Schizzi d'inchiostro su un foglio malamente piegato e un po' sgualcito. Lo apro e un soffio di vento ghiacciato mi appanna gli occhi.
Sono qui sul ballatoio con la cesta dei panni, anche oggi asciugo al vento le lacrime delle mie speranze. I pensieri corrono liberi su aguzze pietre di ghiaccio. Un vociare giù nel cortile mi fa ruzzolare nell'aria di Milano, mi affaccio meglio alla ringhiera, vedo il postino. Caterina piagnucola, mi tira il grembiule e mi ricorda che esiste... — Sì, sì hai ragione, ora ti preparo la pappa! No, non è un postino, ha una grande borsa di pelle a tracolla come un postino, ma non lo è. Chiacchiera con la Pia: è anziana, sta tutto il giorno seduta nel cortile, parla con tutti e studia i movimenti delle persone, la sua lingua va più veloce della sua immaginazione. Dopo poco tutti sanno tutto di tutti, e anche di più. Agitano le braccia e guardano in alto, verso i balconi. Io l'ho già visto quello lì, è un messo comunale. Cammina leggero, ha scarpe con suole di aria bucate da troppa vergogna, è consapevole del peso che porta. Due settimane fa è stato qui e ha consegnato una lettera a una famiglia del primo piano: ha comunicato la morte del figliolo, era sul Carso. Chissà a chi toccherà stavolta.
— Signora, signora... —, mi volto di scatto. — Lei è la signora Colombo? —, prima ancora che le mie orecchie abbiano trasmesso quelle parole alle mie certezze il cielo crolla nei polmoni e si rifugia dentro. No, non ci credo, non è possibile. Solo pochi giorni fa ho ricevuto una lettera di Giuseppe, racconta uno strano episodio che gli è accaduto sulla cima di una montagna, di notte: parole dense e pesate, come suo solito. Non può essere, non è giusto, ha sempre detto che era al sicuro.
Dieci giorni sono passati, dieci giorni di angosce. Non ho più lacrime, non ho più pensieri. Il vuoto riempie i miei occhi, e nel vuoto c'è solo incredulo dolore. Brandelli di memoria rubano avidamente spazi a un futuro di corvi. Caterina tiene le mie mani, mi guarda e sembra che mi guardi lui, cerco di sorriderle. Non ha nemmeno due anni, ma comprende l'angoscia dei miei pensieri. La guardo, è bella: — Come farò a crescerti senza il tuo papà? Mi fissa, sembra mi legga nell'anima. I suoi occhi dicono: — Stai tranquilla mamma, ci sono io. Camminerò sempre vicino a te, non ti lascerò mai. E poi non c'è scritto che è morto, è disperso.
Sono venuti a trovarmi i parenti e anche alcuni amici. Mi hanno molto tranquillizzata. Tutti parlano con voce calma e monotona, stringendomi amorevolmente le mani e sorridendomi dentro agli occhi. Emergono racconti di soldati dispersi improvvisamente comparsi sull'uscio di casa dopo molti mesi dalla sparizione. Credo anch'io che andrà così, che Giuseppe tornerà. Ho parlato con il nostro parroco: — Fede e forza! — dice con una malcelata aria di rimprovero, quasi provocando in me sentimenti di disagio. Mi accompagna al comando militare, chiedo notizie, ma non riesco a ottenere nulla. Sono tutti indaffarati, corrono a destra e a sinistra: — aspetti qua... si sieda qui... adesso vediamo... Dopo tre ore ce ne andiamo. Ho scritto al suo comandante. Sinora ho ricevuto risposte come la probabilità che qui nevichi a ferragosto. I giorni passano lenti, dilatati, tutti uguali. Ogni tanto esco sul ballatoio, mi appoggio alla ringhiera e guardo giù nel cortile: la Pia non c'è più, sarà forse malata. Rientro e prendo in braccio Caterina, le canto una canzone sottovoce, come faceva lui quelle poche volte che gli hanno dato la licenza e l'ha stretta fra le braccia, con sguardo di bimbo e la paura di romperla.
Fine novembre. La guerra è finita, ma non per me. In ottobre ho cercato di salire in Valtellina, dove stava facendo la guerra. Avrei voluto entrare dietro agli occhi dei suoi capi e carpirne verità che non desideravo sentire. Ho lasciato Caterina a una famiglia giù al primo piano. Non sono riuscita ad arrivare oltre un paese che si chiama Tirano, in treno: posti di blocco militari dappertutto hanno respinto la mia volontà. Ho rinunciato, e non so nemmeno cos'avrei potuto fare. Dovevo farlo e basta. Sono rientrata in casa, in cucina ho bevuto un bicchiere d'acqua e mi sono lasciata andare sulla sedia. Una densa nebbia mi ha fatto girare la testa, ho visto di fronte a me la mia mano stringersi senza che glielo dicessi e un forte pugno si è abbattuto sul tavolo, seguito da un grido strozzato: il mio. Il dolore mi ha invaso.
Quest'inverno ho ricevuto tre lettere da quel commilitone di cui parlava molto spesso, Gervasio si chiama. Dev'essere una brava persona, gli ho risposto e l'ho ringraziato. Ha uno strano modo di scrivere, di esprimersi, semplice ed essenziale, ma incisivo. L'ho pregato di darmi tutte le notizie in suo possesso, di dirmi tutto quello che sa, di parlarmi dell'episodio avvenuto su quella montagna, di quel ‘fatto d'armi' annegato nel cielo a quattromila metri. Era presente anche lui, mi dirà meglio a voce. Voglio fissarlo negli occhi quando mi parlerà. Appena se ne va via la neve voglio tornare lì, non ci saranno più posti di blocco militari. Lo cercherò, lo troverò. Non può essersi dissolto così, nei rimbombi di quella battaglia.
– 1919 – Oggi è il giorno 18 di giugno del 1919 e sono arrivata qui in Valtellina con la mia piccola. Alloggio presso una signora che ha perso il marito durante la guerra, vive con la sorella, parla poco e tiene sempre lo sguardo rivolto verso il basso. Si accorge che sta piovendo perché vede la terra bagnata, se c'è tempo bello i suoi passi sollevano una piccola nuvola di polvere. Anche lei è triste. Sono da poco giunta in casa. Appena entrata mi sono sentita svuotata più che stanca. Dopo alcuni convenevoli con la proprietaria – la signora Maria – ho cominciato a mettere a posto le mie cose nella stanza che mi ha dato, ma i miei gesti sono rallentati, i miei ricordi corrono in tutti gli angoli alla ricerca di cose che non so. Il mio corpo è qui, con il mio desiderio, ma i miei pensieri sono rimasti, sfilacciati, lungo il percorso che da questa mattina mi ha accompagnato. Prendo un po' di confidenza con l'aria immobile e silenziosa di questo nuovo ambiente, Caterina dorme, inconsapevole. La valigia scoppia, per fortuna è ben legata con un grosso spago. La apro, straripa di cose inutili. Sul fondo, sotto la tela, compare un rigonfiamento, s'intravvede una sagoma, di paura. Con le mani l'accarezzo e i miei pensieri precipitano in un pozzo nero di cui non conosco il fondo. Senza dirmi niente, lo zio ha messo la pistola di papà, l'avrà fatto quando sono scesa a salutare la Pia. Perché? Il sangue mi va in acqua, una nebbia invernale mi appanna la vista. Con una rapida mossa la infilo sotto al materasso, ci sarà tempo per pensarci. Sto calmando l'ansia che mi è penetrata sotto le unghie quando, da basso, sento suonare il campanello: due tiri di corda ben staccati e decisi. Rumori di passi sulla scala di legno e compare la signora: - C'è giù un compagno di suo marito, vuole parlare con lei - . Scendo subito e sulle scale mi rassetto i capelli, ricordandomi di aver ancora nel fondo della coscienza un po' di dignità di donna. - Buongiorno Luisa - . È un uomo non tanto alto, un po' tarchiato e con le mani forti e nerborute. Ha occhi grandi di bambino e uno sguardo buono, anche se apparentemente si presenta burbero. Il naso pronunciato, tiene il cappello in mano, lo rigira piuttosto nervosamente e mi colpisce il suo viso: è bruciato dal sole e sulla fronte ha, un po' inclinato, un evidente segno lasciato dal cappello; sopra, la pelle è bianchissima, evidentemente quando è fuori all'aria lo tiene sempre calcato in testa e nello stesso posto. È lui, lo riconosco dalle fotografie, è Gervasio. Non so come facesse a sapere il giorno esatto del mio arrivo, non gliel'avevo detto e anzi per la verità non l'avevo nemmeno programmato. - Gervasio? Buongiorno, finalmente ci conosciamo - . Ci scambiamo delle parole di rito ma lui sembra staccato. Parla con voce bassa e ha lo sguardo sfuggente, forse è timido. I suoi occhi scrutano la mia anima, il suo istinto mi sta studiando. Oltre che compagno d'armi di mio marito era anche diventato il suo migliore amico, quasi un suo confidente. Domani è il suo onomastico: qui è un grande giorno. È la festa del Patrono del paese, si chiama proprio Gervasio. I Patroni, mi hanno detto, sono due: san Gervasio e san Protasio. In questo giorno qui c'è una grande fiera, un importante mercato al quale confluiscono tutti gli abitanti delle valli limitrofe, c'è chi vende e c'è chi compra, c'è chi scambia merci o prodotti. Me ne aveva parlato anche lui. Non vedo l'ora di scoprire questi luoghi. Sarà per me impegnativo, ma ci riuscirò, vi saranno molte difficoltà, non solo fisiche, ma le supererò. Da quando mi hanno portato quel telegramma, quello scarno messaggio ‘suo marito è disperso...', è esplosa dentro una determinazione quasi irrazionale che sinora era rimasta nascosta nelle viscere del mio cervello. Impulsi non comandabili mi trascinano in profondi vortici di rabbia, non ne provo paura. Domani il Gervasio mi accompagnerà a conoscere altri due suoi compagni che hanno combattuto su questi monti: voglio parlar loro e cercare di capire di più le cose. Non mi rassegno, non può essere che non ne abbiano trovato almeno il corpo. Sento che c'è, è da qualche parte. È ancora vivo. Per me. Forse non può. *** Troppa neve sui monti. Alle quote più alte tutto è ancora coperto. Intanto ho conosciuto alcuni di loro, in particolare quella guida di cui lui spesso mi parlava. Non faceva parte della sua compagnia, è una persona veramente incredibile. Di un'arguzia rara e di un'intelligenza profonda, solo a guardarlo negli occhi si capisce. In qualche momento ha persino uno sguardo furbo, di chi ne è consapevole. I suoi occhi sono scavati e brillano quando parla di quello che ha vissuto e l'ha colpito particolarmente, in cui è concentrato. Si tuffa in un lago di montagna, sprofondando ed emergendo con paura e compiacimento contemporaneamente: uno specchio dentro il quale rivive se stesso. Sentendolo parlare, ascoltandolo, ci si immedesima nel cuore delle parole e in questo si è sicuramente aiutati dai gesti che fa con le mani, rapidi e precisi oppure ampi e lenti, mai esagerati e sempre appropriati, perfettamente attinenti al discorso e centrati con ciò che sta raccontando. Cambia tono, abbassa il volume della voce, ti guarda con astuzia ma poi sorride, ti fa entrare nel racconto, anche con brevi pause che paiono eterne e ti lasciano col fiato sospeso: sembra quasi di vivere quei momenti. È un uomo di mezza età, era andato volontario perché voleva dare un concreto aiuto alla patria, conosce molto bene i suoi monti, ne ha percorso ogni angolo. Sotto la pelle sente il vento, nelle narici odore di buio, negli occhi scrosci di pioggia, nel cuore la calma di tramonti tutti uguali, ma diversi. Ha un viso ossuto, il pizzetto glielo allunga ancora di più e già presenta qualche filo d'argento. Anche le sue tempie, ormai, cominciano a segnare gli anni. Mostra un'energia da ventenne, parla solo del futuro. Il passato – dice – è passato, anche se nelle sue parole mostra grande importanza per le esperienze vissute, per quelle prove che giorno dopo giorno contribuiscono a formare la persona. È bello chiacchierare con lui: dà molta attenzione e ascolto quando parli. Quando esprimi un dubbio, magari un po' sciocco oppure ingenuo, con pazienza e senza mai farti sentire in difetto, o a disagio, ti spiega e alla fine te ne fa capire la semplicità; quasi ti vergogni e dentro di te lo ringrazi per non averti fatto provare umiliazioni nei confronti dei presenti. Non è un uomo di grande corporatura, ma si presenta austero: è indubbiamente carismatico. Standogli vicino si colgono subito queste qualità e si capisce perché gli erano stati dati incarichi importanti, che sapeva brillantemente portare a termine con un manipolo di validi uomini che gli obbedivano e avevano per lui grande rispetto. Quella stima sicuramente se l'è guadagnata sul campo, stando in prima posizione. Probabilmente nelle azioni alpinistiche e militari era coraggioso, ma il pericolo lo stimava con attenzione e lo affrontava con attente scelte. Anche lui ha nome Giuseppe, ma tutti lo chiamano Giusèf. - Mi parli di queste montagne. Mi descriva quella vetta sulla quale c'è stata la battaglia dove lui è scomparso, l'azione dove è stato visto l'ultima volta. Devo capire. La prego - . Mi guarda dritto negli occhi, con sguardo tranquillo, severo e buono allo stesso tempo, di padre anziano. Con tono di voce pacato mi dice: - Luisa... siamo amici di suo marito, lo stimiamo. Già in novembre dell'anno scorso, dopo che la guerra è finita, siamo stati su quella cima per cercarlo, ne abbiamo battuto tutti i versanti, per due giorni. Poi la neve caduta abbondante in alta quota ha soffiato nei nostri zaini vuoti, ha riempito di freddo la nostra determinazione e ci ha ricacciati indietro. Abbiamo trovato i corpi di due alpini, li abbiamo ricomposti e, con pietre, protetti il più possibile dai corvi e dalle volpi, ma abbiamo dovuto lasciarli lì. Ci siamo ripromessi di andare a recuperarli appena quel mantello bianco se ne va - . Un velo di spavento condito da disperazione mi attraversa la speranza: - Allora... lei pensa... - . - Io non penso niente, guardo i fatti e la realtà. Un fulmine che incendia un albero non conosce il fuoco, non distingue il bene dal male, fa semplicemente il proprio lavoro e subito scompare. Quella battaglia è stata intensa e complessa, vi sono stati molti morti da entrambe le parti, molti prigionieri italiani. Tanti alpini sono stati visti fuggire sia sul lato nostro del monte che sul versante austriaco del trentino. Avevano finito le munizioni, i Kaiserjäger odoravano di euforia, avevano il coraggio pieno di alcool ed erano in numero nettamente superiore. Suo marito, come altri, è disperso. Il suo nome non risulta tra quelli dei morti. C'è la possibilità che sia stato preso prigioniero e portato da qualche parte nell'Impero; si è saputo di alcuni soldati, forse anche di quella compagnia, che sono rientrati a casa o comunque hanno fatto avere notizie alle famiglie - . Parliamo per un intero pomeriggio, io, lui, Gervasio e poi altri compagni di ventura che si sono aggiunti e facevano parte della sua squadra, un certo Stefano e un altro Giuseppe. Anch'esse persone degne d'esser conosciute. Ogni tanto si lasciano andare nei loro discorsi, scaldano gli animi, si emozionano, quasi urlano, ma non perché stiano litigando; cominciano a parlare nel loro incomprensibile dialetto, quel dialetto che lui aveva cominciato a capire. Gesticolano uno sopra l'altro, cominciano quasi con provocazione a contraddirsi e volano i te se regòrdesc', ti ricordi... ? Poi, in una pausa del loro contraddittorio, si accorgono che sono presente, capiscono che non capisco, non potrei capire nemmeno se ne comprendessi le parole. Allora quasi vergognosi – o, abilmente, fintamente tali – rientrano nei loro ruoli, ma sguardi d'intesa s'incrociano, con furibonda amicizia, verso furtivi appuntamenti per continuare chissà quando le discussioni interrotte, magari non mantenendo la stessa versione, ma a loro non interessa. Ho avuto la fortuna di poterli conoscere, di poterli ascoltare, di entrare nelle loro emozioni. Sono contenta di essere stata con loro tutto il pomeriggio: mi hanno accettata, con semplicità. Scopro l'acume e il cervello fino di questi montanari, la modestia. Sono tutti bravi cacciatori, ecco perché in guerra erano tiratori temibili. Credo che il vivere in questi luoghi, percorrendo in solitudine i sentieri più impervi, cercando gli animali selvatici quasi come una sfida verso sé stessi, attendendoli per ore fermi dietro una roccia oppure nascosti dentro un cespuglio, abbia aiutato nell'approfondire questi aspetti del loro carattere. Per la volpe il tempo non esiste, è la fame che glielo azzera; il suo istinto sente il topo che si muove sotto la neve, il profumo vi penetra lentamente e raggiunge le sue narici, il suo respiro gli entra nel cervello e le duole: lui sta immobile per minuti eterni, poi si sente al sicuro e si muove. Allora la testa della volpe si riempie di bollicine e implora aiuto alla forza di gravità: i muscoli sono talmente tesi che le fanno male, fa un rapido balzo verticale e poi tuffa violentemente il muso nel bianco manto, aprendo la bocca e digrignando i denti solo quando la natura le dice che è il momento di farlo. Spesso placa così la sua fame, altrimenti le resta comunque il sapore della prima neve della stagione, quella degli strati più profondi. Oggi mi si è inaspettatamente aperto un mondo che non conoscevo. Da questo incontro sono uscita fiduciosa. *** Siamo andati, finalmente. “Per farmi un'idea di quanto sia grande la montagna”, hanno detto i miei accompagnatori. Sono tutti molto disponibili, forse perché l'hanno visto guardare la luce della notte o scrutare nella vergogna di un temporale. È una bella estate, fa caldo ma il clima è secco e molto sopportabile, l'aria è tersa. I panorami catturano lo sguardo e rischi di immergerti in essi e di non uscirne più. Camminando in montagna, al fianco di quegli uomini, provo emozioni completamente diverse. Per lunghi tratti mi lasciano sola, sembra lo facciano apposta. Senza cattiveria, ci mancherebbe, quasi per timidezza. Forse lo fanno per pudore, forse per permettermi di imparare cose che non so nemmeno esistano. Sui pascoli di queste quote si fa più fatica a camminare in discesa, allunghi una mano e ne tocchi l'erba senza piegarti, sono loro che si piegano verso te. Il vuoto sotto le suole vorrebbe intimidire la tua volontà, ma lo trasferisci nella tua mente e subito si riempie di memoria: la paura diventa un'invenzione, ti accorgi che ti stanno guardando, e sorridono. Non so quali, ma scoprirò altri orizzonti. Non mi do tempi, non mi do obiettivi particolari da raggiungere, o superare. Lo sto cercando, so che lo troverò. Se non il suo corpo, almeno la sua anima. Lo sento. Lo voglio. - Signora, la vede quella cima minore, proprio a fianco di quella vetta più alta e con quel becco roccioso? Si trova quasi a tremilacinquecento metri e, proprio lì sotto, una volta abbiamo passato tre giorni, dormivamo sotto le stelle avvolti nelle nostre mantelle come bachi di farfalla, era autunno e faceva già molto freddo e noi cantavamo per tenerci svegli e ridevamo e battevamo i denti e gli austriaci, a settanta metri sul versante opposto, non capivano cosa stesse succedendo, e... - . Le storie si sovrappongono, sembrano tutti dei bambini desiderosi di raccontare alla maestra come hanno passato l'estate. - ... e poi un'altra volta eravamo nella nostra trincea a cento metri da loro e abbiamo visto un soldato austriaco seduto su un sasso, fumava una lunga pipa e sembrava quasi sfidarci. Allora uno dei nostri, un cacciatore di camosci che vinceva sempre quando giocavamo a tiro al bersaglio, ci ha detto ‘scommettiamo che gli spezzo la pipa con un colpo?'. E così ha fatto! Abbiamo riso di gusto e li abbiamo sbeffeggiati. Dopo tre giorni un nostro alpino era di sentinella, sul cappello aveva una lunga penna d'aquila che gli aveva regalato suo nonno. E... Pum! Un colpo preciso gli spezza la penna in due. Grida di contentezza dalla trincea austriaca, e fischi e urrà: si erano vendicati! - . Quando mi ritrovo a camminare con loro tutto assume un altro aspetto. In montagna sono diversi da come si mostrano giù in paese. Sembrano più liberi, più sciolti, più aperti; sono altre persone, non solo lo si percepisce ma lo si vede proprio, sono più naturali. Dopo aver visto la disinvoltura con la quale si muovono, come agiscono, come si comportano con se stessi e con gli altri, in valle appaiono un po' goffi: è come portare un camoscio nella via principale del paese. Questa impressione non l'ho per nulla percepita, quando li ho conosciuti. È proprio così: questo è il loro ambiente, ne fanno parte e penso che i tre ultimi e intensi anni abbiano contribuito a rafforzare ulteriormente tali aspetti. Ora posso finalmente capire le emozioni provate da lui di fronte a questa natura immensa. In un lungo tratto nel quale siamo rimasti soli, ne ho parlato con Giusèf. Senza farmelo pesare, con poche ma dosate parole, mi fa capire molte cose: - Quello che lei sta vedendo oggi è solo una piccolissima parte bdella montagna. Per capirla bisogna viverla. In tutte le situazioni che ha in sé. Le offre senza interesse a chi le vuole recepire, assimilare e fare proprie - . E poi continua dicendomi che la montagna va vissuta in ogni stagione. In estate, quando fa caldo. I pascoli sono verdi, le acque corrono calme e limpide, gli animali sono rilassati e pensano a nutrirsi e ad allevare i figli, a prepararli per tempi peggiori che verranno, per la vita: a difendersi o attaccare a seconda del loro stesso ruolo. Questo è il tempo della vitalità e della forza, il sangue è denso e i pensieri leggeri. In autunno, quando si percepisce che tutto si sta fermando, si sta preparando per momenti completamente diversi che ogni essere – vivente o non vivente – dentro di sé sa di conoscere: è un ciclo che si ripete da sempre dentro alle nostre cellule. È il tempo delle perplessità e dei ripensamenti, i dubbi fanno breccia nell'anima, ma il raziocinio della mente vince e li confina nella solitudine di angoli bui e sconosciuti. D'inverno, quando fa freddo, la neve cade lenta e rende di bambagia i pensieri. Tutto è fermo, la terra riposa, l'acqua negli anfratti delle rocce è congelata e aspetta con ansia la primavera per riprendere il suo ciclo e sperare di cadere dal cielo ancora su quegli stessi monti, ai quale si sente legata. Gli animali riposano il loro corpo, protetti dalla neve stessa, muovendosi il meno possibile per non sprecare energie preziose, coscienti che sia indispensabile per la loro stessa esistenza, in attesa di tempi migliori. Questo è il tempo della speranza, il desiderio si rinforza e trascina i ricordi nel neviflusso della vita, rendendoli dolci e sicuri. In primavera, quando la vita risorge, lenta ma imperiosa. Si presenta a noi nell'immane forza compresa in un seme, in una radice; nella potenza di un temporale o nella impressionante violenza di un fulmine. È il tempo dell'incosciente spensieratezza, i cuccioli di tutte le specie affondano per la prima volta il loro sguardo nell'universo, inconsapevolmente felici e ignari di future tristezze. D'improvviso mi sono resa conto di quanto siano semplici ma sagge queste persone. Per comprendere la montagna non si deve usare la parola ‘fretta', bisogna viverla in tutti i suoi aspetti, evidenti e meno evidenti; con autentica umiltà e con un profondo rispetto, accettando a priori la sconosciuta entità del tempo necessario.
Giovanni Peretti
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