L'amore ai tempi del bisogno è faccenda controversa, amare comporta in sé la libertà di scegliere il destinatario dei nostri sentimenti, delle nostre cure e attenzioni. Aneliamo più o meno tutti verso l'amore scevro da condizionamenti e interessi di qualsiasi natura, o almeno, così la raccontiamo. I ricordi che si sta provando a ricostruire in queste pagine, però, si riferiscono a un periodo storico e a un ceto sociale le cui donne non potevano tenere a conto sogni e desideri, chiamate, com'erano, innanzitutto a soddisfare i loro bisogni primari e quelli dei propri figli. Sebbene le iniziali scintille di emancipazione femminile avessero illuminato il primo dopoguerra italiano, l'affrancamento dal padre prima e dal marito dopo era e restava un'esperienza di alcune ragazze appartenenti alle classi sociali più agiate e che, non senza sforzi, avevano potuto accedere all'educazione liceale e accademica. Le donne se l'erano guadagnate quelle scintille con l'enorme contributo dato alla causa bellica, durante il primo conflitto mondiale, e si era potuto riaccendere, al termine della Gande Guerra, il dibattito sulla condizione giuridica della donna in Italia. La conosciuta Legge Sacchi aboliva l'autorizzazione maritale e concedeva alle donne il permesso di entrare come lavoratrici in tutti i pubblici uffici, tranne che nella magistratura, nella politica e nell'esercito. Sia il Partito socialista che il Partito popolare appoggiavano la causa del suffragio femminile - ma come fa presto l'uomo a dimenticare! La gratitudine per il contributo che le donne apportarono durante il primo conflitto mondiale sbiadì e le si restituì al ruolo che più si confaceva loro. Quinzia era diventata donna mentre nasceva e si affermava il movimento fascista che inizialmente aveva mostrato un atteggiamento ambiguo sulla questione: da un lato dichiarava il suo favore verso la concessione del voto amministrativo alle donne, dall'altro appoggiava, anche con azioni squadristiche, le proteste verso le donne lavoratrici, accusate di togliere il lavoro ai reduci. Nel 1923 lo stesso Benito Mussolini si impegna di fronte al nono congresso dell'Alleanza femminile internazionale di estendere, sia pure a certe condizioni, il voto amministrativo alle donne. Dimostra disponibilità e buona fede facendo approvare una legge a favore del voto il 22 novembre di due anni dopo e, incongruenza e incoerenza nella riforma podestarile del 4 febbraio 1926 che abolisce il suffragio delle donne. Con l'instaurazione del regime fascista, le scintille dell'emancipazione femminile sembrano spegnersi: l'ideologia fascista vede nella procreazione il dovere primario della donna. Una serie di leggi mirò a costringere le donne italiane nuovamente ed esclusivamente al loro ruolo di mogli e madri. Infatti il Codice di Famiglia viene ulteriormente inasprito dal fascismo, ponendo le donne in uno stato di totale sudditanza di fronte al marito, conferma che la donna è oggetto della scelta dell'uomo. Senza bisogno di sottolineare che nel nuovo Codice Penale veniva aggiunta la depenalizzazione del delitto d'onore oltre che essere confermate tutte le norme a sfavore delle donne. Chissà perché la posizione del fascismo coincideva con quella della Chiesa, con la quale i legami si fanno più stretti dopo i Patti Lateranensi del 1929?! Nell'enciclica Casti Connubii (1930) si ribadisce il ruolo primario della donna come madre e si condanna come "contro natura" ogni idea di parità tra i sessi. Perfino l'onorevole partecipazione ai Giochi Olimpici del 1928, nonostante l'attività sportiva dei giovani e delle giovani italiane fosse vista con favore, desta preoccupazione: c'è il timore che la donna acquisisca troppa indipendenza e libertà e così, anche su pressione del Vaticano, nessuna atleta è inviata a rappresentare l'Italia ai Giochi Olimpici del 1932. Cosa ne sapesse una ragazza analfabeta, maritata quasi bambina e madre adolescente, della retorica fascista sul ruolo della donna è facile intuirlo. Ma ne viveva certamente gli effetti: il ruolo sottomesso nella famiglia o l'intrattenimento del maschio italiano nel campo dello spettacolo e non solo. Quinzia amava Antonio? Amava il padre dei suoi figli? Amava i suoi figli naturali come quelli nati nel matrimonio? Aveva veramente scelto il suo Amante? La donna non c'è più e non possiamo porle alcuna domanda. Posto che avrebbe voluto o potuto rispondere, ci sarebbe piaciuto chiederle se l'avessimo conosciuta e se avessimo con lei instaurato quella familiarità che lega indissolubilmente le nonne e i nipoti. La stessa che rende i ricordi bene comune della famiglia, racconti di radici da cui attingere quando ci troviamo a ricercare noi, le nostre appartenenze, la nostra storia, ci sarebbe piaciuto chiederle: Amavi tuo marito? Hai potuto scegliere se legare o meno il tuo destino ad Antonio? [...] Avremmo posto decine e decine di domande come e uguali a queste, formulandole e riformulandole all'infinito con quella sete insaziabile che i bambini hanno di conoscere le persone che hanno intorno, inclementi e inconsapevoli che certe domande riaprono ferite su ricordi dolorosamente azzafunnate (È un termine in dialetto gaetano: illustra la disposizione in profondità di oggetti e cose, rendendone impossibile il ritrovamento), ma avremmo voluto conoscere i minimi particolari e con i mille e mille aneddoti che le generazioni passate preservano per quelle future. Ci saremmo seduti ai suoi piedi, al suo fianco e avremmo imparato a conoscerla, a comprenderla, forse ad amarla e attraverso i suoi racconti avremmo saputo anche un po' più di noi. Il marito non trovò né Quinzia né i figli a casa della zia. Titubanti e timorosi della tragedia che ne sarebbe potuta scaturire, cercarono di spiegare la situazione: l'avevano creduto morto, in tutti quegli anni neanche una lettera era giunta a sostenere il contrario, notizie non le aveva portate nessuno, sua moglie era ancora giovane, c'era stata la crisi, i bambini avevano avuto bisogno di tutto, non gli era mancato niente, andavano a scuola con profitto, vivevano in un palazzo, sua moglie era rispettata da tutti, erano nati altre due bambini, era trattata come una regina! Il marito ascoltava e nel mentre sul suo viso si susseguivano espressioni di tristezza, angoscia, preoccupazione e rabbia che si trasformò in ira. Ma come? Era la sua regina! Era partito per lei, per conquistarle un regno: un quartino a Roma, dove crescere figli istruiti, educati e ben vestiti! Anni di sacrifici, solitudini, sì allietati da qualche donnina, ma aveva messo da parte tutti i guadagni per lei, per la sua regina. - La lettera? Volevate la lettera? Ci serviva la lettera? Ma chi sa scrivere? Potevo cercare uno scrivano, certo? Ma chi sa leggere? – ripeteva come un mantra l'uomo, prima sussurrando poi a voce sempre più alta e infine urlando. Ci vollero quattro persone a trattenerlo e a condurlo a più miti consigli, aveva preso un coltello a serramanico che aveva nella tasca del pantalone e aveva ferito anche la zia, un graffio, ma sanguinava. Si scatenò il putiferio, l'onore andava ristabilito, lo prevedeva la legge! Qualcuno corse a chiamare le sorelle di Antonio; la più giovane passò dalla chiesa di Sant'Anna a prendere il prete. [...] Un prete serviva sempre in quei casi: o riusciva a mettere pace o avrebbe impartito l'ultimo sacramento a chi nella lite avrebbe avuto la peggio. Lo trovò nella canonica, era al secondo piano sul terrazzino che si affaccia sulla grande porta a vetri della cantoria. Dal rosario all'epicedio il passo può essere breve, meglio portarsi avanti con una corte di prefiche al seguito. Le urla tormentose avevano raccolto altri piaruoglie, qualcuno era corso a Sant'Erasmo, il quartiere dove si trovavo il dazio, per avvertire Antonio, qualcun altro era andato a palazzo Quinzia. La folla - quanto si diverte la gente sugli spalti delle arene! - accolse gli altri protagonisti della vicenda, formando un varco per permettergli di guadagnare il centro e fu l'apoteosi: braccia che trattenevano i due uomini che avevano tutta l'intenzione di risolvere la questione definitivamente. Antonio ponendo riparo a ciò che la sorte non era stata in grado di garantire, il marito esercitando il suo diritto legalmente riconosciuto di difendere l'onore con il sangue. Quinzia si strappava i capelli e le vesti, la zia la tratteneva, le sorelle di Antonio piangevano e pregavano, le donne più brutte e invidiose sussurravano tra loro, ma non a voce troppo bassa: - Chella mangipane a tradimento, mo' s'hadda métte la facce dénte gliù caurare. - S'haddà métte la lénghe ‘ncuglie, mò te vòglie! ( Letteralmente “Quella mangia pane a tradimento, adesso deve mettere la faccia nella casseruola, si deve mettere la lingua in culo, mo' ti voglio”, tradotto “Quell'opportunista, si deve solo vergognare, deve tacere e voglio proprio vedere di cosa è capace.” La cugina se la rideva letteralmente sotto i baffi considerando la peluria scura, che ombreggiava il suo labbro superiore. Finalmente il destino si era rivoltato contro la sua bella parente e lei avrebbe potuto avere la sua vendetta: Quinzia le aveva tolto l'illusione di essere corteggiata dal bell'Antonio. Per mesi si era preparata, incipriata [...] e lei glielo aveva soffiato, con i suoi capelli sciolti, disordinati e ribelli si era presa l'uomo con cui voleva accasarsi. Le erano venute a mancare tutte le consuetudini e tradizioni che all'epoca dei fatti necessarie per contrarre...
Rita Quinzio
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