I temporali estivi le ricordavano l'infanzia, quando correva nella sua camera al primo piano e si appiccicava alla finestra per vedere meglio i flash improvvisi dei lampi, il tremore della natura allo scoppio dei tuoni, la pioggia scrosciante contro le finestre. Tutti scenari che la affascinavano e atterrivano al tempo stesso. Quando i rami si inchinavano al vento e la pioggia fitta creava una cortina di fumo, Irene si sentiva pervasa da una sensazione di impotenza. Quel sentore di completa inettitudine, aggiunto all'adrenalina, quel fascino ancestrale del sentirsi piccoli e non poter intervenire, raggiungeva il culmine nell'esatto istante in cui saltava la corrente e il mondo attorno si spegneva. Irene, ancora bambina, attendeva proprio quel momento per scoppiare a piangere. L'Irene adulta, la venticinquenne che era diventata, non si lasciava più spaventare dai temporali. In un certo senso, era come se avesse imparato a dominarli. O meglio: finché si trovava in un ambiente familiare, anche i diluvi improvvisi, per quanto fossero di proporzioni bibliche, sconquassavano le fondamenta di casa con un senso di già visto. E Irene ormai non se ne stupiva quasi più. Ferma all'ennesimo semaforo rosso, diede un'occhiata alle notifiche del cellulare, ma niente. Ancora calma piatta. Aspettava una mail importante, una di quelle che potevano essere fonte di gioia o di lacrime amare. La considerava quasi una questione di vita o di morte, e non riusciva a concepire come quella giornata trascorresse senza che nessuno si fosse ancora fatto vivo per informarla sul suo futuro. Erano ormai le undici e il cellulare rimaneva fedele al proprio silenzio ostinato. Una goccia cadde sul parabrezza. Distratta, diede un'occhiata oltre il cruscotto. Il cielo borbottava già dall'alba, ma scelse quel momento per manifestare il proprio turbamento. Nello spazio di pochi pensieri, il vetro impolverato venne preso d'assalto dalla pioggia, tanto che Irene fu costretta ad azionare i tergicristalli. Quel venerdì mattina era al lavoro. Come ogni giorno, si stava spostando per portare un pasto caldo agli operai affamati delle varie fabbriche alle quali la sua azienda offriva il servizio di mensa a domicilio. A bordo del camioncino coibentato, ormai fedele e cigolante compagno di viaggio, sfrecciava tra le vie, attenta a non dimenticare nemmeno una delle imprese a cui doveva far visita. Chiuse i finestrini, per isolarsi dall'umidità circostante e impedire all'odore di asfalto bagnato di impregnare l'abitacolo. Annebbiata dall'improvvisa densità della pioggia, diede gas e partì accelerando non appena il semaforo diventò verde. Sulla grande strada a due corsie che doveva percorrere per raggiungere la zona industriale Est di Padova, solo qualche auto procedeva con lei, beandosi della tranquillità degli orari meno trafficati. Svoltò a destra, rallentando per evitare una pozzanghera già formata. Presto avrebbe scorto i primi capannoni prendere il posto degli edifici del centro. Irene lanciò uno sguardo apprensivo al cielo. Speriamo smetta presto. Mi dispiacerebbe saltare la serata yoga. Il suono della pioggia contro il tettuccio la riportò con gli occhi sulla strada. Fu allora che il cellulare, riposto nel vano portaoggetti, emise un segno di vita. Un suono lieve, quasi impercettibile tra lo scrosciare del temporale e la radio tenuta di proposito col volume al minimo. Irene si affrettò a recuperarlo e, attivato lo schermo, notò la comparsa della notifica di una mail. Il suo cuore prese a battere all'impazzata. Il mittente era proprio quello che attendeva, ma l'anteprima non svelava nulla, se non i convenevoli iniziali. Impaziente di conoscere cosa la attendesse, premette sullo schermo e attese il caricamento della casella di posta. Maledetta connessione, pensò, ricordandosi solo in quel momento di essere alla guida e di non potersi distrarre. Udì un tonfo improvviso di vetro e metallo, e sollevò lo sguardo giusto in tempo per rendersi conto che l'auto davanti aveva smesso di procedere. Doveva frenare, altrimenti lo scontro sarebbe stato inevitabile. Con tutta la forza che aveva, si gettò sul pedale centrale in uno stridore di freni. Il furgoncino vibrò e sussultò contrariato dall'inaspettata imposizione, scivolò sull'asfalto bagnato, e si fermò. Nella frenesia, il cellulare le era caduto di mano. Non ci badò, dissipò l'adrenalina con un profondo respiro e amareggiata si calò il cappuccio della felpa sui capelli raccolti in una coda di cavallo. Guardando la strada con apprensione, si gettò nel maltempo, imprecando. Oltre a lei uscirono dalle rispettive automobili anche altri conducenti. Ognuno si curò di verificare le condizioni del proprio mezzo, confrontarle con quelle dei veicoli circostanti e inveire contro il colpevole della brusca frenata, che aveva provocato un tamponamento a catena. Meno male! Altri dieci centimetri e l'avrei urtato. Sono stata fortunata. Si avvicinò alle auto incidentate per constatare se ci fossero feriti e tirò un sospiro di sollievo. Nonostante la frustrazione i coinvolti già si prodigavano nel sistemare il triangolo rosso discutendo sul coinvolgimento delle rispettive assicurazioni. Anche alcuni clienti del bar all'angolo uscirono protetti dall'ombrello, curiosi e preoccupati al tempo stesso, borbottando tra di loro. Irene ignorò le occhiate di disapprovazione per aver fermato il camioncino in quel modo brusco. Con il batticuore che non voleva accennare a placarsi, e la felpa ormai fradicia, si districò tra la folla. Ebbe un fremito e si fermò. Fu allora che lo vide. Per un attimo il mondo parve crollarle sotto i piedi e il cuore precipitarle nello stomaco. Dovette appoggiarsi all'auto più vicina per mascherare il turbamento, fingendo fosse dovuto all'agitazione per l'incidente. La memoria le stava giocando un brutto scherzo, rievocando uno dopo l'altro i ricordi legati all'entità con cui si stava confrontando, in uno scontro che nessuno, al di fuori di lei, poteva anche solo percepire. Non era riuscita a non lanciargli un secondo sguardo. I suoi occhi nocciola parevano analizzarla e schernirla al tempo stesso, ipnotici come ricordava. Non era cambiato nulla da quando lo aveva visto l'ultima volta: stessi capelli scuri e ricci, stesse espressioni, stessa elasticità dei gesti e dei movimenti. Vestiva pantaloni cargo con sneakers consunte ai piedi, e una semplice t-shirt bianca del tutto fradicia. Ma al di là dell'aspetto comune, era tanto luminoso da stonare con il tempo atmosferico di quella giornata umida. Lui, che per Irene era batterio e vaccino, desiderio e ripudio, proprio lui, Andrea, era lì di fronte a lei, perentorio. Il ragazzo, dal canto suo, non aveva potuto non accorgersi di lei, la sua preda preferita, il suo ieri ma non il suo domani. I loro sguardi si incrociarono e Andrea non diede alcun segno di stupore, come se quello fosse un epilogo già scritto. Subito le riservò un sorrisino, uno di quelli strafottenti, provocatori. Poi alzò la mano destra all'altezza delle labbra e mise in atto la sua solita scenata: le lanciò un bacio attraverso la pioggia, tra soccorritori preoccupati e curiosi ficcanaso. Come riuscisse ad atterrirla ogni volta, questo rimaneva un mistero. Il comportamento insensato del ragazzo la spiazzava fin dai tempi del liceo. Andrea le voltò le spalle, tornando da dove era venuto fino a scomparire dietro l'angolo. Era quello che aveva sempre fatto: andarsene. Era da tempo ormai che Irene si era allontanata da lui, anche se mai si era potuta definire del tutto libera. Non si stupì dell'intensità dell'ira che provò. Vai al diavolo, pensò, rintanandosi nel furgoncino, lontano da lui e dalla pioggia che le pesava sulle spalle. Erano bastati pochi minuti per farla bagnare dalla testa ai piedi, per impregnarle i vestiti e i capelli di quelle gocce cariche di tormenti. Adocchiando lo specchietto retrovisore notò la sbavatura del filo di trucco attorno agli occhi, ennesima vittima della furia della pioggia. Come se non bastasse il turbine di pensieri ad agitarla, una macchina in coda dietro di lei prese a suonare il clacson con insistenza. Bagnata, intirizzita e con le mani tremanti, cercò di fare manovra, ma non era così semplice nell'ingorgo che si era creato. Sbottò nervosa, colpì il volante, finendo per suonare lei stessa il clacson. Imprecò offendendo il furgoncino coibentato, simbolo della persistente sensazione di non trovarsi nel luogo in cui avrebbe dovuto essere. Rimase alcuni momenti in silenzio e con le palpebre chiuse, isolata dal mondo esterno, fino ad avvertire il cuore placarsi, i pensieri tornare a scorrere e la mente riprendere a ragionare. Con calma riuscì a muovere il furgoncino e rimettersi in strada. Solo allora individuò un piccolo particolare di differenza rispetto a quella che era la normalità dei suoi viaggi: la musica. La radio era così bassa da essere quasi impercettibile, tanto da mescolarsi ai rumori del traffico, del temporale e dell'incidente. Un momento! Ricordò all'improvviso il motivo per cui l'aveva abbassata. Il cuore le prese a pulsare veloce, crescendo a mano a mano che la consapevolezza di ciò che stava accadendo si faceva largo dentro di lei. Il cellulare. La mail. Per giocarle un brutto scherzo, in quel momento il sole squarciò le nubi e le gocce sfumarono fino a scomparire, come se all'improvviso le scorte di pioggia fossero esaurite. Un raggio si infiltrò all'interno della vettura e un riflesso colpì i suoi occhi verdi, non senza prima scontrarsi con il cellulare che si trovava a terra tra i pedali. Con un'acrobazia, Irene lo afferrò senza rallentare, mentre un'angoscia crescente accompagnava ogni movimento fino a diventare sempre più reale. Quando premette il tasto di sblocco, non riuscì a evitare l'ennesima imprecazione: una fitta ragnatela di crepe si diramava sullo schermo dello smartphone. Parcheggiò nel primo spiazzo libero lungo la strada, ma tutti i tentativi e gli sguardi disperati si rivelarono vani. In preda a un profondo sconforto, chinò il capo contro il volante e prese a piagnucolare come faceva da bambina. La mail! Se almeno fossi riuscita a leggerla! Devo trovare a tutti i costi un modo per farlo! Il sole propagava gli ultimi raggi prima del tramonto, come a voler evidenziare il proprio ruolo. Una leggera brezza fredda stava scuotendo i lunghi capelli castani di Irene per una volta lasciati sciolti, come fossero foglie degli alberi, ribelli come lei stessa avrebbe voluto essere. Di solito, prima di addentrarsi nel mondo dello yoga, li legava in una coda di cavallo, proprio come aveva fatto quella mattina, giusto per sentirsi più libera nei movimenti. Anche quella sera aveva cominciato con un saluto al sole, ringraziandolo per la sua generosità. Gli ultimi bagliori ormai obliqui illuminavano appena il terreno. Senza fretta, una posizione alla volta, aveva sentito i muscoli prima contrarsi e poi distendersi. In piedi, e poi stesa sul tappetino blu, il viso rivolto alla luce lieve del tramonto, Irene stava cercando sollievo dalla giornata movimentata. Era quello il momento che preferiva, quando il giorno volgeva al termine e la vita rallentava. Ma ancora meglio era ciò che veniva dopo: il buio della notte. Era lì che ritrovava la pace che durante il giorno l'aveva abbandonata. Il silenzio che la circondava le permetteva di rilassare i muscoli e riscoprire quell'attimo che avrebbe potuto di nuovo dedicare a se stessa. Mai come in quell'occasione sentiva di averne un estremo bisogno. Il momento ormai era prossimo. Un leggero mal di testa la distraeva, ma era ancora ignorabile, e le concedeva di concentrarsi su ciò che stava facendo. Era passata alla posizione dell'albero, circondata dalla quiete di quel parco in cui spesso si rifugiava dopo cena, quando la voglia di fuggire dalla città diventava insopportabile. Aveva ormai un angolo riservato, tra gli aceri, abbastanza lontano dai gridolini dei bimbi sulle giostre vicino all'entrata, dalle mamme che li rimproveravano di non giocare nelle pozzanghere, dall'abbaiare dei cani alla vista di qualche animaletto. Amava andare più lontano, immergersi nella vegetazione e lasciar correre i pensieri, oppure metterli a tacere, a seconda dello stato d'animo in cui precipitava. In quel punto del parco solo di rado veniva disturbata, magari da qualche ignaro corridore amatoriale. Le era capitato solo qualche volta di trovare il posto occupato da fidanzati in effusioni o signore in lettura. Quell'angolo era un po' come casa sua ormai, rappresentava la tranquillità che non aveva mai avuto nella vita e all'interno della famiglia. Riportò la mente al presente, concentrandosi sui propri movimenti. Le posizioni di yoga si susseguivano una dopo l'altra, così come la mente vagava irregolare da quella mattina, per poi passare al pomeriggio e tornare all'ora di pranzo. A ripensarci, non sapeva nemmeno spiegare come fosse stato possibile riuscire a far combaciare tutto, a non perdersi nessuno dei mille impegni. Eppure ce l'aveva fatta. Nonostante lo stress, nonostante le disavventure, nonostante le sfortune e le coincidenze inaspettate. Un sorriso le si dipinse sul viso stanco. Solo in quel momento, in mezzo alla natura, i piedi nudi sul tappetino blu che nel tempo era diventato un fedele compagno, sentiva davvero di poter tirare un sospiro di sollievo e recuperare le forze cui aveva attinto per arrivare alla fine di quella giornata. Sperava, attraverso lo sport, di liberarsi anche di quel fastidioso mal di testa, soprattutto in vista della festa che l'attendeva quella sera. Irene distese gli ultimi muscoli, muovendosi fino a raggiungere le estremità del proprio corpo. Lo sentiva vivo e reattivo agli stimoli. Allentò la tensione, raddrizzò la schiena e sollevò il volto al cielo, alla brezza. In quell'istante udì qualche nota musicale: conferiva una nuova luce all'atmosfera del luogo. Si sposava alla perfezione con le movenze pacate dello yoga. La ragazza si rilassò ancora di più. Chi poteva essere? Pareva quasi che la musica si stesse avvicinando. Spinta dalla curiosità, Irene si affacciò oltre i pochi alberi che la separavano dal sentiero, proprio nel momento in cui un ragazzo che avrà avuto solo qualche anno in più, le passava accanto sfrecciando. Il giovane non notò i suoi sguardi, forse inopportuni, ma corse spensierato, rallentando in corrispondenza di una curva e schivando qualche pozzanghera. Teneva un cellulare fissato al braccio, appena visibile. La canzone che aveva attirato l'attenzione di Irene era terminata, per lasciare spazio a un'altra che conosceva bene. Era riuscita a sentire solo alcuni versi, prima che il ragazzo si allontanasse e venisse inghiottito dal parco. Ma a Irene erano bastati per identificarla: era Every breath you take, la canzone dei Police che sua madre le faceva ascoltare da bambina. La versione però doveva essere una cover, perché la voce che ne scandiva le parole era quella di una giovane donna. Every breath you take era quella che sua madre chiamava - la canzone dei giorni di pioggia - . Nel parco, il sole iniziò a coricarsi e l'atmosfera si fece sempre più scura e fredda. Gli alberi, prima fonte di ombra e refrigerio, divennero ben presto culla di occhi ferini e cigolii sinistri. Come se non bastasse, prese a gocciolare. Era giunto il momento di rientrare. Se non mi sbrigo, arriverò in ritardo.
Alessia Malvestio, Michele Boschiero
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