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Autore: Michele Carini
L'amico di Jano
Narrativa
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L'amico di Jano
Barcellona Pozzo di Gotto, 1979.

Si trovava sotto il grande pero che i suoi avi avevano piantato davanti la fattoria. Parlava con la zia Sara delle proprietà di famiglia, dei migliori pascoli e dei prodotti del caseificio. Elogiava con calore i prodigiosi poteri della pietra nera che tanta importanza aveva avuto nella sua esistenza. La dolcezza di quel momento, però, durò poco perché man mano prendeva coscienza delle contraddizioni che lo caratterizzavano. Infatti, sua zia era mancata già da più di trent'anni. Inoltre, la pietra nera non era più in suo possesso ed era ormai impossibile per lui trovarsi alla fattoria della sua famiglia. Cominciò quindi ad agitarsi per l'evidenza di quella assurdità. Si rese conto di essersi appena svegliato. Era avvilito e notevolmente intristito per la volatilità di quella bella sensazione. A quel punto adottò un'antica tecnica per rimediare al suo penoso stato emotivo. Si concentrò sui suoni provenienti dal suo stesso corpo, ascoltò il battito cardiaco nelle sue tempie, assunse il controllo della respirazione, si concentrò sulle sue funzioni vitali. Cercò a lungo di assumere la giusta disposizione mentale per meditare e riuscì a calmarsi fino a raggiungere uno stato estatico. L'incrollabile fiducia nella missione che caratterizzava la sua vita e l'assoluta convinzione del significato soteriologico della sua esistenza lo illudevano di poter riuscire a realizzare qualsiasi cosa. Però, nonostante l'indubbia valenza del suo esercizio spirituale, la beatitudine fu di breve durata. Tornò a poco a poco in uno stato di coscienza che lo riportò serenamente alla realtà che lo vedeva rinchiuso in una cella fatiscente dell'ospedale psichiatrico giudiziario Vittorio Madìa di Barcellona Pozzo di Gotto.
Quella notte la sua mente rimase in piena attività e in stato d'allerta per ogni minimo stimolo proveniente dall'esterno, solo impercettibilmente disturbata dalla cruda realtà della degenza forzata. Era una dura prova, ma al momento, le uniche possibilità di fuga da quell'incubo erano proprio i sogni. Il raccoglimento in silenzio, che era indispensabile per giungere al suo scopo, era spesso turbato dalle grida degli altri pazienti posti in misura di sicurezza.
Quando si addormentava era angustiato ancora di più dalla consapevolezza che al successivo risveglio sarebbe stato inevitabilmente ancora in cattività. Sempre più frequenti erano state le notti nelle quali si era immerso in fantasie di libertà e, per nulla patendo condizioni igienico-ambientali al limite del lerciume, aveva accompagnato i sinistri rumori della notte con un russare cadenzato e leggero.
Le dosi degli psicofarmaci che gli venivano somministrate erano tali da farlo godere di un buon sonno ristoratore per tante ore. Ma dopo quella notte fatidica in cui sognò di sua zia Sara e della fattoria, al risveglio, i sorveglianti lo trovarono vivacemente attivo ed energicamente presente nonostante la contenzione chimica. Tutto ciò rendeva il loro lavoro tutt'altro che agevole. Sapevano di essere di fronte a un caso difficile.
Michelangelo Scalisi era stato internato da pochi mesi, ma non era la prima volta che subiva trattamenti sanitari obbligatori per il suo stato mentale fuori dalla norma. In seguito alla tragica scomparsa della sorella era stato fermato in preda al delirio. Durante gli interrogatori aveva pianto per la scomparsa dell'amata sorella e per la sua povera moglie malata, ma aveva anche raccontato candidamente di avere ucciso quest'ultima e di averne bruciato i resti nella stufa. Questa volta era stato processato per direttissima. La Corte d'Assise di Montelicona, visti i precedenti e preso atto della perizia di uno psichiatra, non aveva avuto alcun dubbio sulla necessità di disporre per lui un trattamento d'igiene mentale obbligatorio. Era stato quindi destinato al Vittorio Madìa di Barcellona. Nell'ospedale psichiatrico giudiziario l'aveva preso in cura il dottor Buccheri, il quale non aveva affatto velato un certo fastidio nell'apprendere di essere diventato il responsabile della sicurezza e della salute mentale di un criminale reo confesso di uxoricidio e occultamento di cadavere. Tra l'altro, la prognosi per Scalisi era ancora doverosamente incerta e il suo trattamento era inevitabilmente orientato all'ottenere una sua docilità tollerabile e duratura per poter affrontare in sicurezza almeno le sedute psicoterapeutiche. Il dottor Buccheri, forte della sua esperienza, aveva rinviato di giorno in giorno la sua prima visita sperando di aumentare le probabilità di rendere la sua opera efficace per il paziente.
Ogni mattina, dopo aver dormito malissimo e aver fatto sogni assurdi, Michelangelo attaccava bottone con chiunque gli si avvicinasse. Di solito, dopo poche battute abbastanza civili, si sentiva in obbligo di colloquiare amabilmente, finché non cominciava a diventare franco ed esplicito e infine a protestare e a inveire contro i sorveglianti perché, secondo lui, erano rei del sopruso di costringerlo a rimanere in quella condizione di recluso. Al Madìa simili situazioni si erano già verificate in numerose occasioni con altri detenuti, ma dopo poco tempo le cure trattamentali erano sempre riuscite a calmarli e a rendere più agevole la loro gestione. Con Michelangelo, però, la solita procedura sembrava non funzionare, anzi, l'aggressività verbale del detenuto cresceva ogni giorno, ora dopo ora, finché, nonostante le innumerevoli esperienze con i casi più disparati, i sorveglianti non si videro costretti a implorare il dottor Buccheri di anticipare i tempi della somministrazione dei farmaci, oltre che a rivederne il dosaggio. Il dottore accolse le richieste degli infermieri e dei secondini e, già il giorno dopo le loro rimostranze, dispose l'impiego della nuova terapia studiata per ottenere una contenzione chimica più efficace.
Due giorni dopo, al risveglio, Michelangelo si era rivolto sospettoso al secondino che gli aveva portato la colazione in cella. L'aveva prima interpellato per capire cosa volesse fargli mangiare e poi l'aveva tempestato di domande ripetendo peraltro sempre le stesse per diversi minuti. Infine, l'inesperto agente penitenziario lo interrogò ad alta voce chiedendogli a quale domanda dovesse rispondere. A quel punto Scalisi pensò di aver trovato un interlocutore e cercò di non perdere l'occasione.
- Chi sei? Cosa mi porti in quel vassoio? - gli chiese dando teatralmente l'idea di averlo visto entrare nella cella solo in quel momento.
- Buongiorno signor Scalisi! Sono Mario, non si ricorda di me? Le ho portato la colazione, e non è la prima volta. Ha fame? -
- Bene! Era ora che qualcuno venisse per servirmi. Questo è più importante di qualsiasi cibo. -
- È il mio lavoro, dovrebbe saperlo ormai - rispose il secondino, mentre vuotava il vassoio sul tavolino della cella.
In effetti, Mario era stato assegnato a quel reparto da pochi giorni, subito dopo essere stato formato.
- Chi ti ha mandato? Il Grande Padre, vero? -
- Che sta dicendo? Il responsabile del reparto, vorrà dire. -
- E al responsabile del reparto chi gliel'ha suggerito, secondo te? -
- Il regolamento dell'O.P.G. -
- E il regolamento chi l'ha stabilito? -
- Il Ministero. -
- E al Ministero chi gliel'ha ispirato? -
- Che gioco è? Basta adesso! - sbottò Mario.
- Ah! Non lo sai? Te lo dico io, allora: è stato il Grande Padre! È Lui che decide tutto e che tutto può. Lo dovresti sapere, ma non ti preoccupare: te lo spiegherò io... -
- Io non ho tempo da perdere per ascoltare le tue follie - rispose il secondino passando rabbiosamente al tu e avviandosi all'uscita.
- Fermati! Dove credi di andare? Io non ti ho ancora congedato! - urlò Michelangelo.
Mario non si scompose, uscì e richiuse la cella alle sue spalle, incalzato dalle rimostranze dell'internato.
Ogni contatto di Michelangelo con i sorveglianti era sempre dello stesso tenore e i toni erano sempre più accesi, così, il dottor Buccheri, che era il responsabile del reparto, rinviava la sua prima visita psicanalitica di giorno in giorno, in attesa di tempi migliori. D'altronde, avrebbero avuto almeno dieci anni di tempo per sanare la sua mente malata, ammesso di poterci riuscire. Quello era infatti il tempo minimo di messa in sicurezza per un malato di mente che avesse commesso gravi crimini. Tempo che, secondo la sentenza del tribunale, in caso di insuccesso, avrebbe dovuto intendersi mutato a indeterminato. Quindi, per chi era davvero malato, c'era una certa probabilità di non uscirne più, a meno di miracoli della scienza medica. Miracoli che, in quel campo, di certo non erano all'ordine del giorno.
Dopo cinque giorni di stress accumulato per le crescenti difficoltà per congedarsi pacificamente da Michelangelo, l'agente Mario Scordamaglia andò dal responsabile del reparto per lamentarsi e per farlo aveva pensato di metterci una certa enfasi. Quando entrò nell'ufficio del dottor Buccheri fu accolto con gentilezza e venne messo in condizioni di esporre serenamente le sue rimostranze. Giunse così a ventilare l'ipotesi di chiedere di essere spostato ad altro incarico nel caso non fossero stati presi dei seri provvedimenti per ridurre il rischio di essere aggredito da quel particolare detenuto. Il dottor Buccheri non fece altro che ascoltare il subalterno premurandosi di tranquillizzarlo parlandogli con molta pacatezza e serenità della delicatezza del compito che avevano tutti i lavoratori dell'OPG, focalizzando la sua attenzione sulla responsabilità che l'intero staff del Madìa aveva nei confronti di esseri umani più sfortunati. Gli parlò più da salmodiante che da caporeparto di un penitenziario. Gli parlò delle virtù di pazienza, costanza e professionalità di cui si dovevano avvalere per gestire quelle situazioni e divagò a lungo sulle strategie che secondo lui sarebbero state più idonee per adempiere al meglio alla loro delicata missione, non senza celare le sue velleità di carriera, nonostante la stabile posizione del suo superiore, il direttore generale dell'O.P.G., il dottor Ernesto Mirabile. Infine lo congedò placidamente rassicurandolo che, in ultima ratio, avrebbe fatto ulteriormente aumentare il dosaggio degli psicofarmaci da somministrare a Scalisi.
Mario uscì dall'ufficio del dottor Buccheri più confuso che ammansito dal sermone e, comunque, per niente persuaso che i suoi timori fossero davvero infondati. Inconsciamente insoddisfatto, rimase di pessimo umore per tutte le lunghe ore di lavoro trascorse tra le celle e i corridoi del Madìa fino alla fine del turno, quando, finalmente, si diresse verso casa.
Mario Scordamaglia era diventato un agente penitenziario da pochi mesi. Era stato assunto solo qualche settimana dopo l'arrivo di Michelangelo Scalisi. Non poteva dirsi soddisfatto del lavoro che faceva, ma era ancora troppo grande la gioia per aver ottenuto quel posto per poter seriamente pensare di mollarlo. Pensava spesso a quello che avrebbe preferito fare invece di sorvegliare i detenuti, ma a casa l'aspettavano la moglie incinta, ma anche l'affitto, le bollette e tutte le altre spese da pagare. Quel lavoro era troppo importante per farsi intimorire da un matto. Del resto, avrebbe dovuto avere a che fare con matti per tutti i giorni della sua vita lavorativa all'OPG.
I suoi genitori avevano una bottega di ortofrutta e, prima di ottenere quel lavoro, li aveva aiutati regolarmente, ma il commercio, negli anni, era andato sempre più riducendosi, così aveva pensato bene di fare altro, visto che non c'era da attendersi di poter ricavare da quell'attività sostanze sufficienti per due famiglie. Altro motivo che lo costringeva a doversi ritenere fortunato per avere ottenuto quel posto era il fatto che sua moglie era disoccupata e ancora piuttosto indecisa su quello che avrebbe voluto fare. Quella fonte certa di reddito era proprio indispensabile. La gravidanza li aveva sorpresi impreparati e, dopo diversi mesi, si stavano ancora rimboccando le maniche.
Quel giorno, Mario pensò che fosse il caso di non portare con sé fino a casa le tossine del lavoro. Decise di recitare la parte di chi fa allegramente il proprio dovere senza difficoltà e senza preoccupazioni.
Il giorno dopo, tranquillizzato dalla celere decisione del dottor Buccheri di applicare al detenuto Scalisi un'ulteriore variazione della terapia, Mario si accinse a portargli il pasto con maggior fiducia. Sbloccò la porta ed entrò tranquillamente nella sua cella con il vassoio in mano. Michelangelo sembrava dormire ancora, così l'agente lasciò il cibo sul solito tavolino e si apprestò ad andarsene, ma quando era già di spalle, proprio sull'uscio, si sentì chiamare con un vocione cavernoso. Si voltò con una certa strizza e lo vide ancora sdraiato, con solo il volto faticosamente girato in una direzione approssimativamente orientata verso di lui. Si sentì in dovere di rispondere:
- Sei sveglio? Bene, cosa vuoi? -
- Voglio sapere perché mi avete avvelenato! - rispose Michelangelo con una voce già più simile alla sua solita.
- Nessuno ti ha avvelenato. Perché? Stai male? -
- Non vedi che non riesco a muovermi? -
- Stai tranquillo, fra poco riuscirai ad alzarti e potrai rifocillarti. Sei solo un po' intorpidito dal sonno. -
- Ma che sonno e sonno! Mi avete drogato! Appena riuscirò ad alzarmi, e con l'aiuto del Grande Padre ci riuscirò presto, stanne pur certo, vi farò pentire di avermi mentito e di avermi avvelenato! -
- Io non c'entro niente! Non prendertela con me. Io ti porto persino da mangiare in camera! Ora vado ad avvisare il dottor Buccheri. È con lui che devi protestare - disse Mario, mentre lo richiudeva in cella.
L'inesperto secondino corse fine all'ufficio del dottor Buccheri e gli fece un rapporto piuttosto allarmistico. Il responsabile del reparto rimase sorpreso dal resoconto del suo subalterno e meditò a lungo sulla strategia da intraprendere per ridurre il paziente a un livello di docilità tale da essere gestito senza rischi per i sorveglianti, ma anche senza eccessivi rischi per la sua salute. Innanzitutto lo fece monitorare ancora qualche ora scoprendo ben presto che, non solo la paralisi era stata scongiurata, ma che Michelangelo sembrava essere stato un ottimo attore. Era evidente che avesse percepito un effetto più importante rispetto a quello dei soliti farmaci cui era abituato e che avesse attribuito la differenza al cambio di terapia e che quindi avesse inscenato la recita della paralisi per tentare di tendere un tranello al secondino. Ma Mario, grazie alla sua seppur breve esperienza, aveva prudentemente evitato ogni rischio ed era andato a denunciare l'anomalia. Il dottor Buccheri, se possibile, era ancora più prudente, anche perché aveva esaminato attentamente la sentenza della Corte d'Assise di Montelicona completa delle motivazioni e dei referti medici che descrivevano minuziosamente le turbe psichiche per le quali il detenuto era ritenuto innanzitutto un pericoloso criminale, oltre che un povero malato di mente. Inoltre, ricordava che alcuni anni prima Michelangelo aveva avuto modo di farsi temere per la sua irascibilità e per la sua imprevedibilità. Ricordava bene che il dottor Pistilli, un collega di cui aveva un vago ricordo risalente a uno scambio di opinioni su alcune tematiche inerenti la loro professione, aveva avuto in carico Scalisi per un trattamento sanitario obbligatorio. Pistilli gli aveva illustrato il caso e gli aveva accennato a un trattamento che gli avevano imposto in seguito a deliri ed escandescenze derivanti dall'eccesso di proteste a causa di un fermo che aveva subito per l'accusa di aver appiccato il fuoco alla casa del vicino. E ricordava ancora meglio che il collega che lo aveva dovuto psicanalizzare si era incautamente avventurato in una seduta a tu per tu col paziente senza applicare alcuna contenzione. In soldoni, aveva poi saputo che il dottor Pistilli aveva rischiato di essere strozzato ed era dovuto fuggire precipitosamente fuori dall'ambulatorio ed era stato rincorso furiosamente da Michelangelo per i corridoi dell'ospedale e chi aveva cercato di frapporsi era stato travolto e scaraventato a terra. Solo la visione di una bella infermiera aveva distratto e ammansito il matto permettendo al dottor Pistilli di evitare guai peggiori. Ebbene, lui, il dottor Buccheri, non avrebbe fatto lo stesso errore. Già da anni gestiva i peggiori matti dell'isola e sapeva bene di non doversi fidare.
Fu così che qualche giorno dopo organizzò la prima seduta con due semplici accorgimenti: una dose supplementare di calmanti e una robusta camicia di forza. Certo della sua incolumità fisica si accinse a fare il suo dovere. Si avviò verso la cella di Michelangelo Scalisi, si fece aprire la porta dal secondino e varcò la soglia. Cominciò subito a parlargli lentamente, scandendo chiaramente le parole. Gli spiegò che avrebbero fatto solo una conversazione, una conversazione nella quale gli avrebbe posto domande semplicissime, tipo come si chiamasse, quanti anni avesse, dove avesse abitato e cosa avesse fatto nella vita. Ma il suo tono amichevole non produsse gli effetti sperati. Il dottor Buccheri non tardò a ottenere delle risposte piuttosto perentorie:
- Mi chiamo Michelangelo, e lo sai già, buffone! Quanti anni ho non ha alcuna importanza, e lo sai, buffone! Dove abitavo, lo sai già, buffone! Cosa faccio nella vita te lo spiego io, visto che ancora oggi né tu né gli altri tuoi scagnozzi l'avete ancora capito! Io faccio quello che Lui mi ha ordinato di fare e nessuno potrà mai evitare che io faccia ciò che Lui ha già deciso che debba fare! Io sono colui il quale dovrà fare applicare le leggi del Grande Padre, dovrà fare punire gli uomini malvagi e ammaestrare gli uomini buoni, che dovranno sottomettersi alle regole che Lui mi detterà. Tu, per esempio, ti atterrai alle regole o dovrò punirti? -
- Mi atterrò alle regole se le riterrò giuste - disse conciliante il dottor Buccheri.
- Certo che saranno giuste! Me le detterà il Grande Padre! Vorresti dubitarne forse? -
- Io non conosco nessun Grande Padre. -
- Te ne parlerò io! Intanto devi capire che il Grande Padre non si manifesta a tutti. Io ho questo privilegio perché sono il figlio prescelto... -
- Questa storia mi ricorda qualcosa... -
- Fermo! Zitto! Ho capito! Tu sei uno di quelli che sono ancora convinti che mio cugino Cristo abbia compiuto la sua missione. Dovrete imparare a capire che è assurdo! Quello era troppo buono! Non avrebbe mai potuto combinare niente, e infatti tutti sappiamo che fine ha fatto. Io invece non mi farò impietosire! Farò schioccare la frusta per i cattivi e assicurerò al giogo i buoni. E per chi proprio non vorrà comprendere vorrà dire che sarà Lui stesso a fargliela capire. -
- Mi dispiace, ma io sono ateo - disse pacatamente il dottor Buccheri.
- Finché non lo vedrai con i tuoi occhi, caro mio! Io comunque non starò qui a salvarti quando Lui deciderà di farti vedere un barlume di verità. E sta' pur certo che lo farà in una maniera terribile. -
- Ti ho già detto che non credo nel tuo Dio. E ti devo rammentare il dato di fatto che dovrai stare in questo istituto per almeno dieci anni e che decideranno altri per te? E quello che decideranno dipenderà dalla tua salute, e di questa si occupano i medici, non il tuo credo. -
- Smettila di dire idiozie! Io sono il prescelto! - urlò furibondo alzandosi minacciosamente in piedi.
- Fermati! Dove credi di andare? Io non ti ho autorizzato ad alzarti! - cercò di contenerlo lo psichiatra.
- Ora te lo spiego meglio! - urlò Michelangelo, mentre barcollando cadeva in avanti centrando il dottor Buccheri con una decisa testata al volto.
Le grida attirarono il secondino che accorse in soccorso del dottore. Lo trovò per terra col volto insanguinato, mentre l'internato si era seduto diligentemente al suo posto.
Il dottor Buccheri se la cavò con pochi danni, ma rimase scosso abbastanza da dover rimanere a casa per diverse settimane. Nel frattempo si occupò del caso lo psichiatra che già dirigeva il reparto attiguo. Visto quanto era accaduto, il nuovo responsabile, il dottor Briguglia, o meglio, il Porretto, così come lo chiamavano al Madìa per il notevole porro eretto giusto in centro di fronte, cercò di ridurre i rischi al minimo, rinunciando di fatto a ogni contatto con Michelangelo. Se ne occuparono quindi gli stessi secondini che lo avevano gestito fino al momento fatidico dell'aggressione al dottor Buccheri. Tra questi c'era Mario che avrebbe preso a cuore la faccenda, nonostante i suoi propositi iniziali di restare gelidamente distaccato.

Michele Carini

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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