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Autore: Sendi Grilli
Giusto per non lasciarci come dei cani
Narrativa Mainstream
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Giusto per non lasciarci come dei cani
Spensi la sigaretta nel posacenere soffocandola in mezzo ad altri venti mozziconi, avevo gli occhi arrossati, le labbra secche e un fastidioso cerchio alla testa. Buttai fuori dalla bocca una nuvola di fumo, si dissolse nell'aria. Misi il punto, andai a capo e digitai la parola “Fine”.
Erano le quattro del mattino di una domenica di inizio primavera, avevo finalmente concluso il mio primo romanzo, tagliato un traguardo apparentemente irraggiungibile. Rilessi l'ultimo capitolo prima di andare a dormire.

Singapore. Quei venti minuti settimanali erano solo per sua madre, un appuntamento fisso, la telefonata di ogni domenica alle sei e mezzo del pomeriggio, ora locale. Col passare degli anni qualcosa era cambiato: la frequenza delle chiamate era diminuita e la conversazione si era fatta minimale rispetto a prima, ridotta all'essenziale, basica e stilizzata. Con l'avanzare dell'età si tende a essere più sintetici.
Peccato! Avrebbero voluto raccontarsi chissà quante cose, poi finivano col pronunciare sempre le stesse frasi standardizzate.
- Antonio, sei tu? -
- Come stai mamma? -
- Bene, raccontami di te. -
- Si tira avanti, anche se il lavoro... -
- Che hai detto? Non ti sento bene! -
- Dovrebbe essere la linea, forse non c'è abbastanza campo. Aspetta un attimo. -
- Ora ti sento meglio. -
- Ho detto che sto bene, qualche problema col lavoro ma niente di irrisolvibile. -
La signora controllò le tacche del segnale, la ricezione era debole. Antonio aveva parlato di un possibile rientro, avrebbe potuto e voluto prendersi tre settimane di ferie nel mese successivo, stava valutando la questione.
Il tempo aveva cambiato le cose, i rapporti e le abitudini. La voglia di rivedersi si trasformava in un sentimento di paura nel mostrarsi diversi, con qualche ruga in più e nell'affrontare nuovamente un congedo solamente pochi giorni dopo il tanto atteso riavvicinamento. L'ennesima separazione, sarebbe stata la parte più difficile, quella da evitare. Ogni volta amara e triste come se fosse l'ultima, accompagnata da un fastidioso nodo in gola che bloccava la deglutizione. Lo sapevano, si preparavano, ma poi finiva sempre con un abbraccio seguito da una lacrima che non avrebbero voluto versare; non per vergogna, bensì per non ferire l'altro, non peggiorare la situazione. Il silenzio attutiva il dolore mascherando il problema. Un modo come tanti per complicarsi la vita. Tutto ciò faceva deviare il discorso su altri argomenti. Avrebbero dovuto affrontare la cosa più alla leggera. Sarebbe stato meglio per tutti.
- Ci sentiamo la prossima settimana o magari anche prima. Ti farò sapere - , disse Antonio rassicurando la madre.
- Aspetto la chiamata. Stammi bene. -
- Anche tu. -
Era quasi buio, Singapore si era accesa e brillava di luce propria, una stella poggiata sulla superficie dell'oceano Indiano. Era ora di uscire.
- Sei pronto? - La voce squillante di Francesca, la sua compagna, stava finendo di sistemarsi il caschetto biondo platino davanti allo specchio con un fermaglio in bocca e la radio accesa ad alto volume.
- Sì, stavo aspettando che finissi, andiamo! -
La passeggiata a Orchard Road, la via delle grandi firme, era una tappa fissa settimanale, quella del tardo pomeriggio di una domenica qualsiasi.
Antonio e Francesca buttavano l'occhio sulle sfarzose vetrine rimanendo a una certa distanza di sicurezza dalla porta di ingresso, la merce in vendita era costosissima. Trovavi solamente le migliori marche di tutto il mondo: orologi, abbigliamento, calzature e accessori. Oggetti destinati a una classe sociale lontana da quella a cui loro appartenevano. Una zona delimitata e accessibile esclusivamente all'alta borghesia. Una realtà sfarzosa, esagerata e intoccabile, l'apice del consumismo. Secondo un sondaggio la città racchiudeva la più alta densità di milionari al mondo.
Singapore mostrava con orgoglio la sua classe, simile a una donna attraente: elegante e proibitiva, affascinante e irraggiungibile.
Francesca non aveva mai amato questa piccola e perfetta metropoli, la considerava una città viziata, presuntuosa, selettiva, snob, attaccata al solo apparire, troppo sofisticata. Talmente pulita e ordinata che sarebbe stato un peccato camminarci sopra. Una città da tenere in garage. Un clima angusto, caldo e umido dovuto ai soli 152 chilometri che la separano dall'equatore. Non che la odiasse, riusciva a osservarla con distacco, farsela rimanere indifferente, non la considerava nulla di speciale. Per lei era semplicemente “normale”, un luogo come un altro, né più né meno.
Antonio la pensava diversamente, una questione di punti di vista, opposti l'uno all'altro. Vedeva la piccola enclave asiatica come un gioiello pregiato, una bomboniera, un rifugio prezioso, il miglior posto dove poter vivere: funzionale, tranquilla, sicura, esteticamente bellissima. Un luogo da invidiare, un'oasi in mezzo al disordine dell'intero sud-est asiatico. La graziosa città-stato era un angolo di paradiso in un mondo ormai violentato. Non sarebbe riuscito a godersela fino in fondo, l'avrebbe vissuta marginalmente, assaggiandola in superficie, rimanendo in disparte senza esserne protagonista. Avrebbe dovuto accontentarsi, la sua condizione economica non ne sarebbe stata all'altezza. Il solo fatto di farne parte lo considerava già abbastanza, un punto di partenza, col tempo le cose sarebbero migliorate.
Il caldo era sopportabile, faceva più fresco del solito, proseguirono a piedi, cambiarono zona, era ora di cena. Il tratto di strada che collega Clarke Quay a Marina Bay brulicava di gente ben vestita, la maggior parte con addosso quell'inconfondibile e altezzosa aria da manager. Personaggi alla moda accompagnati da belle donne addobbate di gioielli, passeggiavano nell'area pedonale di Boat Quay in cerca del locale più adeguato alle loro esigenze: pub, bar, ristoranti, c'era l'imbarazzo della scelta. Molti erano già seduti ai tavoli dei dehors situati nel lato costeggiato dal tratto finale del fiume che sfocia sull'incantevole baia, il fiore all'occhiello di tutta l'isola.
Una città sorprendente, pittoresca, emanava qualcosa di magico: la tranquillità di un piccolo paese con le caratteristiche di una moderna e stravagante metropoli asiatica. Un capolavoro assoluto di architettura moderna incastonata su misura nel vecchio stile coloniale. Antonio l'aveva sempre considerata un binomio vincente. Sculture in movimento, acciaio, vetro, colori e tanto verde: il connubio era perfetto senza che nulla fosse lasciato al caso.
Due calici di vino, un piatto di pasta, una pizza, un tiramisù e due caffè. Una strisciata alla carta di credito, erano volati via più di cento dollari. Due passi verso il Merlion, il simbolo della città, una statua con la testa di un leone e il corpo di un pesce; l'ultima tappa prima di rientrare a casa, nel minuscolo appartamento ubicato nella zona periferica della città, completamente fuori dal groove, un'area non più considerata esclusiva.
La piattaforma che sorregge il Merlion era un continuo viavai di turisti, un flusso costante multietnico. Una raffica di flash, le pose più strane, l'immancabile foto ricordo sullo sfondo di una delle baie più suggestive e quotate di tutto il mondo. Uno skyline alle spalle da mille e una notte.
Francesca si mise in posa, ne aveva centinaia scattate nello stesso punto, ogni volta insisteva per farne un'altra, erano tutte simili e nessuna uguale. La sua ossessione maniacale per la fotografia come la maggior parte degli orientali, si mimetizzava bene tra loro, aveva modi di fare in comune.
Sopraggiunse un gruppo di giapponesi, una gita organizzata, un mucchio di persone guidate da un leader con in mano una bandierina. Un fiume di gente che trascinò via la poesia del momento.
Lei si allontanò di pochi metri, evitò la massa, si fece spazio, stava cercando una posizione più strategica per questo benedetto scatto, non si era mai capito perché ci tenesse così tanto.
Il gruppo si mise in mezzo. Antonio abbassò la camera e alzò il braccio per richiamare Francesca. Non era il momento adatto, troppi corpi in movimento, una confusione difficile da gestire. La perse di vista. Senza aver fretta scrutò in mezzo alla folla cercandola con lo sguardo. Francesca sembrava svanita nel nulla. Antonio si girò e rigirò controllando ogni angolo della piattaforma, si allertò, poi la rivide, era di nuovo lì, si era spostata solamente di qualche metro, aveva sostituito il sorriso con un'espressione seria e preoccupata. Faceva fatica a tenerla sotto controllo, non c'era mai riuscito, succedeva da sempre.
- Aspetta un attimo - , gridò Francesca. Aveva ragione, una baraonda ingestibile, sarebbe stato meglio far calmare le acque, in fondo non c'era tutta questa fretta.
Antonio si assicurò per l'ennesima volta di avere in tasca l'oggetto che avrebbe reso importante un giorno qualunque, il cofanetto contenente un anello d'oro bianco con un piccolo zaffiro incastonato. Aveva scelto quella domenica per solidificare il loro rapporto, riteneva che fosse la donna giusta. Si sarebbe fatto avanti una volta scattata la fotografia. Emozionato e ansioso, non vedeva l'ora di compiere il grande passo.
La vide voltarsi, sembrava inquieta, dava l'impressione di aver intuito qualcosa. Inespressiva, fredda, con passo spedito iniziò a dileguarsi. Antonio pensò che stesse cercando un altro angolo, una visuale migliore, prese tempo cercando di attutire un'insolita ansia sbocciata dal nulla. Di nuovo tutto il gruppo davanti agli occhi, avrebbe dovuto rinunciare. Un frastuono insopportabile, Antonio non riusciva a capire perché si fosse allontanata. Andò in cerca di una spiegazione che non arrivò. Rimase immobile ad aspettarla. La folla si dileguò. Francesca non c'era più, volata via dalla sua vita per sempre.
Fine.

Conclusi il mio romanzo così, un taglio netto e fine della storia. Avrei spiazzato il lettore lasciandolo nel dubbio più concreto. Freddezza, instabilità e abbandono. Una doccia gelida in un frangente inaspettato. La perdita di una persona proprio nel momento in cui aveva deciso di affidarle tutto. Lanciai un messaggio e lo feci nel modo più diretto ed esplicito possibile: la disaffezione è femmina. Alla base non c'era nessuna forma di maschilismo, si trattava semplicemente di un punto di vista in relazione a statistiche ed esperienze. Né positivo né negativo. Pragmatico.
Una storia basata su una relazione apparentemente perfetta costruita su un terreno molle, prima o poi sarebbe franato. Esternamente sana, internamente infetta da gravi patologie, un caso complicato. Francesca aveva solamente preso l'iniziativa, attuato una terapia d'urto, la soluzione estrema. Non sarebbe più tornata indietro facendo emergere la vulnerabilità maschile di Antonio di fronte a tale situazione.
Dopo mesi e mesi di lavoro avevo tra le mani la prima stesura, solamente una bozza. Una scultura grezza che doveva essere ancora levigata. La storia aveva preso forma, mancavano i dettagli. Avrei dovuto leggerla, correggerla, cambiarla. Tagliare e aggiungere pensieri e dialoghi. Ricamarla e abbellirla con metafore e citazioni. Poi rileggerla ancora e ripetere la procedura più volte, come un accurato lavoro “taglia e cuci” di sartoria. Ci sarebbe voluto tempo prima di tirare fuori l'abito confezionato. C'erano operazioni da compiere e imperfezioni da sistemare. La prima fase era conclusa, avevo perlomeno qualcosa di concreto tra le mani su cui lavorare.
La struttura era pronta dovevo applicare le migliorie. Lo immaginavo come un appartamento nuovo, vuoto, non rifinito; spettava solamente a me l'onere di arredarlo, abbellirlo nel miglior modo possibile. Renderlo piacevole, emozionante, coinvolgente. Lo scopo era quello di tirare fuori qualcosa di valido che sarebbe rimasto nel tempo.
Era capitato tutto per puro caso, la magia di una semplice intuizione. Una spinta che mi aveva permesso di proseguire portando a termine il manoscritto. Mi erano piovute addosso idee astratte, forse un po' irrazionali, incoerenti, una sequenza di parole raccolte qua e là nel corso degli avvenimenti quotidiani. Cose viste, vissute o solo immaginate. Tasselli essenziali che avrebbero potuto mettere la parola “fine” a una storia semplice, priva di un particolare intreccio, senza il bisogno di aggiungere ulteriori e complesse spiegazioni che non sarebbero servite a nulla, perlomeno non in questo romanzo.
Erano mesi, per la precisione sei, che non riuscivo ad andare avanti. Mi ero fermato allo stop, si era spento il motore. Immobile e smarrito al centro di un incrocio in mezzo al nulla, statico, privo di idee, con un estro ormai completamente eclissato. Alcuni lo chiamano “il blocco dello scrittore”, per me era semplicemente non avere più nulla da raccontare, un vuoto assoluto legato a una crisi esistenziale. Non avrei potuto procedere senza l'impulso di un'ispirazione, mi servivano stimoli: situazioni intriganti, emozioni forti, magari una donna, quella che nell'arte viene chiamata una musa ispiratrice. Li cercai e non trovai nulla. In mancanza di meglio dovetti accontentarmi di un escamotage nato in un piccolo istante di estro creativo. Tagliai corto inserendo un finale inaspettato e illogico. Era stato come rimettere in moto l'auto e proseguire fino a destinazione. Percezioni, ispirazioni e immagini si tramutarono in un'idea concreta, la chiave per terminare il romanzo. Situazioni captate per strada, ricordi riaffiorati, sentimenti accantonati e riemersi. Mescolai tutto quanto e lo filtrai come una tisana cercando di far uscire qualcosa di buono, un concentrato di vita.
Si trattava di una faccenda che andava svolta al momento, senza poter essere programmata. La scelta era caduta su quel sabato di fine marzo. Non avendo impegni di lavoro o cose importanti da fare sfruttai la situazione. Durante la giornata avevo trascritto su dei foglietti di carta pensieri estemporanei e idee alla rinfusa. Li avevo davanti agli occhi sparsi senza un ordine logico. Tentai di sistemarli, ordinarli, elaborarli, rivederli, scartarne alcuni, prenderne altri, inserirli in un giusto contesto e romanzarli adattandoli alla storia. Non era un affare da poco.
Decisi di provarci, non avrei potuto rimandare ancora. Cambiai il programma della serata, rinunciando a una serie di cose: amici, alcol e divertimento. Il solito sabato sera da ormai più di vent'anni. Un cliché di un soggetto avvezzo al susseguirsi delle identiche e ripetitive mondanità. La solita gente, gli stessi locali, le medesime situazioni, l'abituale sbronza che, nella maggior parte dei casi, non mi avrebbe lasciato altro che uno strascico di delusione e un'insopportabile spossatezza nel giorno seguente. Non sarebbe di certo morto nessuno se avessi deciso per una volta di non farmi il solito giro di giostra. Avevo girato la ruota e l'ago aveva puntato sulla serata alternativa. Escogitai un'opera di autoconvincimento e rimasi a casa completamente solo. Mi ero fatto una sega giusto per togliere dalla mente stimoli e ripensamenti. Spensi il telefonino per evitare ogni comunicazione con l'esterno, sopprimere qualsiasi forma di tentazione e distrazione. Sarebbe stato fondamentale affrontare il compito in un ambiente sterile, non contaminato, vergine.
Volevo e dovevo portare a termine il progetto. L'aspro senso di incompletezza si era esteso, aveva sconfinato i propri limiti, intaccato la mia sfera privata, infettato l'umore. Non ero più lo stesso negli ultimi tempi, così mi avevano detto le persone a me vicine. Dovevo separarmi da un legame divenuto dannoso e opprimente.
Aprii la finestra per cambiare aria, faceva più fresco del solito, stava iniziando a piovere. Fu una manna dal cielo, facilitò la mia scelta rendendola motivata, indolore e priva di rimpianti. Sembrò tutto perfetto. Mi ero accomodato nel soggiorno in compagnia di un computer portatile, una tazza di tè bollente e un pacchetto di Lucky Strike, quelle forti. Poche cose, indispensabili e sufficienti, non avrei necessitato d'altro.
Aprii il file e rilessi alcuni passaggi. Immaginai la scena, mi calai nella storia e iniziai a scrivere. Lettera dopo lettera, parola dopo parola, nel giro di qualche ora il cerchio si chiuse e il manoscritto prese forma diventando una cosa concreta e tangibile. Non avendo alternative migliori, scelsi una fuga come via d'uscita, un finale breve e insensato. Avevo tirato giù di colpo la saracinesca, era stato rapido e indolore, più semplice del previsto. Per mesi mi ero arrovellato il cervello cercando una cosa di cui non avrei avuto bisogno. Colsi la soluzione, l'avevo sempre avuta a portata di mano senza essermene accorto. Non avevo creato nulla di particolare, era bastato inserire un cambiamento repentino e soprattutto inaspettato di Francesca. Avevo lasciato emergere il suo essere donna, non c'era nulla di strano. Si era sviluppato un finale alternativo da lasciare il lettore con l'amaro in bocca, concedendogli però il libero arbitrio su come interpretare l'epilogo della vicenda. Evitai volutamente di essere troppo esplicito, lavorai sull'astratto descrivendo emozioni e stati d'animo, scartando l'idea di inserire una trama logica e complicata. Situazioni coinvolgenti, dialoghi interessanti e personaggi singolari; era questa la formula che avevo scelto utilizzando qualsiasi cosa purché emozioni. Un sogno può essere bello anche se privo di logica, lo avevo letto da qualche parte.
Ero ancora molto indeciso sul titolo, ci avrei pensato nei giorni a seguire.

Sendi Grilli

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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