2016, foresta pluviale della Costa Rica.
Il mirino del fucile puntava sui due sconosciuti che camminavano lungo il pendio opposto della vallata. Si vedevano a intermittenza tra alberi e cespugli. L'uomo davanti tagliava i rami e faceva strada, la donna lo seguiva appena dietro. - Sparo? - chiese eccitato Duncan mantenendo l'arma puntata sul primo. L'energumeno rimase ad attendere la risposta del capo che tardava ad arrivare. Si voltò verso destra, in direzione dell'uomo che a pochi metri scrutava immobile attraverso il binocolo. Adam Bolt, il “boss” come lo chiamava, abbassò lentamente il visore, serrò la mascella e continuò a osservare la montagna di fronte, attento. Poi rispose secco: - No. Voglio capire cosa stanno cercando. - Dietro quella calma apparente, le sue iridi cristalline, ereditate della madre russa, brillavano al sole per l'ambizione; bicipiti e pettorali fremevano sotto la pelle abbronzata ereditata dal padre anglo-giamaicano. Ma in mezzo a tutto quel miscuglio di patrimonio genetico lui si sentiva e si considerava inglese al cento per cento. - Accidenti, è da due giorni che gironzolano indisturbati, capo... - accennò a una protesta dettata più dalla voglia di far del male che dalla preoccupazione per la presenza di quei due in quello che consideravano il loro territorio. - Smetteranno di fare gli impiccioni. Per ora li voglio vivi. Non sappiamo ancora se è gente che conta e che impatto potrebbe avere la loro scomparsa. Ho sentito dire che arrivano dall'università della capitale. L'ultima cosa che voglio è avere tra i piedi giornalisti e gente da San José. - - Ma si stanno avvicinando troppo al campo, boss - insistette. - Cállate. Taci. Ha ragione il capo - lo zittì un passo più indietro il terzo e ultimo uomo del gruppo che spiava gli intrusi. - Usa il cervello. E se fossero addirittura dei giornalisti che non conosciamo? Cabrón! - Christophe sapeva essere tagliente. Era l'unico, col suo accento del sud della Francia, che si permetteva d'insultare il compagno, che lo superava in altezza di una spanna abbondante, il doppio per muscoli e peso. Quello che più strideva nel vedere la coppia stuzzicarsi, era la disinvoltura e sfacciataggine – nonchalance avrebbe detto – con cui il francese si rivolgeva all'altro. - Non possiamo eliminarli senza sapere chi siano, Duncan - spiegò alterato Bolt all'impulsivo nicaraguense. - Non voglio microfoni e telecamere di giornalisti qua attorno. Dobbiamo inventare qualcos'altro. - - Un incidente? - chiese l'altro, non per ingenuità, ma per i suoi limiti intellettivi. Il capo banda ammiccò. - Gli uomini ai confini sono già avvisati che se tenteranno di avvicinarsi nel raggio di cento metri, spareranno solo per avvertimento - disse Duncan, dopo aver sbollentato. - Che stanno cercando? - Bolt si passò la mano sulle ampie mascelle tese in un ghigno. Christophe godeva nel vederlo con quell'espressione che non dava adito a interpretazioni. Era pura crudeltà, così si affrettò a proporgli: - Se volete, ho delle trappolette per quelle due scimmie ficcanaso. - Senza rendersi conto che quello che più aveva l'aspetto di un primate era proprio lui. Il capo li zittì con un cenno della mano e si diresse verso il fuoristrada. Duncan Silva, nicaraguense, dovette reprimere l'istinto omicida e rilassare i muscoli in tensione. Si rimise il fucile a tracolla con aria sconfitta e, scocciato, si tolse il berretto per sfregarsi nervosamente i riccioli neri, come faceva ogni volta che non sapeva come sfogarsi. Quindi seguì il capo, appena più basso ma ugualmente massiccio. Entrambi abbronzati, avevano i capelli corti in stile militare, sebbene quelli del latino fossero neri e quelli del capo più chiari. La testa di Duncan era tonda e stonava con il collo spesso che si ritrovava, tanto da farla sembrare minuscola; le narici esageratamente grandi ricordavano quelle di un drago. Adam Bolt aveva invece un viso squadrato, il naso sottile come le labbra. La sua variegata eredità genetica lo rendeva un uomo dai molti contrasti esaltandone pregi, come l'elevato quoziente intellettivo, e difetti, come la cupidigia e la spietatezza. Fin da bambino aveva mostrato una ferocia smisurata che aveva fatto ammalare la madre, morta in circostanze misteriose in giovane età. Si diceva per mano del marito, ma qualcuno più avventato incolpava il figlio. - Torniamo alla base - disse Bolt. Era il proprietario dell'Empire Control SA, una società di diritto panamense dedita alla produzione e all'esportazione di frutta e all'estrazione di oro, operante principalmente nel nord della Costa Rica. O almeno quella era la facciata. Lui e le sue guardie del corpo, armate e preparate allo scontro fisico, erano conosciuti per la loro pericolosità. Una di quelle era Duncan, che replicò: - Non vedo l'ora di fargli passare la voglia di fare passeggiate fra montagne e miniere. - Il suo era un irrefrenabile desiderio di violenza gratuita coltivata fin dall'infanzia nel barrio dov'era cresciuto. In molti si erano chiesti se fosse una necessità imposta dalla sua rischiosa vita di strada o semplicemente un bisogno innato d'imporre la propria forza. A ogni modo, gli aveva permesso di sopravvivere ed emergere nella sua carriera delinquenziale fino a raggiungere la posizione che aveva, al fianco di Adam Bolt. L'altra guardia personale era il francese, Christophe Lapin, cognome che non gli si addiceva affatto, perché di coniglio non aveva nulla. Aveva un aspetto trasandato, pieno di cicatrici sul corpo e sul viso, sempre spettinato e con dei baffi ingialliti che non riuscivano a nascondere i denti persi durante la sua carriera militare e paramilitare di legionario prima, e di mercenario dopo. Era l'unico magro della milizia di Bolt, ma non per questo il meno pericoloso. E il capo non sbagliava nel considerarlo il più temibile dei suoi e soprattutto il più imprevedibile, grazie alle innumerevoli tecniche di combattimento apprese in tanti anni vissuti nella giungla. Se Duncan aveva sviluppato il suo istinto di sopravvivenza nel più malfamato e rischioso sobborgo di Managua, quello di Christophe era il frutto della natura avversa dell'Amazzonia. I tre montarono sul pickup Toyota, Duncan alla guida, Adam al fianco e il francese che fischiettava seduto sul cassone, come al solito e per sua scelta. - Avevo proprio voglia di fare un po' di caccia oggi - disse il nicaraguense ingranando la prima. Stranamente il francese concordò: - Stavolta ti do ragione... venire fin qua e vederli girare indisturbati. - - Abbiate pazienza, sarete accontentati - sentenziò sibillino il leader con una pacatezza che lasciava trapelare sicurezza, nascondendo un sorriso di piacere. - Ho dei piani per loro, vedrete. - Erano le sei del mattino e l'aroma emanato dalla caffettiera sul fornellino tra le due tende da campeggio arrivò a pervadere quella dove dormiva Yuma, risvegliandola. La minuta studentessa dell'ultimo anno alla Facoltà di Storia e Archeologia dell'Università di San José, proveniva da un villaggio dell'entroterra, abitato per lo più da famiglie di indios. La sua era una di quelle appartenenti agli aborigeni huetares, un'etnia mesoamericana all'interno dell'attuale territorio costaricano e influente in età precolombiana, oggi una comunità ridotta a poco più di un migliaio di persone. Il suo nome significava “figlia del capo” nell'idioma ormai andato perso. I tratti somatici dell'ovale lo confermavano: carnagione olivastra, lunghi capelli lisci e neri, curva gentile del naso tra grandi occhi scuri su zigomi marcati. Dante León Vidal si era svegliato all'alba, disturbato dai rumori della foresta. Erano arrivati fin lì due giorni prima, a bordo della disastrata jeep verde militare presa in prestito da Enrique Ramos, un vecchio amico della famiglia León e pilota di un aereo privato meno affidabile di lui. Avevano imboccato una sterrata alla sinistra della via principale, segnalata da un cartello illeggibile per l'ossidazione, appeso a un palo di legno che un tempo indicava delle miniere. Era ampia e tagliava la foresta umida e insidiosa per quasi un chilometro fino a un bivio. Lì avevano deviato di nuovo a sinistra lungo un sentiero che si faceva sempre più tortuoso e accidentato per le buche profonde e gli spuntoni rocciosi. Raggiunta la radura dove finiva il tratto transitabile col fuoristrada, avevano deciso di accampare; oltre, si presentava la foresta meno accessibile. Per proseguire dovevano procedere a piedi tra la vegetazione o seguendo il corso d'acqua come avevano fatto in quei giorni, quando erano stati intercettati dalle sentinelle di Adam Bolt. Fisico asciutto, l'archeologo e professore di Storia e Archeologia precolombiana all'università della capitale costaricense era appena andato ad attingere l'acqua fresca dal fiume. Un sorso e la bocca subito si ristorò. Secondo i suoi calcoli, da qualche parte lì intorno doveva trovarsi sepolto quello che cercavano.
Rocco Luccisano
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