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Autore: Giulio Natali
Soste Forzate
Racconti
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Soste Forzate
Il monologo dell'attore

Inizio del terzo atto.
L'ingresso in scena è perfetto.
Non potrebbe essere altrimenti, visto che quei movimenti li ha ripetuti all'infinito.
Senza considerare le prove, è la centosettantaquattresima volta, tante sono le repliche.
Dalle quinte in sei passi è al centro del palcoscenico.
Guarda dritto avanti a sé, poi si volta verso la platea.
La luce del riflettore fende il buio della sala e gli illumina il volto.
Il pubblico in silenzio conosce benissimo le parole dell'autore.
“Essere o non essere, questo è il problema”.
L'attore accompagna con la consueta gestualità la frase che inizierà il monologo.
Poi si ferma.
Una pausa per rendere più drammatico e incisivo il discorso di Amleto, pensano gli spettatori.
L'attore continua il suo silenzio.
Dieci secondi.
Che diventano venti.
E ancora trenta.
Lui è lì, fermo in posa plastica, con il teschio in mano.
E non parla.
Nella penombra gli altri attori della compagnia si guardano tra loro interdetti mentre un brusio comincia a farsi largo in galleria.
Il suggeritore non sa se sia il caso di fare il suo mestiere, per quanto è banale quello che dovrebbe bisbigliare.
Stavolta è lui a cercare suggerimenti.
Poi prova sottovoce a dire “Essere o non... ”.
Ma quello in scena sembra non sentirlo.
Si inizia a pensare che l'attore stia male, addirittura che possa aver avuto un attacco d'ischemia proprio lì, sul palco.
Non può infatti essersi dimenticato la parte che fino alla sera prima sapeva a memoria.
Proprio il terzo atto, poi.
Lui però ruota il polso verso le quinte e con la mano fa un cenno.
Sta bene, è lucido.
Dalla sala il mormorio si fa più forte.
In platea risatine di imbarazzo e stupore.
Agli abbonati sale un moto di irritazione per quel silenzio imprevisto e interminabile.
Sono già cinquantasette secondi.
Partono alcuni fischi.
Il regista è incerto se calare il sipario o sparare a tutto volume la musica che aveva intrattenuto il pubblico tra il secondo e il terzo atto.
Ma per prima cosa deve evitare che troppo sangue gli vada alla testa.
Aspetta ancora un attimo prima di alzare bandiera bianca.
Settantuno secondi.
Mai ci fu soliloquio più soliloquio di questo.
Nei corpi dei presenti gelo e fiamme insieme.
Dalla galleria partono schiamazzi.
Tutto questo non può durare ancora.
All'improvviso l'attore abbassa il capo.
Si inchina, come avviene alla fine di ogni rappresentazione.
Stavolta non ci sono applausi.
Poi appoggia il teschio a terra, perfettamente al centro della scena.
Infine, scende dal palcoscenico.
“Vorrei provare ad Essere”, dice al suggeritore mentre se ne va.

Rispedito al mittente

Tornasse indietro farebbe il militare. Proprio lui che, a diciotto anni, alla visita per l'idoneità, aveva brigato con la commissione medica per farsi esonerare: tentativo rispedito al mittente. Proprio lui che si era proclamato pacifista e sin da adolescente andava ai raduni di piazza per far cessare le guerre in Medio Oriente, e poi nei Balcani, e poi in Africa, e poi, e poi.
Allora Francesco non aveva conosciuto Isolde e non immaginava di trascorrere nove mesi in ufficio, servizio civile, vessato più che in caserma. Era giunto quasi al termine del periodo universitario – un anno fuori corso – e dopo la laurea in lettere moderne avrebbe dovuto capire dove sbattere la testa. La cosa migliore in questi casi era avere almeno due alternative.
C'era la strada dell'insegnamento, poco ma sicuro, però un piano B non esisteva. Francesco si disse che prima di discutere la tesi doveva capire se si vedeva dietro una cattedra con adolescenti forzati ad ascoltare la lettura in metrica delle Georgiche. O, in caso contrario, dove poteva andare a parare nella vita.
Così non chiese il rinvio del servizio civile, e dopo un paio di mesi ricevette a casa una comunicazione che lo invitava a presentarsi al CAF – Sezione Pensionati di Fermo. Il ragazzo, saputo che in quel posto si gestivano pratiche fiscali per anziani, si rallegrò. Una bella sedia scomoda, una scrivania scrostata ed un computer Pentium con modem esclusivo 56k aspettavano solo lui.
Recluta Barozzi suonava proprio male. Vuoi mettere con obiettore addetto ai servizi fiscali Barozzi? Tutto un altro status.
Il giorno dopo si presentò in un locale illuminato da due plafoniere al neon che dondolavano dal soffitto ad ogni spostamento d'aria.
Le guardò e capì qual era il tratto distintivo del CAF: il sudiciume. I puntini neri di insetti rimasti stecchiti nelle plafoniere rendevano la luce più fioca di quanto fosse di suo. E poi, troppi acari per il suo naso, così starnutì ancora prima di salutare il donnone che gli si parò davanti.
“Devi essere Francesco”, fece quella. “Non pensare di essere venuto qua a mangiare a sbafo”.
La tizia si chiamava Isolde Fiacconi, era la responsabile della sezione anziani e per di più, da quel momento, tutor dell'obiettore.
La frase di benvenuto lasciava intendere un paio di cose. Uno: il ragazzo avrebbe lavorato per entrambi, due: le leccornie se le sarebbe pappate lei senza eccezione alcuna.
Da quel giorno, per nove mesi, Barozzi entrò alle otto in punto in quella stamberga, mentre la Fiacconi, che mai prima di allora aveva condiviso la stanza, iniziò a farsi viva non prima di metà mattina. Francesco capiva che era arrivata perché dai vetri impolverati vedeva un'ombra mastodondica piazzata davanti all'ingresso con due buste della spesa. Isolde entrava e lo salutava con un “che fai, bel giovane?”, posava a terra le buste e sistemava i prodotti freschi in un vecchio frigo lasciato là da chissà chi.
Il ragazzo nei primi quattro mesi restò sulle sue e non scambiò una parola con la tutor. Al contrario la donna, seduta a un'altra scrivania unticcia e piena di capelli grigi che cadevano dalla sua testa, parlava sempre. Con la figlia. Con il marito. Con l'amica Lara. Con l'amica Felicia. Con il pizzicagnolo. Con i tesserati no. Se vedeva comparire sul display del telefono un numero sconosciuto, grugniva con il naso e poi girava la chiamata a Barozzi. Questo rispondeva educatamente, ma alla prima domanda su sgravi e rateizzazioni guardava la donna inarcando le spalle per chiederle un aiuto. Che puntuale non arrivava. Quasi sempre, mattina o pomeriggio che fosse, Isolde era intenta a farsi uno spuntino, consistente in una focaccia ricca di sale, olio e trigliceridi. Terminata l'abbuffata, si toglieva le briciole da bocca e guance e sorrideva a Francesco con i residui della pizza tra i denti.
“Proprio buona”, gli diceva, mentre con l'unghia del mignolo ripuliva gli incisivi. Finiva l'opera strofinandosi le mani unte sulla maglia e grattandosi le enormi mammelle cadenti. Poi andava in pausa.
In quei momenti capitava che il ragazzo si trovasse a paragonare i nove mesi di servizio civile a quelli di una gravidanza. Guardava l'impiegata che stava spaparanzata alla sua sinistra. Quanto avrà mangiato quand'era incinta? Poteva essere lievitata più del quintale di lardo che si portava addosso? Quale pena doveva espiare il marito per essersi cacciato in quella situazione?
Dal quinto mese Isolde dedicò Barozzi a svolgere tre attività.
Scrivere le lettere a enti e associati, visto che lui sapeva accendere computer e modem. Mettere a posto l'archivio. Parlare con chi entrava in ufficio per consulenze e normativa, ma se c'era da chiacchierare o mangiare la donna non era disposta a delegare.
Tra le mansioni, la peggiore era senza dubbio la tenuta dell'archivio, un esercito di faldoni di cartone tenuti insieme da uno spago e stivati in uno scaffale di alluminio arrugginito.
Mentre la Fiacconi si sporcava i baffetti con la panna dei bignè che qualche generoso associato le aveva portato, Francesco metteva a posto le pratiche, silenzioso e furente.
Dai oggi, dai domani, il ragazzo sentiva che presto sarebbe esploso.
Era da sempre convinto che i padroni sfruttassero i dipendenti, ma cambiò idea perché il capo del CAF non era un negriero, ma un benefattore, vista la tipa a cui lasciava gestire l'ufficio.
La goccia che fece traboccare il vaso fu quando in un faldone zeppo di carte ingiallite e rosicchiate trovò due sorprese. Un residuo di focaccia sfuggita dalle fauci di Isolde su un foglio uso bollo. E, poche pagine dopo, un sorcio grigio che balzò fuori e andò a nascondersi dietro la fotocopiatrice.
Isolde lanciò un urlo belluino saltando sul tavolo e nessuno dei due resse: la Fiacconi alla forte emozione, il malcapitato tavolo al peso della donna. Dopo che Barozzi la fece rinvenire, l'impiegata accusò il ragazzo di lavarsi poco e quindi di attirare i roditori in ufficio.
Non c'erano mai stati in venti anni, disse, e toccava a lui ora bonificare l'ambiente. Anzitutto acchiappando il topo. Lei per prudenza si mise in malattia. Gli spiegò che lo faceva per dargli campo libero, perché troppa gente poteva impaurire l'animale.
Barozzi per tre giorni vide la stessa scena: la trappola scattata. Il formaggio scomparso. Nessun cadavere nei pressi. Escrementi sul piano della fotocopiatrice. Al quarto giorno, un pensionato venuto in ufficio per una pratica gli consigliò di usare veleno in polvere e la mattina dopo il topo fu trovato riverso, stecchito, sotto la sedia di Isolde. Francesco ebbe per un momento il pensiero di lasciarlo là fino all'arrivo della Fiacconi, ma si sa che la vendetta è un piatto da consumare freddo, pertanto rinviò il proposito per essere ancora più efficace. Quando mancavano pochi giorni al congedo, si presentò l'occasione giusta per regolare i conti.
Di lì a poco si sarebbe tenuto il convegno delle sezioni pensionati italiani del CAF e anche quella di Fermo doveva invitare tutti gli associati a partecipare o a delegare qualcuno a rappresentarli. Erano in programma le elezioni per il rinnovo degli organi nazionali e il capo di Isolde mirava a un incarico. Più iscritti della sede fermana votavano, maggiori erano le sue possibilità. Barozzi ormai credeva che, come per la naja, gli “ultimi giorni all'alba” sarebbero stati meno pesanti. Non aveva considerato il sergente Fiacconi.
Fu infatti incaricato di aprire l'armadio e prendere un casellario, che conteneva un lercio elenco di tutti gli iscritti alla sezione degli ultimi cinque anni.
“Invitali uno per uno al convegno”, ordinò la donna con una punta di sadismo.
Significava prendere carta da lettera, penna biro, scrivere a mano ogni indirizzo e usare la saliva per sigillare la busta e attaccare il francobollo. La colla era finita e la piccola cassa era stata svuotata dalla Fiacconi per comprare una tovaglia su cui frantumare meglio la focaccia. Ottocento nominativi, cioè ottocento buste, cioè due giorni e mezzo dedicati a imbustare.
Fu così che a Barozzi venne l'idea che doveva portare alla fine di Isolde. Anziché spedire le lettere al “Gentile Signor Rossi” della situazione iniziò a coniare epiteti, uno diverso dall'altro, per ciascun associato.
Dopo gli interlocutori “Egregio Signor” e “Esimio Dottor”, ecco partire una serie di appellativi personalizzati: “Fantastico Signor”, “Munifico Dottor”, “Pazzesco Signor”, “Chiarissima Signora”, “Memorabile Signor”. Giunto all'ultimo centinaio di buste, si servì di un vocabolario per trovare aggettivi non utilizzati in precedenza. Vennero così fuori lettere indirizzate al “Rutilante Dottor”, “Strepitoso Signor”, “Sesquipedale Signora”.
Isolde non le avrebbe viste, perché toccava a lui – e a chi se no – andare ad imbucarle. Ci volevano almeno tre giorni prima che la missiva arrivasse a destinazione e gli iscritti se la sarebbero presa solo con la pingue impiegata, essendo lui stato congedato ventiquattro ore prima.
Francesco immaginava il capo del CAF subissato di rimostranze e la sua tutor finalmente inchiodata alle responsabilità che per anni aveva schivato.
Senonché, durante l'ultimo giorno in ufficio di un Barozzi eccitato al solo pensiero di quanto stava per accadere, al CAF vennero recapitate tre lettere. Erano intestate al “Clamoroso Dottor Poggi”, al “Baldanzoso Signor Giannini” e all'“Amica Signora Amico”. Sulle tre buste, in alto a destra, era stato apposto un timbro: “DESTINATARIO DECEDUTO”.
Isolde si grattò le mammelle e telefonò al capo.
Francesco perse la paga degli ultimi due mesi di servizio, ma non era tutto. Gli fu imposto di donare due milioni e mezzo di lire per evitare ogni strascico legale visto che aveva messo in cattiva luce il buon nome del CAF. Non pensava proprio di salutare così quelle plafoniere al neon piene di insetti spiaccicati.
Dopo un paio di settimane riuscì ad analizzare con più freddezza i mesi trascorsi in quel tugurio. C'era finito per prendere tempo, perché non aveva in testa alcun piano B. Ora sapeva che un piano B non gli serviva. Terminata l'università avrebbe fatto l'insegnante. Ed era il caso di accelerare con la tesi.
Fece più in fretta possibile e prima della fine dell'anno si laureò con una dissertazione sul Postino di Neruda.

Giulio Natali

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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