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Autore: Dario villasanta
Nella pancia del mostro
Narrativa Contemporanea
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Nella pancia del mostro
Mi si snebbiano gli occhi al risveglio, mentre sento di non poter muovere i polsi. Ci metto poco a capire che sono legati al letto: stri-sce di cuoio, con ogni probabilità. E questa mi pare già una fortuna, visto che in alcuni posti ti legano con semplici strisce di stoffa, stret-te fino a fare male, che ti bloccano la circolazione e tagliano la pelle a ogni tentativo di movimento. La luce che vedo è quella del giorno, l'unica finestra non ha imposte ma solo sbarre. È chiusa, ma sento lo stesso il vocio degli altri internati nel cortile di sotto e un rumore di ghiaia sotto ai loro passi strascicati e fiaccati dalle terapie coatte e sedanti.
Speravo di non entrarci più, qui dentro, ma ci sono tornato. Sono passati anni, eppure l'odore di malato è sempre lo stesso.
Mi guardo intorno e intuisco, dal tanfo di piscio stantio e di disinfet-tante che non riesce a coprirlo, che sotto il letto è stato messo un pappagallo per l'urina. Eppure c'è una porticina scorrevole e spessa che dev'essere quella del bagno. Loro però non te lo lasciano usare, ci vanno solo a prendere l'acqua per lavare la padella in cui devi fare i bisogni. Se ti va bene, perché più di una volta ho visto invece pa-zienti legati, lasciati lì ad agitarsi nelle proprie feci, bagnati di urina e sporchi fino alla punta dei capelli.
Per questo dico che mi è andata bene, anche stavolta: ho conosciuto posti dove solo un buco nella rete metallica permetteva di espellere gli escrementi senza doverci rantolare dentro, a parte il fatto che si veniva legati da nudi e la rete era quasi sempre arrugginita e sporca delle schifezze di chissà quanti altri prima di noi.
Loro potrebbero arrivare da un momento all'altro, per controllarmi, come anche no. La telecamera a circuito chiuso, che mi guarda da un angolo del soffitto, è visibile dalla guardiola e basta e avanza, la maggior parte delle volte. L'unica speranza per riuscire a chiedere almeno una sigaretta è chiamare a gran voce, sperando che al piano ci sia qualcuno e che poi abbia voglia di starmi a sentire.
Non ho niente addosso se non maglietta e mutande, e non ne ho a sufficienza per potermi cambiare se serve, o dopo la doccia che di tanto in tanto si riesce a ottenere.
Ora mi trovo legato perché ho opposto una dura resistenza al mo-mento di venire ricondotto qui; a qualcuno forse ho procurato dei lividi, ma non abbastanza visto che ho avuto la peggio, come d'altronde temevo che andasse.
E rieccomi allora al punto di partenza, lo stesso dove sono già stato per cinque anni non molto tempo fa, e dove non sembra cambiato nulla, almeno non nella stanza di isolamento in cui sono rinchiuso. Non credo che uscirò tanto presto da qui, anche se spero di farcela ad abbandonare questo soffitto bianco che mi guarda imperterrito e spocchioso, irridente e stronzo per la mia forzata impotenza.
Mi chiedo però se io sia ancora in grado di sopportare tutto questo, di nuovo, dopo aver assaggiato la libertà. E che libertà! Chissà se quelli che ho lasciato là fuori ora stanno bene, se poi hanno risolto qualcosa della loro vita e chissà quando potrò comunicare di nuovo con loro... È la solitudine ciò che sconvolge davvero in una stanza d'isolamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, la consapevolezza di aver perso i contatti con qualsiasi persona al mondo tu conosca, tagliati di netto da un'entità giudiziaria che ha qualsiasi potere su di te, anche quello di farti sentire una merda più di quanto tu non faccia da solo.
Inutile piangerci sopra, non servirebbe a niente e so bene quale soddisfazione darebbe ai miei meschini carcerieri. Esseri venuti dal nulla, che nulla contano all'infuori di questa recinzione e che qui invece trovano quel potere e quelle occasioni di comando arbitrario che non avranno mai nella vita reale, e questa certo non la è. Capaci solo di sfogarsi su chi potere non ne ha più, neppure per andare al cesso.
Bentornata all'inferno, anima mia, fatti forza e coraggio perché solo quelli forse ti salveranno. É te che cercano, lo sai, ed è te che prove-ranno ad annientare in tutti i modi che conoscono. Sono bravi in questo, sono potenti e intoccabili, ma tu mi servi sopra ogni altra cosa.
Bentornata in OPG!

Quel sabato mattina Domenico teneva il giornale aperto tra le mani, anche se in realtà non vedeva nulla di quanto stava cercando di leggere. Attendeva un possibile acquirente per un immobile di valore di cui era intermediario e, pur capendo di dover focalizzare tutta la sua attenzione su quell'affare, proprio non ci riusciva. La notizia in prima pagina gli aveva addirittura offuscato la vista, lasciandolo frastornato, sbigottito, del tutto incredulo: un uomo, che si era macchiato di un terribile reato tra le mura domestiche, era stato assolto perché ritenuto infermo di mente al momento del fatto. La notizia però non era riportata correttamente, perché in realtà gli erano stati comminati tre anni di misura di sicurezza. Il giornale aveva quindi confuso ‘assolto' con ‘prosciolto', termini che, lui lo sapeva bene, indicavano due situazioni ben differenti.
Domenico lo sapeva per quanto stava per capitare a lui stesso appe-na due anni prima, anche se da allora sembrava già passata un'eternità: accusato di un reato infamante, sebbene non paragonabi-le a quello riportato sul giornale, si era trovato anche lui tra l'incudine e il martello, tra le leggi della strada e quelle impietose delle istituzioni. Non fosse stato per Dax, il misterioso e ambiguo amico di pochi mesi, venuto dalle nebbie di un torbido passato, Domenico non avrebbe mai saputo affrontare certe realtà.
In quell'occasione aveva imparato che le misure di sicurezza erano invece vere e proprie condanne, definite anche ‘ergastoli bianchi' per la possibilità di essere prorogate sine die, anziché aver termine a una data certa. Quel giorno dunque, alla lettura della notizia, aveva avuto la certezza che per l'uomo non sarebbe stato tanto semplice riottenere la libertà. Certo il crimine commesso era senza dubbio gravissimo e la colpa incontestabile, Domenico però non poteva togliersi dalla mente che lui stesso, per molto meno e senza alcun dolo, avrebbe potuto finire nei posti più infami della Terra, proprio quelli che all'epoca Dax gli aveva descritto.
Già, Dax. Chissà che fine aveva fatto? Domenico non si era mai per-suaso, neppure per un attimo, che il benefattore grazie al quale si era potuto rifare una vita fosse morto davvero. All'epoca non aveva cre-duto al suo suicidio e, forse, non voleva crederci nemmeno ora. Co-munque, per lui, poca differenza faceva: Dax era sempre presente nei suoi pensieri.
Anche adesso, tanto da non accorgersi di quanto le sue riflessioni lo avessero portato lontano, una mezz'ora seduto al tavolino della pa-sticceria a pensare al passato. Intanto arrivò il suo cliente, tutto sorridente, e insieme bevvero qualcosa discutendo con cordialità i contenuti concreti dell'affare: percentuali, vincoli di costruzione e piante catastali. Dopodiché, essendo un bel sabato di maggio, si congedarono senza rammarico per inoltrarsi nel soleggiato weekend: l'uno diretto a Firenze e ai suoi musei, l'altro in toccata e fuga verso il Mar Ligure, entrambi felici di prendersi una pausa dallo stress cittadino.
Milano in fiore non si vede quasi mai di maggio, solo folate di pollini che pervadono l'aria. Qualche macchia di colore, tuttavia, la si può scorgere se si sale abbastanza in alto da godere la vista degli innume-revoli terrazzi. Qualcuno vi coltiva una varietà di fiori, altri invece secondo una moda recente praticano l'hobby dell'orto cittadino, piantando e curando insalate e pomodori al posto di gerani e rose.
Lasciato il cliente, Domenico era ripiombato nelle sue riflessioni e camminava assorto in pensieri che non gli erano nuovi: il senso di riconoscenza che provava da anni per Dax, apparso e scomparso nella sua vita come una meteora, non l'aveva abbandonato un solo giorno da quando aveva letto la notizia della sua sparizione e del suo apparente suicidio. Per naturale associazione, il suo pensiero corse a Giulia, la bella e fiera Giulia che invece non aveva dubitato un istante della morte dell'amico e che, cosa che sconcertava Domenico ancora di più, non aveva mai del tutto creduto che lui fosse soltanto un originale benefattore, mosso da un personalissimo senso della giustizia e dell'amicizia. Giulia piuttosto era stata propensa a ritenere, almeno da quanto gli risultava, che un po' squilibrato Dax lo fosse davvero. Come d'altronde i tribunali avevano sentenziato all'epoca.
Eppure era grazie a lui se adesso Domenico si trovava più che bene-stante, se aveva una vita serena e gratificante sotto il profilo profes-sionale e anche personale, benché non facesse coppia fissa con chic-chessia. E ci sarebbe mancato solo questo, si era detto: dopo quanto aveva patito per una donna, adesso per ricostruirsi aveva proprio bisogno di un minimo di indipendenza. Gli rimaneva però il chiodo fisso di capire cosa fosse successo, allora, un tarlo che continuava a rodere e inquinava la serenità dei suoi giorni.
Giulia. Era molto tempo che non la vedeva o sentiva, forse un anno da quando l'aveva incontrata e qualche mese dall'ultimo contatto telefonico, giusto per gli auguri di Natale e un ‘come stai' di circo-stanza. In quell'occasione, non si era sbottonata molto sulla sua vita, né lui si era spinto oltre nelle domande perché, in fondo, che mai importava: lei, insieme a Dax, era pur sempre stata l'artefice della sua rinascita. In quel momento, decise di farle un colpo di telefono prima di mettersi in viaggio per la Liguria, così, tanto per sentirla e non perdere del tutto i contatti.
Era dispiaciuto che si fossero allontanati dopo quel periodo, perché in cuor suo le voleva molto bene e la stimava per la dignità e il carat-tere che metteva in ogni cosa, anche prima di cambiare vita. Giulia, infatti, aveva usato i soldi che le aveva lasciato Dax per abbandonare la prostituzione e rimettersi a studiare fotografia, per poi aprire uno studio per conto suo fuori Milano, a Monza, così da non rischiare di imbattersi nelle medesime realtà che per diversi anni avevano segnato la sua vita nella metropoli.
Presa la decisione di sentirla, Domenico si fermò per controllare il cellulare: aveva il suo numero nuovo? No, ma era un male da poco perché aveva quello dello studio fotografico.
Chiamò, prima di perdere il coraggio, trovò libero e attese qualche squillo prima di sentire una vivace voce femminile che ben conosce-va - Photoalchemy, buongiorno -.
- Giulia? Ciao, sono Domenico. Sei presa? - La voce di lei gli era sembrata impaziente e non del tutto felice della chiamata.
- Ciao sì, ma non con i clienti: stavo sviluppando le foto di un matri-monio. Tu, come stai? -
Domenico, rinfrancato dal calore che traspariva dalla domanda dell'amica, riacquistò vivacità e convinzione. - Benone, ho lavoricchiato anche poco fa e stavo per partire, vado al mare per il weekend. Volevo passare a trovarti prima di andare, magari una piz-za... Che ne dici, si può fare? Così, per non perderci: stavo pensando che sarà forse un anno che non ci vediamo... -.
- Mmh, guarda sono un po' presa, però sì, dai... In fondo devo pur mangiare. Passa all'una allo studio, va bene? Ora scappo perché altrimenti mi va in malora lo sviluppo: è il lavoro di una giornata in-tera! Ci vediamo dopo, ciao! -
- A dopo, Giulia! - Domenico riagganciò e si sorprese nel sentirsi sol-levato che lei non avesse accampato scuse per rimandare il loro incontro.
Era sollevato, sì, e anche sorpreso che lei avesse accettato senza tan-te obiezioni, sapendo lo scarso piacere con cui ricordava i loro tra-scorsi con Dax, con il quale tra l'altro non si era lasciata benissimo. Anzi, a dirla tutta, Domenico non aveva mai capito che tipo di rap-porto ci fosse tra loro, se amore o odio, simpatia o antipatia. Forse, concluse in quel momento, si era trattato solo della naturale con-trapposizione tra due caratteri forti, senza nessuna delle implicazioni che lui aveva ipotizzato.
Così rimuginando arrivò al parcheggio sotterraneo, fece scattare l'apertura automatica della Hyundai e salì a bordo. Si sentiva soddi-sfatto del loro appuntamento pur non sapendo perché mai, proprio quel giorno, avesse deciso di andare da lei. E del resto nemmeno sa-peva che, proprio quel giorno e grazie a lui, la vita di qualcun altro avrebbe iniziato a cambiare.

Dario villasanta

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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