L'odore è di muro umido, di aria ferma, di vapore corposo. Tra tanti, l'unico suono che risuona nelle mie tempie è il ticchettio rosso di una lampada appesa. Non distinguo altro, il mio corpo percepisce movimenti rallentati intorno ma sono lontani, in un'altra dimensione. Solo il rosso di quella lampada sembra riuscire a catturare la mia attenzione e i miei occhi lì si fermano per un tempo indefinito. Mi pare di sentire la voce di mia madre provenire da lontano, sottile e flebile come un sussurro appena accennato. Mi chiama per nome, come faceva la mattina per obbligarmi ad alzarmi per andare a scuola. Una leggera increspatura della voce tradisce un volto bagnato di lacrime lunghe e rotonde. Non capisco l'origine di questa sensazione di malessere che mi aleggia tra i pensieri, intorpidendo la mia lucidità. Mi sembra di dormire, di essere profondamente calata nella trama fitta di un sogno che tenta di convincermi che sia reale. Quando le palpebre chiamano a raccolta tutte le forze per sollevarsi, le pupille divengono cieche per qualche secondo di luce glaciale. Lo sforzo è enorme, ogni microscopico movimento del bulbo oculare costa sudore e stanchezza istantanea. Il cervello pompa comandi a raffica, impone un ultimo, esasperato sforzo per uscire dal quel torpore. Le forme prendono ad avere confini, i colori si sfumano in tonalità sempre più accese, le voci si ricongiungono alle bocche. La luce rossa ora ticchetta di un bianco impolverato, ovattato e sordo. Altre piccole luci si accendono agli angoli degli occhi in un'intermittenza senza modulazione apparente. I pensieri sono congelati nello scopo comune di destare il corpo. La fatica vince sul coraggio e le forze abbandonano le palpebre appena rifiorite che di nuovo si serrano, questa volta seguite da una scia bianca. L'immagine di fronte è sempre la stessa: la barba mesciata di argento di mio padre che si muove veloce mentre racconta per la ventesima volta del suo unico viaggio in aereo in cui scoprì all'arrivo di aver volato sullo stesso aereo di Trapattoni (suo allenatore del cuore almeno nel quinquennio nerazzurro dal 1986 al 1991), la gonna verde scuro di mia madre che danza tra il lavandino e la tavola in giravolte ogni volta più ardite, Daniel che sorride all'ennesimo invito a mangiare ancora un po' di dolce da parte di mia nonna che non lascia un attimo di tregua a fauci e stomaci, io che d'improvviso spengo la luce su quel ritratto di famiglia lasciandolo incompiuto. Lì finiscono i miei ricordi, lì si sono fermati occhi e mente, intrappolati in una diapositiva troppo piccola. L'audacia degli occhi trova conferma qualche ora più tardi in un secondo tentativo di fuga. Questa volta la mente ha registrato la reazione precedente e non è più del tutto impreparata ed impaurita. E' un risveglio diverso dal primo, più fulmineo, più di spavento. In piena riemersione da una lunga apnea, spalanco occhi e bocca alla ricerca famelica di luce ed aria. Il calore di una mano mi spinge la fronte indietro con sicurezza consolante. Le membra non possono sostenere un'altra battaglia e si arrendono a quel tocco lieve, grate di avere un nuovo sostegno. La luce è fioca, meno prepotente e solleva le pupille dalla fatica della messa a fuoco. Il calore della mano si sposta verso le guance e discende verso le labbra secche di arsura, fino a raggiungere l'estremità del braccio immobile. La carezza sottile ridesta le mie dita intorpidite che si animano svogliate sotto quel tocco, rispondendo ad altre dita più nervose e tremolanti. Il respiro inizia a calmarsi dopo puntate veloci ed ingolfate e il sangue rallenta la sua corsa sfrenata per dar tregua ai polmoni sfiancati. Solo gli occhi ci mettono un po' di più a capire che né la barba di mio padre, né la gonna verde scuro di mia madre o i sorrisi di Daniel con la nonna avrebbero ripreso il loro posto nella tessera in cui si sono chiusi. La mente formula domande mute. Le risposte restano sospese in aria, come aquiloni danzanti trasportati con forza dagli strattoni del vento. I sensi si destano lenti solleticati da una luce o da un profumo. Sento voci pronunciare vocaboli incomprensibili alle mie orecchie che aiutano solo ad identificare il viso che le emette. Il mio corpo sta realizzando di essere vivo, forse ammaccato, ma vivo. Il profumo fresco del dopobarba di mio padre entra diretto dal naso ad una piccola casella della memoria, innescando una serie di fulminee connessioni che finalmente ottengono il risveglio. Quell'odore trova subito la sua origine nella camicia azzurra con le maniche arrotolate sui gomiti di papà, seduto alla mia destra intento a leggere la Gazzetta dello Sport. Non c'è nessun altro nella stanza, il silenzio è interrotto solo dal ritmo di un allarme rosso che scandisce i secondi in una conta infinita. Non faccio alcun movimento, nessun suono esce dalle mie labbra ora meno secche. Giro gli occhi senza frenesia, lasciandoli abituare alla luce con calma e registrando ogni particolare di questo posto sconosciuto. Un respiro più profondo mi fa riassaporare il gusto dell'aria e d'istinto giro piano la testa verso il chiarore di una giornata di maggio dipinta dietro il vetro di una finestra bianca.
⦁ “Ehi, chica, svegliati, dai! Guarda che fai tardi a lavoro...credo sia la prima volta che accade che sia io a dover svegliare te...di solito succede il contrario! Comunque, io esco vado a fare un giro in kajak a nord dell'isola con un francese che ho conosciuto ieri sera al ristorante... Un tipo fighissimo! Oh, non dire niente a Paolo che no quiero que me toque los cojones! Ciao guapa! Hasta pronto!”
Il monologo di Linda finì con la sonora chiusura del portoncino di casa che consacrò definitivamente la fine di quella notte di sonno agitato. Si tolse la coperta di cotone dalla faccia, sperando che il fresco della mattina attutisse la sensazione di malessere che le aleggiava nel torace. Si sentiva stanca, come se al posto di dormire avesse scalato una montagna in quelle ore di buio. Era la prima volta che le capitava da quando viveva sull'isola. A casa i sonni erano costantemente turbati da sogni vivi che intrappolavano la mente in una continua veglia, senza riposo, in costante allerta. Col tempo la situazione era migliorata e gli incubi si erano dileguati in rare occasioni fino a sparire del tutto dopo il suo arrivo sull'isola. Quella mattina segnò la fine di un record fondamentale per lei e riconobbe immediatamente la sensazione prima ancora di ricordarne i dettagli. La scena era come da copione, con qualche particolare diverso, ma chiaramente riconoscibile, la sensazione di impotenza ed immobilità pareva le bloccasse davvero mani e piedi fino al secondo prima del risveglio col fiato corto. Un'espressione spaventata la accolse allo specchio del bagno e subito tentò di cancellarla con un getto di acqua fredda. Il telefono stava squillando la sveglia da almeno un'ora e lei si decise a scrollarsi di dosso quei primi minuti di giornata e soprattutto quel fastidio che tentava di insinuarsi sotto pelle. Recuperò il ritardo saltando il caffè da Pedro e rinunciando alla scorciatoia per il saluto al mare e puntò dritta verso la piazzetta del pub. Entrò sicura, dirigendosi verso il quarto del personale quando la punta del suo naso fu raggiunta da una fragranza piccante e dolce che le arrestò il passo. Di scatto si girò verso l'entrata della cucina che le rifletteva l'immagine immobile. Non sapeva cosa aspettarsi né tantomeno se dar credito a quell'istinto che le suggeriva che non poteva essere una coincidenza. Come la volta precedente, la porta non era chiusa a chiave ed era impensabile che il cuoco avesse avuto una dimenticanza tanto grave per due volte in così poco tempo. Il sospetto che qualcuno fosse entrato di soppiatto nel pub trovò conferma una volta varcata la soglia di pavimento lucido: gli stipetti della cucina erano tutti aperti, anche se i cibi dentro erano solo spostati, sembrava che qualcuno avesse cercato qualcosa mettendo le mani a casaccio. Non mancava nulla dalle attrezzature costose con cui Tony aveva tappato ogni angolo della cucina, solo dalla dispensa mancavano zucchero, farina e qualche scatoletta di legumi. Più che un vero ladro pareva qualcuno affamato intento a sfamarsi con quello che trovava. La sensazione di nausea della mattina le si ripropose veloce e fastidiosa e una sottile paura le percorse il corpo. Ricercò un po' di autocontrollo e risistemò la cucina per evitare che Tony si accorgesse di qualcosa di strano, chiuse e rimise la chiave nel vecchio barattolo di latta. Decise che non ne avrebbe parlato con nessuno, che non era il caso di allarmarsi per così poco. Era turbata, è vero, ma una vocina nella testa le diceva che c'era qualcosa da capire dietro quella scia di cannella. Abbracciò la scopa e non si fermò fino a quando il pub non brillò di nuovo. Il sole iniziava a calare quando si mise sulla strada del ritorno. Le giornate avevano tagliato la loro lunga coda di ore assolate e l'aria aveva ricominciato a far sentire la sua presenza sulla pelle. Si sentiva ancora stranita da quella giornata. Avrebbe voluto tornare a casa e trovare Teo sul letto intento ad accordare la chitarra e la certezza che questo non sarebbe avvenuto la confinò ancor di più nell'abbattimento che aveva caratterizzato tutto il giorno. In lontananza scorse il carretto del suo amico contadino che si dirigeva lento e pesante verso la passeggiata del lungomare. La schiena curva e il cappello invernale lo rendevano riconoscibile tra mille. La sua andatura lasciava dubbi su chi o cosa stesse facendo più fatica in quel tragitto, se il carretto cigolante di raggi arrugginiti o le gambe instabili nascoste da lunghi pantaloni fuori misura e stagione. Avrebbe voluto avvicinarsi e superare lo scambio di gesti di cui erano composte le loro conversazioni mute per ascoltare il suono rugoso della sua voce. Aveva disperatamente bisogno di riemergere dal silenzio in cui si era ritrovata intrappolata dopo l'incubo, ma le parole si asciugavano nel labirinto delle corde vocali e la bocca mimava una smorfia afona. Lo guardò allontanarsi lento, ingurgitato dalla folla di turisti che pareva andasse tutta in direzione opposta. Si chiese quali pensieri attraversassero quella fronte spessa e marchiata dagli anni, quali memorie galleggiassero sul filo d'acqua che gli inumidiva sempre gli occhi. Sapeva che le risposte sarebbero state racchiuse in un sorriso storto e in un cenno del braccio. Non capì come mai, ma per un momento quella sicurezza sconosciuta la sollevò dall'ansia, ricordandole che il silenzio può essere una scelta, non per forza una trappola. Il suo vecchio amico ambulante non si nascondeva nel suo mutismo. Quella era la forma di comunicazione che più gli era congeniale, in cui trovavano dimensione i pensieri più intimi, in cui botta e risposta avevano un'unica origine ed un' unica fine: dentro di sé. Provò a rispettare il ritmo di quella giornata senza forzature. Il desiderio di spezzare quell'omertà si fece meno denso. In fondo, il tempo l'aveva allenata a combattere la paura di quelle immagini notturne che si riproponevano con forza dirompente così, all'improvviso, senza alcuna causa apparente. Adesso si sentiva solo fuori allenamento e colta impreparata ad un esame che credeva di aver superato brillantemente. L'altalena di sensazioni la sfiancò più dei kilometri di bicicletta verso casa. L'insegna ondeggiante di neon del Bar di Pedro le apparve nuovamente come il riparo sicuro per dar tregua a gambe e testa. I tavolini erano coperti dalle sedie impilate, l'odore di sigaro e lavanda era meno intenso a quell'ora tarda, sbaragliato dal vento che si rincorreva tra la porta e le finestre della sala da pranzo. Pedro era intento a lustrare il bancone deserto di boccali di birra, mentre Rosa canticchiava ‘Besame mucho' muovendo i fianchi larghi in una danza improvvisata con il bastone per lavare il pavimento.
Manú Blanca
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