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Autore: Antonella Alboni
L'eredità McFarland
Contemporaneo Saga
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L'eredità McFarland
Un anno a Kinnaber Vol.1
L'aereo toccò terra con un pessimo atterraggio. A Edimburgo tirava vento e avevano ballato per tutto il volo. Capitava spesso da quelle parti.
Nessuno la stava aspettando e dovette affittare un'auto. Non aveva creduto opportuno farsi venire a prendere, a Kinnaber avevano da fare.
Suo padre era morto, l'aveva saputo poche ore prima da una telefonata di Mary. Lo aveva trovato lei, quello stesso mattino, nel suo letto.
Non era ancora riuscita a metabolizzare la notizia. Era corsa in aeroporto e aveva preso il primo aereo in partenza.
Tutto quel vento soffiava sul suo animo inquieto.
Conosceva bene i dintorni e, una volta lasciata l'autostrada, le parve di essere arrivata. Era la parte di Scozia che amava, così diversa dal sud dell'Inghilterra dove lei e Michael passavano i week end.
I grandi spazi le davano il sollievo della consuetudine e le sembrò di ricominciare a respirare, dopo ore di apnea.
Voleva arrivare a casa, in fretta. Il malessere non diminuiva e minava le certezze su cui aveva costruito la vita. Era abituata a muoversi su un terreno a zero rischi, del quale conosceva passato presente e futuro, o almeno lo aveva sempre creduto. Ora, l'equazione era saltata. Un cartello più familiare degli altri le si parò davanti all'improvviso, svoltò a sinistra e seppe che, in pochi minuti, sarebbe entrata nella tenuta.
Kinnaber apparteneva alla famiglia da generazioni. Suo padre, e suo nonno prima di lui, avevano dedicato la vita alla loro terra, nelle campagne scozzesi, poco sopra Edimburgo.
Passò davanti alla distilleria, diversi edifici ben tenuti di pietra grigia e tetti spioventi, che erano stati l'orgoglio dei McFarland da più di duecento anni. Era tutto chiuso, non c'erano auto e nessuno stava lavorando. Tutti avevano già saputo e lei era l'ultima ad arrivare.
Al bivio fu indecisa se imboccare la scorciatoia solita, ma alla fine risolse per la strada asfaltata, non aveva un fuoristrada e non voleva creare problemi.
Arrivò davanti a casa, un cottage enorme diviso in più corpi, costruiti in epoche differenti, assecondando le diverse necessità della famiglia. Aveva una sua armonia, i McFarland amavano fare le cose per bene. In passato vi si erano incontrati amici, giunti dalle varie parti d'Europa, uniti dalla passione per la caccia e il whisky.
Suo nonno era stato un grande cacciatore, aveva sfidato i Big Five in Sudafrica e pescato i marlin neri al largo delle coste del Mozambico, ma sua madre aveva relegato quasi tutti i trofei in un magazzino della tenuta, eccetto un paio che erano finiti nel salotto della distilleria, dove erano soliti ricevere i clienti.
Era arrivata da alcuni minuti ma non si decideva a scendere; percepiva, tutt'intorno, un senso di sospensione. La nebbiolina era a mezz'aria e l'anima di Kinnaber galleggiava ovunque, silenziosa. Aprì la portiera quando vide Mary venirle incontro. La donna l'abbracciò, in lacrime, borbottando una litania incomprensibile che ignorò, mentre ricambiava il gesto affettuoso.
- Chi c'è in casa? - .
- Il reverendo Rupert, Steve, e Frank - .
Igraine sospirò di sollievo, non se la sentiva di affrontare troppe persone.
Steve e Frank erano gli uomini di fiducia di suo padre. Erano fratelli e vivevano nella tenuta perlomeno da due generazioni. Steve era il direttore della distilleria, mentre Frank era il responsabile della tenuta.
Affetto e dedizione li univano alla famiglia McFarland e Igraine li chiamava zio Steve e zio Frank, anche se non c'erano legami di parentela. Lei era adolescente quando Frank aveva sposato Mary ed era stata sempre e solo Mary.
Entrò in casa dalla porta principale, non le andava di passare dalla stanza degli stivali. L'avevano sempre chiamata così, era un piccolo locale dietro la cucina in cui ci si cambiava, di ritorno dalla caccia o da una cavalcata. Non voleva vedere gli stivali di suo padre riposti sotto la panca, a destra dell'entrata.
Mary aveva preparato la casa per ricevere le visite, prima e dopo il funerale. Sapeva che tutta Kinnaber sarebbe venuta per le condoglianze e a piangere un uomo che aveva fatto parte della vita di tutti loro.
Steve e Frank si avvicinarono commossi e l'abbracciarono, insieme; diede la mano al reverendo Rupert e, per la prima volta dal mattino, si chiese cosa avrebbe dovuto fare.
- Dov'è papà? - .
- In camera. – rispose Mary – Non ho mosso nulla da stamani, solo il dottor Wilson l'ha visto e il reverendo Rupert ha pregato per lui. Aspettavamo te - .
- Faremo tutto quello che c'è da fare. Reverendo, quando è disponibile per la funzione? - .
- Anche domani. Immagino lo seppelliremo nella tomba di famiglia, nel piccolo cimitero - .
- Accanto alla mamma - .
- Vorrai vederlo, immagino - . Mary si alzò per accompagnarla al piano superiore.
- Ti ringrazio, ma non me la sento. Anzi, credo sia meglio portarlo nella cappella il più presto possibile - .
- Certo, certo – si prodigò il reverendo – posso usare il vostro telefono? - .
- Mary, ti dispiace accompagnare il reverendo nello studio? - .
Igraine salì di sopra. Si fermò sulla soglia della camera del padre, ma non entrò. Raggiunse la sua stanza da letto, chiuse la porta e si rifugiò sulla poltrona davanti alla finestra, lo sguardo sul cielo grigio carico di nuvole pesanti di pioggia. Avrebbe avuto voglia di addormentarsi per evitare quelle ore. Le vennero in mente i fiori, ci sarebbero voluti dei fiori! Niente di vistoso ma suo padre li amava. Se solo fosse stata a Londra..., avrebbe telefonato al suo fioraio, lui avrebbe saputo cosa fare. Ma lì, a chi chiedere? Aveva spesso comprato dei fiori al mercato ma non aveva mai avuto bisogno di un fioraio. Avrebbe domandato a Mary. Doveva scegliere anche i vestiti per suo padre e voleva mettergli, accanto, lo scialle della mamma con cui si avvolgeva le gambe quando leggeva sulla sua poltrona.
Le azioni erano sempre state per lei un rifugio dai pensieri dolorosi o scomodi, un modo per non lasciarsi sopraffare. Le ore successive se ne andarono in telefonate, accordi e strette di mano.
La notte dormì poco e si trovò a passeggiare in quella grande casa, oramai sola. Sentiva i suoi passi rimbombare e si affacciò alla camera del padre: tutto era in ordine come se nulla fosse accaduto, il letto rifatto, i libri sul comodino e i suoi occhiali appoggiati di traverso. C'era ancora la sua vestaglia sulla poltrona, vicino alla finestra. La prese e se l'infilò, avvolgendosela stretta.
Non c'era aria di morte, perché non c'era stata sofferenza. Suo padre era un uomo che aveva scelto, sembrava avesse deciso anche la sua fine, così da lasciare solo ricordi di vita.
Da quando era mancata la moglie, si era ritirato in Scozia e si era dedicato alla gestione della proprietà. La morte prematura di Francesca, la sua Francy, lo aveva segnato nel profondo. Aveva reagito, per Igraine, ma lei stava già percorrendo strade che l'avevano portata lontano da casa. Loro stessi avevano incoraggiato i suoi studi all'estero, ma la gioia per i suoi successi era sempre accompagnata dalla malinconia per non poterli condividere con quella donna che era stata l'amore della sua vita.
Rimasto solo, aveva scelto di vivere il mondo con gli occhi di sua figlia; ripercorreva le strade già battute attraverso i suoi racconti e si struggeva ogni volta che aveva sottomano una sua fotografia: era il ritratto di Francy.
Igraine scese a farsi un caffè, era quasi mattino e non valeva la pena tornare a letto.

Capitolo cinque

Si alzò presto. Mary era inarrestabile, si era affacciata alla sua porta a un'ora infame. Era già sveglia, ma le piaceva stare accucciata nel suo letto, il più comodo nel quale avesse mai dormito.
Era l'ora del notiziario, ma non aveva una televisione in camera. Inutile portarla, per qualche giorno avrebbe potuto ignorare il mondo intero.
Si vestì, ma non trovò gli abiti del giorno prima. La signora Grundall aveva colpito, mandando in avanscoperta Mary. Indossò la sua tenuta da campagna: jeans e maglietta, sotto un caldo cardigan di cachemire.
Prima di lasciare la camera rifece il letto, insegnamenti ancestrali: quando c'era da fare, quelli di famiglia non dovevano pesare sulla gestione della casa. Ci mancava solo di fare innervosire Mary, poi l'avrebbe pagata lo zio Frank.
Aveva lasciato il telefono sul comodino e dovette risalire a prenderlo, a Londra non l'avrebbe mai dimenticato.
Lo accese, e le furono segnalate un paio di chiamate non risposte, una era di Michael. Accidenti, avrebbe potuto telefonare anche sul numero di casa! La innervosiva toccare con mano la sua assoluta indifferenza per la tenuta, quel posto sperduto lassù, come la chiamava. Mai che ricordasse che avevano un telefono fisso.
Un'altra veniva dallo studio. Probabilmente era sempre lui, o forse Stuart. No, doveva essere Michael. Una punta di delusione accompagnò la sua convinzione.
Fu distratta da un andirivieni di personaggi, capeggiati da Mary. Doveva avere svegliato all'alba tutta la contea.
Timidamente si affacciò in cucina dove trovò Frank, costernato, dopo essere stato rimbrottato, di prima mattina, per una vaga inadempienza.
- Buon giorno zio, prendi un caffè con me? - .
- Si piccola, volentieri - .
Lo preparò e lo bevvero, seduti al tavolo di cucina, assieme a qualche biscotto, sottratto a uno dei barattoli dove Mary conservava i suoi dolcetti fatti in casa. Approfittarono della sua assenza e se la svignarono.
- Ti va di fare un passo in distilleria? - .
- Certo, è quello che volevo fare. Credo che in casa ci sia già abbastanza mano d'opera. Nessuno noterà la nostra assenza - .
- Come non conosci Mary... mi accuserà di averti portato via, ma queste sono cose importanti, e non mi sento in colpa - .
Quasi un chilometro separava lo stabilimento dalla casa. Era una piacevole mattinata, l'aria era frizzante e profumava di erba bagnata. Camminarono vicini, conversando tranquillamente, come aveva visto fare tante volte a papà. In quel breve tragitto avevano preso decisioni importanti.
- Questa distilleria è ancora una miniera d'oro. Quello che ci manca è la commercializzazione. Tuo padre, da qualche tempo, non ne aveva più voluto sapere. Abbiamo sempre i nostri clienti, affezionati e fedeli, però i tempi sono cambiati e noi non siamo stati al passo - .
Era strano sentirselo dire da lui; non doveva essere lei, giovane manager londinese, a sollevare il problema?
- Non siamo in difficoltà. Siamo a corto di liquidi? - .
- No piccola, non è questo il problema. O meglio, non precisamente. Tuo padre era un ottimo amministratore. In banca c'è di che fare sopravvivere la tenuta per un anno almeno, nel caso non si vendesse nemmeno una delle nostre bottiglie. Per non parlare della collezione privata della distilleria che, in caso di necessità, ci darebbe un altro anno di vita.
Non si sta parlando di questo. Si tratta di decidere se la McFarland ha ancora un valore per te. Non può continuare così, non è al passo con i tempi. E non sto parlando di snaturare il prodotto, sto parlando esattamente del contrario. Occorrono investimenti per permettere che tutto rimanga così. Tuo padre ha fatto quello che poteva. Ha mantenuto in perfetta forma tutti gli impianti e saremmo in grado di produrre molto di più, senza intaccarne la qualità. È tutto pronto - .
Igraine lo ascoltava attenta e non osava interromperlo.
- Questa è l'eredità di tuo padre: la decisione è se continuare o mollare. Ti ha fatto un grande dono: la libertà di scegliere. Ed è quello che abbiamo ricevuto tutti noi quando abbiamo deciso di vivere la nostra vita qui.
Tuo padre ti avrebbe fatto notare che è parte delle tue responsabilità, ma noi ti vogliamo troppo bene per essere un peso sulle tue spalle. Pensa serenamente, con calma, e non dimenticare che qui è nato il McFarland e tu hai il privilegio di questo cognome - .
Il lungo discorso l'aveva irrigidita. Non aveva mai sentito lo zio Frank così prodigo di parole. Arrivarono in silenzio alla distilleria. Era una giornata lavorativa, e dentro ferveva l'attività quotidiana. Steve era nel suo ufficio, alle prese con una telefonata difficile ma, quando la vide, si rasserenò. Appena agganciato il telefono, si alzò e l'abbracciò.
- Non sai quanto sia felice di averti qui - .
- Zio, non sono tornata per rimanere. Avrò ospiti per qualche giorno. I miei amici avvocati si occuperanno del passaggio ereditario - .
- Lo so, lo so, ma intanto sei qui e le cose non succedono mai per caso. Non voglio distrarti dai tuoi ospiti, mi basta che tu respiri aria di casa. Vieni - . L'accompagnò nello studio del padre.
- Questo, ora è tuo - .
Un piccolo vaso pieno di eriche era appoggiato su un lato della scrivania. Era il cambio della guardia.
- D'ora in poi troverai tutti i giorni un mazzo di fiori delle nostre terre, qui, a darti il benvenuto - .
Un groppo le salì alla gola e si rifugiò in lacrime fra le braccia di Steve. Non aveva ancora pianto dalla morte del padre e quello valeva per tutte le lacrime non ancora versate. Lui l'accarezzò a lungo, come silenzioso segno di conforto.
Quando sentì che si stava calmando, le porse un kleenex, non aggiunse altro e uscì.
Rimase a lungo seduta alla scrivania del padre. Doveva fare qualcosa, se solo qualcuno avesse potuto suggerirle cosa.
Il primo passo era informarsi: su tutto, sulla situazione in banca, sui clienti, la produzione, la fattibilità dei rinnovamenti che suo padre aveva trascurato.
Aprì la cassaforte e, una volta aperta, rimase a guardarla, senza avere il coraggio di andare fino in fondo. Ogni azione era un passo verso le responsabilità di cui aveva parlato zio Frank e che lei si ostinava ad allontanare.
Estrasse una serie di documenti, titoli di stato, attestati azionari, tutte cose di cui conosceva l'esistenza. C'erano assegni, una bella somma di denaro in contante e una serie di buste.
In una trovò i disegni originali delle etichette del loro whisky, e altre, sempre dipinte a mano, lo stile delle prime ma diverse.
La dicitura sottostante indicava un differente processo d'invecchiamento e una variazione rispetto al loro abituale procedimento di distillazione. Papà stava pensando a un nuovo prodotto? Da quanto tempo? Doveva chiedere a Steve.
Una busta portava il suo nome e, a differenza delle altre, era sigillata. Paventava quel momento, aveva sempre saputo che avrebbe dovuto fare i conti con qualcosa del genere. O non conosceva suo padre.
Infilò la lettera in tasca e ripose tutto il resto in cassaforte. Lasciò l'ufficio, passò a salutare Steve e s'incamminò verso casa.
La lettera, in una delle tasche, era pesante. Doveva trovare un posto tranquillo in cui poterla leggere, ma rimandare non ne avrebbe cambiato il contenuto.
Si sedette su un grosso masso che sporgeva dalla terra e aprì la busta. La scorse velocemente, fino alla frase che stava inconsciamente cercando.
Mostra Kinnaber ai tuoi figli, come mio padre la mostrò a me e come io l'ho mostrata a te. Ti voglio bene. Papà.
Ripiegò la lettera e si diresse di buon passo verso a casa.
Si concesse incondizionatamente a Mary che la coinvolse a sistemare fiori e a scegliere biancheria.
Cenò con Mary e Frank nella saletta verde. Le ragazze servivano a tavola, facendo un corso accelerato sotto la direzione attenta di Mary. Partecipò distrattamente alla conversazione e si dileguò appena poté, con la scusa di alcune telefonate da fare.
Si chiuse nello studio del padre. Telefonò a Michael che era fuori a cena e fu abbastanza frettoloso. A lei non rimase che salutarlo. Quando aveva bisogno di lui, non c'era mai o, peggio, non si accorgeva mai di quando lei aveva bisogno di lui.
Aveva un pensiero fisso, telefonare a Stuart, ma non avrebbe risolto i suoi problemi con Michael, ne avrebbe solo aggiunti altri. Sconfortata, decise di andare a letto. Si sarebbe alzata presto la mattina seguente, e voleva andare alla distilleria per parlare con Steve delle etichette che aveva trovato.
Cercò un libro nella biblioteca di papà, era davvero un lettore fenomenale. Del resto, le serate a Kinnaber non permettevano molti svaghi.
Alla fine decise per La casa degli spiriti, che aveva letto diverse volte ed era sempre rimasta affascinata dal rapporto d'amore che univa Clara a Esteban, o forse Esteban a Clara e di come lei percepisse il divenire della vita. Scorse i passi che le piacevano di più mentre davanti a lei scorrevano le immagini del film.
Non era mai stata in America Latina e avrebbe voluto ballare un tango a Buenos Aires. Quante cose non aveva ancora fatto e aveva già trentatré anni.

Capitolo ventotto

Partirono presto e per le otto erano in aeroporto, con Henry vestito da caccia.
- Ragazzi, scusatemi, ma io sono quassù da un mese e non ho nient'altro da mettermi - .
- Ti comprerai qualcosa a New York! - . Non avere niente in valigia sarebbe stato l'ultimo dei problemi di Stuart.
- La vedo dura! Mio marito non compra niente se non dal suo sarto ottuagenario. E, per quanto è possibile, cerca di non comprare! - .
Il viaggio fu piacevole. Stuart si era seduto di fianco a Igraine: la voleva vicino e quando lei fece scivolare la mano fra le sue, chiuse gli occhi e la pensò mentre lo baciava e gli diceva che lo amava. Gli riempì il cuore e un sorriso salì dalle pieghe più profonde della sua anima.
- Henry, dovresti comprare un jet - .
- Stuart, quello che vuoi dire è: Henry potresti comprarmi un jet? Che me ne faccio io di un aereo? Lo useresti tutto il tempo solo tu - .
In tarda mattinata, ora di New York, erano già nell'appartamento di Arthur e Sarah; si erano tutti impegnati a tenere a bada Henry che, dopo un mese di brume scozzesi, era eccitatissimo per la gita nella grande mela e ancora più soddisfatto per avere fatto entrare, in territorio americano, una quantità scandalosa di whisky senza pagare le tasse doganali.
- Ragazzi, vi lasciamo liberi per il resto della giornata. Anche noi abbiamo una famiglia! Stuart, ti aspetto domani mattina in ufficio e noi ci vediamo a cena domani sera - .
L'appartamento era la quintessenza dell'immaginario collettivo di una casa a Manhattan, pareti a vetri sullo skyline e domotica di ultima generazione.
Risero a crepapelle guardando Henry che non riusciva a capacitarsi e girava per casa con un tablet, abbassando tende, accendendo stereo e televisioni o alzando una virtuale cornetta del telefono.
Dopo numerosi sforzi, capì come si accendevano e spegnevano le luci della sua camera, senza illuminare contemporaneamente tutta la casa. Quando andò in cucina per prepararsi un caffè, raggiunse l'apoteosi.
- Stuart, tu che sei l'intelligente di famiglia, vieni a darmi una mano. C'è una macchina del caffe che io credo sia stata ideata dalla Nasa, ma non ha interruttori - .
- Cerca meglio - .
- Ho cercato, è una macchina del caffe, non un campo da golf! - .
- Hai provato con i comandi vocali? - .
- Non ci avevo pensato! - . A quel punto Henry chiese, educatamente, alla macchina del caffè di accendersi.
- Niente, sarà il mio accento? - .
- Tu sei incapace di un pensiero lineare - , e Stuart pronunciò la parola fatidica: CAFFÈ.
La macchina si accese.
Con una tazza fumante di caffè in mano, Henry passò un'ora a parlare con i vari elettrodomestici e mobili di casa per vedere cosa succedeva. Si divertì talmente, che non volle andare a cena fuori. - Ordiniamo pizze all'ananas e cibo cinese e mangiamo davanti alla tv. Voglio vivere il mio film americano! - .
Fecero una rapida ricerca su internet e scelsero il posto.
Più complicato fu telefonare, perché Henry si ostinò a volere usare il telefono di casa. Dopo innumerevoli tentativi riuscirono a farsi recapitare la cena e, seduto sul divano, finalmente Henry si rilassò.
- Amico mio, ti devo riconoscere un grande merito: sai sceglierti gli amici! - .
- E le fidanzate! - , lo rimbeccò Igraine.
- Per carità Iggie, ti vogliamo bene ma hai più problemi di Anastasia Romanov e ho pure scelto bene il paragone! Tanto per rimanere in argomento, Louise, che non ti venga in mente di dire a tua madre che siamo a New York. Se immagina che siamo qui, la strega di Boston arriva volando sulla scopa e ce la vediamo entrare direttamente dalla finestra! - .
- Henry, sei in gran forma. New York ti fa bene, ma ora devo lavorare. Cerco una scrivania da qualche parte e mi ritiro in buon ordine. Iggie vai a letto? - .
- Sì, non vedo l'ora di spararmi un'intera stagione di una serie televisiva. Immagino troverò un archivio completo da qualche parte. Buona notte a tutti. E... Henry, se ti svegli per il cambiamento di fuso orario, non fare esperimenti con la casa! - .
Stuart l'accompagnò in camera, chiuse la porta dietro di sé e la strinse tra le braccia.
- Sono dodici ore che voglio farlo, ho voglia di baciarti... faresti l'amore con me? Sto morendo - .
Lo guardò intensamente negli occhi, si scostò da lui e accese lo stereo.
- Non ti muovere - , gli sussurrò con un filo di voce.
Non ricordò come lei si fosse spogliata, danzando di fronte a lui, non seppe dire come la biancheria fosse finita fra le sue mani e lui si fosse ritrovato a respirarla. Aveva una vaga immagine delle mani di Iggie che lo spogliavano senza mai toccarlo e di come si ritrovò a letto con la sua lingua che lo assaggiava mentre sfiorava ogni centimetro del suo corpo, che rabbrividiva sotto il suo respiro caldo. Poteva solo ricordare la lentezza devastante delle sue labbra che si fermavano ogni volta che lui era a un soffio dal perdersi.
- Non ti muovere - .
Lei delineò ogni muscolo del suo torace, sentì il suo battito alla base del collo, si fece penetrare dal suo odore. Scostò i lunghi capelli dal suo viso e lo guardò a lungo, in una esasperante attesa, prima di baciarlo sulle labbra mentre le sue mani lo guidavano dentro di lei. Tutte le nuvole di quei mesi bui si sciolsero in una pioggia che li lasciò fradici

Antonella Alboni

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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