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Autore: Raffaella Nardi
I cannibali
Narrativa
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I cannibali
Il pianto delle madri - плач матерів.

“Vorrei che nascesse con un cesareo programmato” disse Cecilia a Carlotta Panerai alla trentaseiesima settimana di gestazione.
“non vedo il motivo di un cesareo che anzi sarebbe controproducente” rispose ferma l'amica.
“Perché? In che senso controproducente?” replicò Cecilia
“Per il tempo di recupero fisico della gestante. Fidati, se non ci sono indicazioni contrarie meglio il parto fisiologico, la Spenderin si riprende più in fretta, torna prima alla sua vita, incassa i suoi soldi ed elabora il vissuto con maggiore rapidità”.
Cecilia incassò questo ennesimo colpo. Non avendo potuto partecipare a quella gestazione come avrebbe voluto, il tentativo di spingere verso un cesareo programmato la faceva sentire padrona di quella pancia, di quel bambino che avrebbe voluto far nascere a suo piacimento, in una data a lei comoda, in accordo con i suoi impegni.
Il bambino venne invece alla luce nei tempi dettati per lui da Madre Natura. A ben guardare la nascita fu l'unico evento naturale di tutta quella vicenda che ebbe inizio poco più di un anno prima. Alla quarantesima settimana di gestazione, il data 10 febbraio 2034 nella cornice di un'elegante clinica privata sulle colline fiorentine, il figlio concepito incrociando le cellule di Olga con quelle di Carlo fece il suo ingresso nel mondo. Cecilia e Carlo furono con Olga per tutta la durata del travaglio e in sala parto. Il bambino venne alla luce la mattina alle ore 6:45 dopo un'intera notte di travaglio. Alla nascita il pupo, sano e florido pesava oltre 4 Kg. Per Olga il parto non fu semplice visto le dimensioni importanti della creatura. Subito dopo la recinsione del cordone ombelicale, praticata da una emozionatissima Cecilia, il bambino fu consegnato nelle mani della madre legale. Armato della sua telecamera professionale Carlo fotografò e filmò l'intero parto curando con dovizia di dettagli ogni aspetto tecnico delle riprese. Una volta reciso l'ultimo legame col corpo di Olga l'ostetrica lo consegnò alle mani di Cecilia che lo prese stringendolo a sé visibilmente soddisfatta ed emozionata. La telecamera di Carlo era a completo servizio della coppia madre-figlio. I primi fondamentali momenti di unione fra Cecilia e il bambino venivano così immortalati in un reportage fotografico destinato a testimoniare le tappe evolutive dell'agognata famiglia a tre che stava prendendo forma. Olga fu prontamente dimenticata nel suo letto di puerpera. I medici le stavano praticando dei punti di sutura quando Carlo fece un gesto inaspettato, dettato forse da un residuo di pietà o dal ricordo di quello che c'era stato fra di loro. Col neonato in braccio si avvicinò alla faccia di Olga ancora distesa e dolorante affinché lei lo vedesse. Olga abbozzò un sorriso mentre piangeva lacrime silenziose. Era stanca, spossata, era “vuota”. Fu invasa da un senso di estraneità come se fosse uscita dal suo corpo e assistesse alla scena dal di fuori. Era arrivato il momento del distacco definitivo, il momento della sua uscita di scena dalla vita di Carlo e di sua moglie Cecilia. La sua funzione in seno a quel matrimonio si era esaurita con il primo vagito della sua creatura. Non le fu consentito di toccarlo né tantomeno di baciarlo. Quel fugace sguardo sul bambino reso possibile per gentile concessione di Carlo sarebbe stato l'unico e l'ultimo ricordo di suo figlio.
“Rimettiti presto Olga, ti siamo infinitamente grati di averci aiutato a realizzare la nostra famiglia. Ti ricorderemo per sempre. Buona fortuna per tutti i tuoi progetti a venire”.
Con queste parole fintamente accorate, di pura circostanza, Olga fu congedata dalla sua committente Cecilia. Carlo invece non ci mise neppure la faccia, se ne era già uscito seguendo l'infermiera che portava il bimbo in un'altra stanza per la visita pediatrica. Probabilmente, come nel suo stile, le avrebbe poi scritto un lungo messaggio di addio, accennando all' innaturalezza dei tempi in cui vivevano, comunicandole tutta la sua gratitudine, il suo dispiacere nell'averla vista eccessivamente coinvolta emotivamente, augurandole di dimenticare presto e di ricongiungersi con sua figlia.
Olga fu trasferita in una camera singola confortevole ed elegante con uno splendido affaccio su Firenze. Le fu comunicato che la stanza era stata pagata per quella notte ma che sarebbe potuta rimanere anche dei giorni extra, i suoi committenti avrebbero provveduto alle spese per il tempo del suo recupero fisico. Una volta arrivata nel reparto di degenza Olga fu attanagliata da un dolore viscerale, assoluto, indicibile che le paralizzò la gola impedendole di assumere cibo e acqua e quasi di respirare. Sentiva il dolore vivo della ferita aperta là dove poche ore prima il bambino si era aperto la via d'uscita attraverso i suoi organi. Dov'era adesso, dov'era il bambino? Si toccava il ventre vuoto ma ancora sformato e gonfio con un senso di irrealtà, con la sensazione di stare impazzendo. Nel suo animo si alternavano abissi di sconforto, sensazioni di vuoto e di perdita, senso di smarrimento, rabbia per sé stessa e per il modo strumentale nel quale era stata trattata da Carlo, disgusto al pensiero di aver potuto provare un sentimento molto simile all'amore per un uomo come lui. Neanche la visita di Oleksandra riuscì a distrarla dai suoi tumulti interiori. Anche il pensiero di Ulyana in quel momento non le dava nessuna forza, nessun conforto, era anzi un pensiero che lei allontanava perché la faceva sentire ulteriormente in colpa. Pensare alla figlia lontana e al figlio appena partorito ceduto per denaro era come uno schiaffo sulla sua coscienza di madre. Non aveva più nessuna forza di lottare, era come una pila esausta, si sentiva piccola, usata, svuotata, ingannata, umiliata, senza nessun orizzonte futuro. Provava disgusto per sé stessa e per il suo gesto. Le esplodeva la testa, i pensieri si accavallavano: come era arrivata fin lì? Poco dopo le 17:00 calò la notte, le luci della camera si abbassarono automaticamente per predisporre al riposo. Il turno delle infermiere cambiò, c'era meno personale a giro per il reparto, l'atmosfera era pulita, razionale, asettica. Dalla finestra entrava il buio della notte rischiarato dalle luci rotonde e basse delle lampade da giardino. Fu allora che nel silenzio di quella sera ovattata e carica di dolore, dall'altro lato del corridoio si levò un pianto sordo, disperato e lacerante inframezzato da grida e invocazioni. Olga girò la testa verso quel pianto riconoscendo in quel dolore il suo stesso dolore. La giovane donna a cui appartenevano quelle lacrime uscì barcollante dalla stanza e si portò in corridoio. Teneva le braccia conserte come a voler abbracciare sé stessa, strascicava i piedi, aveva il viso rosso e gonfio di chi aveva pianto a dismisura. Accorsero due infermiere che la presero e la convinsero a rientrare, Olga udì la voce di una infermiera che la consolava:
“è passato, è passato, adesso tu pensa a riposare, ti do un calmante, vedrai ci vorrà del tempo ma da domani starai già meglio, ora vedi tutto nero, è normale, ma vedrai che basterà uscire da qui, riprendere la vita normale. Calma, calma, i bambini vanno a star bene, avranno tutti una vita felice il vostro sacrificio sarà ricompensato”.
Con queste parole la convinsero a rientrare nel suo letto e le dettero un sonnifero. Uscendo dalla stanza una delle due infermiere con aria stanca ed espressione rassegnata disse alla collega:
“un tempo i reparti maternità erano i luoghi più felici del pianeta, io me lo ricordo bene. Guarda che cosa sono diventati adesso, dei luoghi di dolore e disperazione! Che bello era quando le puerpere avevano la culla accanto al letto! Francamente non so dove ci porterà tutto questo”.
La collega rispose:
“è proprio così, non si trova quasi più del personale sanitario che voglia lavorare in maternità! Siamo degli eroi, è' proprio duro sopportare questo strazio 365 giorni l'anno come facciamo noi!”
Olga si alzò, entrò nella stanza della donna, si avvicinò al suo letto e la guardò. Era giovane, straniera come lei. Stettero così in silenzio per alcuni attimi, non c'era bisogno di dirsi niente. La donna poi disse:
“era una bambina, pesava 3kg e 400 grammi”.
Olga rispose:
“Il mio era un maschio di 4Kg e 200 grammi”.
Si dettero la mano, Olga non poteva sedersi a causa del dolore dei punti di sutura, quindi stette a lungo in piedi accanto al letto della donna, entrambe con gli occhi gonfi di pianto, il corpo dolente, il ventre svuotato e un macigno sul cuore.

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