mi ammalai di apatia, però, anche le mie doti artistiche ne risentirono e per mesi, ogni qual volta tentavo di riprendere una storia laddove l'avevo interrotta, assunsi l'atteggiamento di chi non riusciva più a riconoscersi nel proprio lavoro. I sogni, l'amore, la letteratura... avevo abbandonato tutto e, rantolando nel nulla, mi ero aggrappato alla vita. Intanto, molto più in là nello spazio e nel tempo, William mi stava aspettando, pronto a entrare con veemenza nell'imperfetto e incompiuto romanzo della mia esistenza per cambiarlo radicalmente.
Questa storia, fatta di vincenti e perdenti, ha inizio in un posto per me molto significativo: la libreria Prometeo, sita in un comune limitrofo al mio. Quel tempio sacro, eretto sulle basi dell'epica omerica e della Commedia dantesca, al cui interno il fresco e inebriante odore dei libri si mescolava agli avidi sguardi dei lettori, fu il luogo in cui feci l'incontro più importante di tutta la mia vita. Fino a quel fatidico giorno, ai romanzi contemporanei avevo sempre anteposto i classici, poiché l'età moderna mi disgustava anche per la scarsa originalità che caratterizzava gran parte della produzione letteraria di quei tempi. Quasi nessuno riusciva a creare un'opera degna di essere definita tale. Si scriveva per accontentare il pubblico e non più per arricchire l'immensa eredità culturale di cui il mondo disponeva. Nonostante ciò, nella mia sfrenata ricerca di qualche nuovo autore in grado di contribuire alla formazione umanistica del futuro scrittore che, sotto spessi strati di apatia, ancora anelavo a diventare, c'era un romanzo contemporaneo, concepito dal cuore di alcune delle più nobili presunzioni umane, incapace di passare inosservato al mio sguardo. Abbagliato come da una luce divina e provvidenziale, lo presi.
Il Poeta d'altri tempi Un romanzo di William Esposito.
Sul frontespizio c'era una nota, forse la cosa che più mi aveva incuriosito nella mia prima e fugace occhiata, che informava il lettore di avere fra le mani il romanzo del cosiddetto nuovo Fitzgerald. I libri erano disposti per ordine alfabetico, perciò mi soffermai sulla casuale vicinanza della E e della F. Immaginai Fitzgerald, seduto pochi autori più avanti, intento a scrutare meditabondo il ragazzo designato come suo successore. L'uno troneggiava sulla fama dell'altro, dando vita a un indescrivibile valzer di frasi memorabili e concetti resi perfetti dalla loro impeccabile padronanza di linguaggio. Il maestro che sorvegliava con occhi attenti il lavoro dell'allievo prediletto; il passato che intercedeva al cospetto del mondo in favore del presente, cedendogli, infine, il tanto ambito testimone. Era tutto lì; due generazioni di scrittori che si apprestavano a darsi man forte per accrescere il lungimirante e vasto olimpo letterario. Ancor più spinto dalla curiosità da questa mistica visione, iniziai a leggere sulla copertina anteriore i commenti dei vari giornali italiani che, con parole molto lusinghiere, avevano osannato, in un trionfo di critica letteraria, quel nuovo esordiente.
Così come Fitzgerald seppe cogliere l'inquietudine dei Ruggenti Anni Venti, Esposito inquadra perfettamente la società odierna in un misto di satira e dramma. Il Corriere della sera
Esposito è il Fitzgerald italiano e contemporaneo. Dalla letteratura americana di inizio Novecento, rispolvera tutto ciò che Jay Gatsby aveva rappresentato in passato e lo riporta alla luce nella società odierna. Il Poeta d'altri tempi è il caso editoriale dell'anno. Il Mattino
Non ci volle molto prima che mi accorgessi di aver finalmente trovato qualcuno ancora disposto a battersi per la vera letteratura. - Chi è questo William Esposito? - , domandai a un commesso intento a ordinare sugli scaffali i nuovi arrivi. - È un esordiente che sta riscuotendo un enorme successo - , chiosò questi. - Non ne ho mai sentito parlare - . - I giornali di oggi danno sempre più spazio alle opere commerciali. Che siano recensioni, tweet, articoli pubblicati sui social... Per romanzi di questo genere la pubblicità è relativa e il mondo letterario è una vera e propria giungla. Il Poeta d'altri tempi, però- seguitò prendendo il libro tra le mani- grazie al passaparola è arrivato a vincere sia il Bancarella che lo Strega - . - Ha vinto il Bancarella e lo Strega? - . - Sì, ma, non so perché, ha ricevuto pochissima attenzione mediatica - . Ringraziai il commesso e rimasi fermo per alcuni minuti a contemplare l'opera prima che avevo tra le mani. Quel romanzo non solo rappresentava una grottesca metafora dell'età dei Social, ma troneggiava su tutti come unico e solo testimone oculare delle inquietudini di una generazione immersa a capofitto in un'illusoria realtà. Il punto di vista della minuziosa indagine sulla società moderna, di cui si faceva portavoce la storia, era quello di un giovane diciottenne che, con l'obiettivo di diventare il più grande scrittore del suo tempo, una volta trasferitosi a Roma, si ritrovava a contatto con un mondo fatto di sole apparenze. Qui, tra amori impossibili, editori alla ricerca di libri commerciali, sogni letterari, fantasmi del passato, vincenti, perdenti e un continuo carnevale di maschere, l'unica soluzione a tutti i problemi del protagonista si compendiava in un semplice verbo: uniformarsi. La prima volta che lo lessi rimasi sospeso a mezz'aria tra realtà e finzione. William Esposito aveva arricchito ancora di più la mia particolare visione del mondo e, applicando la sua visuale alla mia, sentivo di aver raggiunto lo status di osservatore completo. Il Poeta d'altri tempi era un capolavoro, ma, nonostante la critica avesse acclamato William come lo scrittore rivelazione dell'anno, la sua figura era avvolta nel mistero. Cercai su internet per sapere qualcosa sulla sua vita, ma, al pari di un Salinger o di un Pynchon, non trovai niente. Abitava a Roma e collaborava con una piccola casa editrice chiamata Alessandrini Editore; di lui si conosceva solo questo. Non esistevano foto, interviste o video; addirittura scoprii che a ogni cerimonia di premiazione non si era mai presentato in prima persona, ma aveva incaricato il suo editore di farne le veci. Chi era? E perché rifiutava l'attenzione mediatica? Nei pomeriggi trascorsi in un crescendo di ossessiva e morbosa curiosità, l'unica verità che venne a galla, completamente agli antipodi con i miei moventi iniziali, fu che del suo passato non vi era alcuna traccia.
Nicola Ianuale
Biblioteca
|
Acquista
|
Preferenze
|
Contatto
|
|