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Autore: Michele Carini
Anime Sommerse
Narrativa
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Anime Sommerse
Da alcuni giorni il monaco errante si trascinava a fatica verso una meta che gli appariva sempre più remota e irraggiungibile. Era stremato, aveva il saio inzuppato di sudore, ma continuava ad avanzare, su e giù per le valli dei monti Nebrodi, con una determinazione tale da resistere al di là di ogni umana comprensione. Il territorio attraversato dal monaco era tra il mare e l'entroterra, tra boschi e dirupi, tra torrenti e sterpaglie. Non voleva far sapere a nessuno dove fosse diretto. Non era intenzionato a battere alcun sentiero tracciato né, tanto meno, alcuna strada trafficata. Ma, così facendo, si perdeva spesso per impervi saliscendi infestati da rovi e macchie di fichi d'india. Così, seguì l'istinto, le stelle e infine, il corso del fiume Elicona. Non fu certamente una passeggiata anche perché portava con sé un carico notevole e non era più un ragazzino. Era abituato al digiuno, ma nella sua cella, non certo a quaranta gradi sotto il sole. Finì per affaticarsi oltremisura, indebolendosi rapidamente. Il monaco errante era partito per voto. Aveva giurato a sé stesso e al Padre Eterno che non si sarebbe fermato finché non avesse raggiunto il luogo visto nel suo sogno rivelatore e non avesse ivi costruito la sua nuova dimora, il suo eremo. Era partito da Ficarra, dal convento dei Frati Minori Osservanti di San Francesco e, dopo alcuni giorni di peregrinazioni, era convinto di essere ormai vicino alla meta. La sua partenza era sembrata a molti una protesta contro il governo, che aveva praticamente rapinato il convento, ma lui aveva preso la sua decisione anzitempo. Non aveva sopportato l'isteria generale causata dalla pirateria del giovane regno d'Italia. Mentre i frati erano stati preda della disperazione e, più di una volta, li aveva anche sentiti bestemmiare, lui era stato in grado di restare calmo e serafico e di utilizzare quanto di buono aveva imparato in anni di meditazione e preghiera. Qualcuno aveva persino accennato a una resistenza fisica, ma lui non era come loro. Lui si era mostrato remissivo e aveva celato abilmente il suo oro. Qualche giorno dopo il fattaccio, lasciò in gran segreto il convento che lo aveva ospitato per ventisette anni. Ciò che pesava di più nella sua bisaccia, era proprio l'oro che sarebbe stato necessario per la costruzione del suo eremo. Per non sudare troppo e per non farsi notare, riposava di giorno e avanzava di notte. Quasi all'alba del quarto giorno di viaggio si accampò sotto una quercia. Cercò invano di rimanere in allerta come nei giorni precedenti, ma fu vinto inesorabilmente dalla stanchezza. Dormì e sognò la discesa dell'Altissimo. Era avvenuta proprio in quel luogo che stava cercando di raggiungere, così come lo aveva visto in sogno da almeno due anni. Si era affannato per riuscire a riconoscere quel luogo santo, forse ubicato nell'altopiano dell'Argimusco, ma non aveva visto nulla a lui noto, se non nebbia, strane luci e qualcosa di nero e luccicante, la cui forma fu impossibile da distinguere. Puntualmente si agitava tanto da svegliarsi avvilito e madido di sudore, ma allo stesso tempo estasiato per quello che, secondo lui, il sogno rappresentava. Quella mattina il risveglio fu più sorprendente del solito. Un uomo torreggiava su di lui con volto di pietra e occhi neri e penetranti che non promettevano niente di buono.
- Chi sei? - Chiese il monaco, ancora agitato dal sogno.
- Alfio Scalisi, il padrone di questa terra dove ti sei accampato. Cosa ci fai qui? -
- Ti chiedo umilmente scusa, sono un povero francescano che sta cercando la via del Signore. Mi ero stancato tanto che mi sono dovuto fermare sotto questo albero e, poco dopo, mi sono addormentato. Ora me ne vado, scusami, non volevo certo violare la tua proprietà. -
- D'accordo, però prima devi venire a casa mia. La benedirai e io, per ricompensarti, ti farò fare un bagno e ti darò delle provviste per il tuo viaggio. -
- Grazie! Grazie! Sei un uomo davvero buono. Deve averti mandato l'Altissimo. Grazie! Grazie! -
Il monaco si mosse per baciargli la mano, ma Alfio Scalisi si scostò, mal celando una smorfia di ribrezzo. Poi fece cenno di seguirlo e si avviò deciso verso est. Camminarono per quasi venti minuti, uno di seguito all'altro. Il monaco arrancava per mantenere il passo. Giunsero quasi al limite della scarpata dove c'era una casetta di pietra e legno di castagno. Alfio aprì la porta, lo fece accomodare, gli indicò una tinozza e uscì con due secchi. Il monaco si guardò intorno e riconobbe una tipica casa da pastore, ma con la particolarità di avere appesi alle pareti coltelli, pugnali e almeno un'altra dozzina di armi da taglio di cui non conosceva neanche il nome. Un coltello gli sembrò particolarmente curioso, perché non ne aveva mai visti con una lama così lunga. Non fece in tempo a osservare con attenzione che il suo ospite tornò con due secchi colmi d'acqua. Non poté far altro che spogliarsi e iniziare l'abluzione.
- Voi francescani potete mangiare la carne di venerdì? -
- Sì, a meno che non sia venerdì di quaresima. -
- Benissimo, allora mangeremo coniglio in umido. L'ho preparato ieri sera, ma poi, invece, per la fretta, ho mangiato pane e provola, perché una pecora ha deciso di partorire. -
- Grazie! Grazie! Tu sia lodato! -
Benedì l'interno della casupola ancora prima di mangiare. Poi, finito il pasto, il monaco comprese che bisognava uscire e procedere con la benedizione delle altre parti della proprietà. Alfio fece strada con rude premura. Il monaco si sentiva un po' imbarazzato per quella strana ospitale sgarbataggine, non aveva capito che quell'uomo aveva notato che nella sua bisaccia doveva esserci qualcosa di molto prezioso. Alfio Scalisi non era affatto un sant'uomo come a lui poteva sembrare. Uscirono sull'aia e il monaco di Ficarra cominciò a pregare. Alfio non lo poteva comprendere, perché non conosceva il latino e non frequentava la chiesa, che distava quasi un'ora a cavallo. Giunsero sul retro della costruzione per concludere il rito. Si soffermarono dove rimasero visibili solo dal Cielo. Fu così che il monaco errante subì il suo destino. Fu ucciso barbaramente con un liccasapuni, una di quelle armi da taglio che, per un attimo, aveva catturato la sua attenzione per la lunghezza della sua lama.

Capitolo 1

I

La basilica di San Michele Arcangelo sciolse funesti rintocchi ai quali fecero eco le campane delle chiese delle contrade vicine. Per gli abitanti di Montelicona fu un chiaro segnale di pericolo, tanto che sciamarono per le strade, implorando il Signore perché li salvasse dal disastro imminente. Correvano in preda al panico, senza sapere dove andare, come se fosse scoppiata la guerra.
- Il fuoco! Il fuoco! - Urlava mastro Piddu, mentre ritirava le cassette con la frutta che teneva schierate sul marciapiede, per timore che, nella confusione, gliele fregassero.
- Dov'è? Dov'è l'incendio? - Chiese Cesarino il gioielliere.
- Laggiù, da Michelangelo. Corriamo, la casa brucia. -
Piddu non era il cognome di un fruttivendolo sardo, come potrebbe sembrare, ma il soprannome che gli avevano affibbiato per riconoscerlo al volo. Derivava da picciriddu, ovvero bambino piccolo, ma per lui era inteso solo per la sua statura e, per economizzare, era divenuto Piddu. Quando furono sul posto, s'accorsero, però, che non bruciava la casa di Michelangelo, ma quella che apparteneva a Ciccio 'u Ricottaro. Il sindaco aveva dato l'allarme ed era sceso anche lui dal municipio, perché la politica si fa anche rendendosi utile nei momenti di disagio. Nel frattempo erano giunti tanti altri volontari e curiosi.
- È giusto adoperarsi per gli altri, perché una disgrazia del genere può accadere a chiunque e, in questi casi, la solidarietà è fondamentale. - Incitò il sindaco.
Si organizzarono subito, e ognuno si procurò un secchio per attingere l'acqua. I volontari formarono una lunga catena umana che dal fiume giungeva fino alla casa di Ciccio, facendo a passamani con innumerevoli secchi. Però, l'acqua arrivava in scarsa quantità all'ultimo della fila, che la gettava sulle fiamme senza un esito apprezzabile. Poi si udirono le sirene dell'autobotte dei pompieri e della gazzella dei Carabinieri.
- Allontanatevi! A spegnere le fiamme provvederanno i vigili del fuoco. - Intimò ai volontari, il maresciallo Moscuzza, appena sceso dalla Giulia.
Presto i vigili spianarono le pompe e piano piano le vampe si affievolirono, ma della casa non rimase altro che un rudere annerito e un ammasso di macerie che sembravano carbone e rocce vulcaniche. Ciccio, vestito con una lunga e buffa tunica rossa e nera, pestava i piedi per il disastro che aveva davanti. Si strappava i capelli per la rabbia cercando di scoprire chi avesse dato fuoco alla sua casa. S'inginocchiò disperato davanti ai resti della sua casa, poi imprecò e, a un certo punto, si alzò e si volse minaccioso contro la casa di Michelangelo, promettendo solennemente che gliel'avrebbe fatta pagare.
- È stato lui! È stato lui! - Urlava, puntando il dito verso la casa del suo vicino.
Il maresciallo Moscuzza assistette alla scena e decise di intervenire invitando Ciccio a presentarsi in caserma per stilare nei particolari la deposizione che avrebbe dovuto accusare Michelangelo del folle gesto.

II

Il maresciallo Moscuzza si mostrava prudente, anche perché era appena arrivato a Montelicona e voleva comprendere le dinamiche della cittadina, prima di prendere un'iniziativa. Non conosceva né Ciccio né Michelangelo, così, pensò bene di chiedere lumi al brigadiere Midolo, che era in servizio a Montelicona da quasi dieci anni. Appena saliti sulla gazzella chiese subito al suo subalterno.
- Brigadiere, conosce questi due strani personaggi? -
- Certo, signor maresciallo. A Montelicona li conoscono tutti. -
- Bene, me li presenta? Il Ricottaro perché è chiamato così? -
- Il soprannome lo lascia già intendere, si tratta di un produttore di latticini. È un tipo molto religioso, ma anche un fanatico del carnevale, e organizza spesso feste in maschera. Comunque tutti dicono che è una brava persona. -
- E del vicino che mi racconta? -
- Su Michelangelo si potrebbe scrivere un romanzo. È vedovo e non lavora. È alto e con un po' di pancetta, con capelli lunghi, unti, radi sulla fronte, dall'aspetto un po' trasandato, con una barba di qualche giorno perennemente a segnargli il viso. Ha una voce possente e dei modi decisi, che incutono timore. I suoi concittadini, incontrati singolarmente, lo trattano con indulgenza, ma, in nutrita compagnia, lo denigrano e lo sfottono sorridenti. E sa perché? -
- No, me lo dica lei. -
- Perché ha la stravagante idea di considerarsi un essere superiore. Ciò lo rende ridicolo e inquietante allo stesso tempo. Professa con estrema determinazione un'ideologia semplicistica, a suo dire ispirato da Dio, che lui chiama Grande Padre. Coloro che si credono normali non condividono le sue affermazioni e lo giudicano irrecuperabile, al punto da ritenere saggio non averci a che fare. Vive emarginato, perché il suo modo di pensare è ritenuto al di fuori d'ogni convenzione. -
Insomma, lo dipinse come un matto da legare.
- Ho capito. A quanto pare avremo molto lavoro da fare. - Chiuse il discorso il maresciallo Moscuzza.
Nel frattempo Michelangelo se ne stava tranquillo nella mansarda di casa sua e continuava a osservare la scena imperturbabile, come se la cosa non lo riguardasse. Era talmente svanito che il suo pensiero varcava i confini del sistema solare, e si spingeva lontano lontano, dove il comune mortale non avrebbe potuto arrivare, neppure con la più fervida immaginazione. Aveva deciso di appiccare l'incendio alla casa del vicino per liberare la contrada dal “maligno”. Cos'altro poteva fare? L'ignobile Ricottaro aveva avuto la sfrontatezza di contrapporsi all'indiscutibile “dottrina del Grande Padre”, praticando il “culto di Satana” e per giunta lì, a due passi dalla casa del figlio prescelto del Supremo. Perciò doveva pagare.
I carabinieri non tennero conto del fatto che lui aveva agito per rendere ragione al Grande Padre. Manipolati dal “genio del male”, lo fermarono e osarono rinchiuderlo, esercitando la loro autorità terrena. Ma che ne sapevano, gli esecutori dell'arresto, di saggezza e rettitudine? Che ne sapevano dell'astrattezza della loro giustizia? Ignoravano certamente la moralità delle regole divine e usavano, con mostruoso arbitrio, il potere che consentiva loro di relegare dietro le sbarre i loro simili. Perché mai non era concesso incendiare la casa del vicino, se questo era devoto di Satana? Ma l'azione di quei signori, tanto illegale quanto spregevole, fu quella di “sequestrarlo”, col preciso scopo di impedirgli di professare il culto del Grande Padre. Proprio così. Di sequestro si trattò! E i temerari non si preoccuparono di poter subire gravi ritorsioni. Eppure, aveva dichiarato chiaramente che le sue azioni erano decise dall'Altissimo. I carabinieri, arrestandolo, si rendevano complici di quel bieco Ricottaro che, professando una falsa ideologia, avrebbe spinto gli uomini verso il baratro.
Michelangelo affermava di non essere arrivato a Montelicona per caso, ma per professare il pensiero universale del Grande Padre e per pianificare le regole che ci governeranno. Invece, chi si trovava proprio nella casa vicina? L'essere ignobile, figlio del nemico. Come si sarebbe comportato il giudice se fosse stato lui il figlio prescelto del Grande Padre? Forse non l'avrebbe incendiato anche lui quel covo di miscredenti? Tuttavia, le eccezioni di Michelangelo rimasero inascoltate e, i suoi aguzzini, trincerandosi dietro un sorrisetto beffardo, lo isolarono, per non lasciarlo a contatto con i comuni ladri.
- Sarete puniti! - Esclamò. - Presto il Grande Padre mi raggiungerà e con Lui uscirò vittorioso dall'ingiusta galera. Allora capirete di aver perpetrato un grave sacrilegio, ma le vostre scuse non serviranno più. -
Le sue parole rimasero inascoltate e andò in collera. Fece presente agli aguzzini che il Grande Padre l'aveva dotato di libertà d'azione e del diritto alla parola, ma loro, con indifferenza, lo relegarono in un'umida cella. Prese a capocciate le sbarre della prigione, perché non ritenne giusto essere messo in gabbia, come un cardellino.
- Mascalzoni! Potrei uscire a mio piacimento, ma non lo farò, perché tocca a voi restituirmi la libertà. Liberatemi! Altrimenti ve ne pentirete! - Urlò.
La mattina dopo, lo trovarono accasciato con un vistoso ematoma sulla fronte e con un taglio, da dove il sangue era sgorgato copioso. Dopo averlo soccorso, lo portarono in infermeria e lo medicarono, ma Michelangelo non reagiva, respirava lentamente e i battiti cardiaci s'erano affievoliti tanto che il medico riusciva a malapena a contarli. Così lo trasferirono in ospedale, direttamente in rianimazione.
Quando si riprese, staccò le flebo dalle braccia e fracassò la cannula del respiratore.
- Dove m'avete portato, porco diavolo? Disgraziati, ve la farò pagare. -
Saltò giù dal letto e continuò a sfasciare tutto ciò che gli capitava fra le mani. Accorsero infermieri e portantini che tentarono inutilmente di bloccarlo, perché non sembrava un uomo, ma una belva inferocita. E siccome non era facile fermare un leone ferito, il medico pensò di addormentarlo con un'apposita iniezione soporifera.
- La puntura, la puntura! - Ordinò.
E gli infermieri accorsero armati di siringhe. Michelangelo scappò lungo il corridoio e gli altri lo inseguirono tentando d'infilzarlo e ridurlo all'impotenza.
Dopo una strenua battaglia, riuscirono nel loro intento e il figlio prescelto del Grande Padre cadde sotto l'effetto del sonnifero. Quando si svegliò, si ritrovò in un altro luogo, diverso dalla cella e dalla sala di rianimazione.
Nonostante minacciasse l'intervento del Grande Padre, non lo lasciarono andare, ma lo condussero in un altro reparto dove l'accolse un ometto dalla folta barba, che, pur indossando il camice bianco, a Michelangelo fece tanto schifo che non lo ritenne idoneo neppure a lavorare gli insaccati.
- Dove mi avete portato? Sei un lurido! Non è igienico lavorare i salumi con una barba simile. Farai mangiare i tuoi immondi peli agli ignari clienti. -
- Stia zitto! - Lo rampognò l'ometto.
- Io sono uno psichiatra, non sono un salumaio. -
Poi iniziò a tempestarlo di domande. Voleva sapere il come e il perché di quell'incendio e, di tanto in tanto, chiedeva anche del Grande Padre, nel tentativo di scoprire chi fosse e dove risiedesse.
- Eh, no! Tu non puoi investigare sul conto del Supremo. Non ne hai il diritto! - Contestò Michelangelo.
Ma il medico non se ne curò e proseguì il suo lavoro. Per poco, però, perché alla fine schizzò fuori dalla stanza come un furetto e se la diede a gambe lungo il corridoio, nel tentativo di fuggire dalle grinfie del matto.
- Aiutatemi, aiutatemi! - Urlò correndo trafelato.
- Ti stacco la testa, maledetto! - Minacciò il matto, inseguendolo rabbiosamente.
Alla fine tutto si risolse, come per incanto, grazie a un'infermiera dall'aspetto angelico, bionda, dal visino rotondo e dagli occhi verdi. Si trovò di fronte a Michelangelo e gli parlò con fare dolce e garbato. Il folle rimase abbagliato da tanta pacatezza e bellezza.
- Tu sei l'angelo inviato dal Grande Padre! - Esclamò praticamente a bocca aperta.
L'infermiera non rispose, ma un soave sorriso bastò a tranquillizzare il matto, il quale proseguì con una strana calma a chiedere notizie sul genitore. Dopo averlo fatto sfogare, lo assecondò con amorevole premura e lo rassicurò.
- Lui ti protegge. Non temere. Presto uscirai da questo luogo e potrai ritornare a casa. -
- Sì. È lì il mio posto. Da casa mia, per mezzo mio, saranno impartite le regole dettate dal Grande Padre. -
Dopo un lungo ciclo di cure, scagionato dai pompieri, che trovarono in una stufa difettosa la causa dell'incendio, Michelangelo ritornò a casa. Imbottito di calmanti, iniziò un periodo di relativa tranquillità.

III

Montelicona era contornata da montagne coperte da folti boschi che conferivano loro l'aspetto di un immenso ombrello verde. In quella quiete, debilitato dalle cure, Michelangelo trascorreva in dormiveglia le sue lunghe giornate. Lo infastidivano soltanto i cani, che latravano di continuo, mettendo a nudo le loro ansie, forse dovute al fatto di aver fiutato qualcosa d'insolito.
Un giorno come tanti altri, se ne stava disteso sul letto a fissare il soffitto. Dopo un po' credette di vedere un lungo tunnel, in fondo al quale scorgeva un puntino luminoso. Il tunnel sembrava infinito, tanto che Michelangelo non riusciva ad avvicinarsi al puntino luminoso. Più lo percorreva e più la luce si allontanava, come fosse stato l'effetto di un grande elastico. Solo che l'elastico a furia di stirarlo alla fine si spezza, al contrario del tunnel che, più lo percorreva e più si allungava. Credeva di essere chiamato e di sentire una voce giungere flebile a causa di una distanza inimmaginabile.
- Michelangelooo! Michelangelooo! -
Chi avrebbe potuto chiamarlo dall'aldilà del tunnel se non il Grande Padre?
- Michelangelooo! Michelangelooo! -
- Sei tu, o mio nobile Padre? Eccomi! Arrivo! -
- Non puoi, Michelangelo, non puoi. Devi prima di tutto divulgare le nostre regole. Bada alle pecorelle: fa' che non si smarriscano. -
- Le pecorelle smarrite! - Esclamò Michelangelo ormai in estatica beatitudine.
Dopo poco si scosse da quella indescrivibile sensazione e, per associazione di idee, gli tornò alla mente quanto fosse pericoloso lasciare le pecore al pascolo, al loro destino. Lo sapeva bene, ma, ultimamente, l'aveva riscoperto attraverso le dicerie da bar su Carmelo ‘u Jaddu, che, a causa di un certo vizio, s'era ridotto povero in canna. Carmelo razzolava nel pollaio degli altri e trascurava il suo gregge, abbandonandolo al pascolo per ore. Per questo lo soprannominarono ‘u Jaddu, ovvero il gallo. Trascorreva le sue giornate in letizia, ora qua, ora là. Era impegnato a rallegrare le massaie, che avevano trovato il modo di alleviare le loro pene, poiché i giorni trascorrevano duri e noiosi anche per loro, ma il suo gregge si assottigliava sempre più, perché alcune pecore si smarrivano e altre finivano a ingrossare gli ovili dei mariti traditi che intendevano rifarsi delle corna subite. Ma l'onore era sempre la cosa più importante da difendere, e Michelangelo non faceva certo eccezione. Propagandare le proprie idee era per lui una questione d'onore. S'intratteneva con chiunque lo stesse ad ascoltare e cominciava a predicare con l'obiettivo di far comprendere al prossimo che i comuni mortali si arrogano dei diritti che mai nessuno ha concesso loro. Spesso amava chiedere retoricamente:
- Perché puniscono con la galera un poveretto che, per estremo bisogno, va a rapinare la banca di Montelicona, la quale, per altro, mette in circolazione mazzette di banconote non buone, poiché non autorizzate, né dal Grande Padre né dal diretto discendente? -

Michele Carini

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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Lisa Ginzburg Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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