Il desiderio dell'innocenza
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Un bagliore di luce intensa mi avvolse completamente, lasciandomi a poco a poco intravedere una creatura con una chioma di un nero carbone, che ricopriva tutta la sua testa per poi cadere velatamente lungo le spalle, coprendo parte delle braccia; i suoi occhi scuri come le tenebre evidenziavano ancor di più il contrasto con la sua pelle bianca, anzi bianchissima, sembrava lei la luna nella notte di quell'estate. Non sapevo bene cosa mi stesse accadendo, non mi importava più di nessuno in quel momento, nemmeno del motivo per cui ero lì. Mi interessava solo stare con lei, sentire scandire le sue parole come se fossero note musicali che fuoriuscivano dai tasti di un pianoforte. Tutto ciò provocava in me sensazioni intense, e volevo godermele fino in fondo, restando accanto a lei ancora tutto il tempo. Rivivevo quel momento passato con lei, come una sorta di rito magico: un rito che avrei voluto non terminasse mai. Lasciavo che mi accompagnasse durante tutte le mie giornate, dentro il mio cuore, dentro la mia mente, cedendo a quelle emozioni che si perdevano, senza trovare la via del ritorno. Io sono Alessandro, avevo da poco compiuto tredici anni. Sognavo molti progetti per il mio futuro, ma come tanti ragazzini della mia età non era il momento di sforzare le meningi: avevo voglia di vivere, di divertirmi, di conoscere e di innamorarmi. Già, innamorarmi, e di chi? Mi chiedevo cosa fosse l'amore? Perché ne sentiamo il bisogno? Non era forse troppo presto alla mia età? Erano domande che ponevo a Sasà, e lui puntualmente mi sbatteva in faccia la solita risposta: - Sei bello, ti vengono dietro quasi tutte, che bisogno hai di cercare l'amore? Divertiti con chi vuoi e poi si vedrà - . A volte volevo dargli ragione e a volte no, ma in fondo avevo ancora tempo per trovare una risposta. Io e Sasà, all'anagrafe Salvatore, eravamo coetanei e amici da sempre, praticamente da quando mettemmo piede per la prima volta nel nuovo stabile, un palazzone giallo con mattoni marroni. I nostri genitori acquistarono un appartamento lì, praticamente nella stessa settimana, e il primo incontro tra me e Sasà fu proprio al cancello. Entrambi stringevamo gli ultimi pacchi appena scaricati dal furgone, ci guardammo e sorridemmo. - Sei il nuovo arrivato, eh? - . Fu empatia a prima vista dove nacque una vera e profonda amicizia. Da lì in poi restammo uniti nel gioco, nello studio, a scuola ̶ eravamo compagni di classe ̶ Condividevamo tutto, sia i problemi sia le gioie che ci accompagnavano durante il nostro tempo. Non ci separavamo praticamente mai, tranne che per dormire e mangiare, oppure quando i nostri genitori ci obbligavano a far visita a qualche parente che abitava lontano dalla città. Numerosi pensieri comuni ci accompagnavano durante la giornata, come per esempio trovare lo schema vincente per la partita di calcio, contro gli eterni rivali a scuola, la frase giusta da dire alla ragazza più carina e corteggiata del momento, lo scherzo più divertente da fare allo zimbello del gruppo. Insomma, amici per davvero.
A casa invece la situazione era ben diversa, la nostra era una famiglia numerosa Sono il primo di ben quattro figli: quando si sono sposati, mio padre e mia madre hanno tenuto fede alla promessa di avere due cuori e una capanna zeppa di prole. A papà Ugo non piaceva parlare troppo: lui si esprimeva con lo sguardo, soprattutto quando doveva farci notare qualcosa di sbagliato. Angela invece una mamma affettuosa, fin troppo, e a volte rasentava la morbosità. Qualunque tentativo di distrarla dall'attenzione dei propri figli risultava vano. E poi ci sono gli altri componenti della famiglia, mio fratello Guido, il più permaloso, e le mie due sorelle: Agnese, le avevo affibbiato in nomignolo di “Crudelia” quando si arrabbiava con qualcuno che infrangeva la sua privacy, infine Clara, o meglio “Briciola”: piccina e dolcissima, in fondo è l'ultima arrivata della ciurma. Tutto sommato una bella famiglia, se non fosse che in casa avevamo un solo bagno, e noi eravamo in sei: era scontata la gara a chi lanciava urla più assordanti per far sì, che chi lo stava occupando facesse più in fretta possibile. Ciò scatenava una serie di isterismi da parte di tutti, mamma e papà compresi. La scuola era finita ormai da giorni, per fortuna in casa si respirava aria di quiete, e spesso ne approfittavo per passare ore serene in bagno, leggendo in santa pace la mia serie preferita: Diabolik. Erano quasi le 17.00” quando suonarono al citofono. Mi precipitai per evitare che altri rispondessero al posto mio. Spesso Briciola tentava di sfidarmi catapultandosi dal divano; fatica sprecata, ero già lì pronto a rispondere. Era Sasà, puntuale come un orologio svizzero. In effetti il mio amico aveva tanto di svizzero, dal momento che sua madre è nativa di Berna, non poteva che rimarcare la nazionalità elvetica della sua “prima donna”. - Scendi! - Fu l'unica parola che riuscì a dire trattenendo il fiato, come se volesse fare un tuffo in mare. La mia risposta era sempre la stessa: - Ora scendo! - Indossai in fretta una t-shirt nera e un paio di jeans e raggiunsi Sasà. Mi stava aspettando sui primi scalini dell'androne, mi guardò con aria tenebrosa, come se volesse iniettarmi il suo stato d'animo del momento. - Ciao bello, sei pronto per fare stragi di donzelle? - - Certo, non aspetto altro! - gli risposi - Allora andiamo! - Ci dirigemmo al parco. Era sempre il solito posto in cui andavamo, si trovava a poche centinaia di metri da casa. Lì ci aspettavano i nostri amici e soprattutto le “donzelle”; che a quell'ora del pomeriggio si sentivano così sexy da vestirsi come cubiste: Giulia e Alessia, considerate dal resto del gruppo come le emancipate, e Laura e Simona, le super femministe. Chiudevano il gruppo Fausto e Celeste, i mega sfigati del quartiere, tanto da fare impietosire me e Sasà, che ci candidammo a loro protettori. Gli sguardi di Giulia appena arrivammo erano sempre gli stessi e sempre indirizzati alla stessa persona; così anche per Laura, che però a differenza di Giulia mostrava un tantino di indifferenza, per timore che la sua reputazione venisse messa sotto accusa. È risaputo che le donne ci tengono a questi particolari. - Bene ragazzi! Tirate fuori un argomento sbalorditivo! - urlò Sasà con fare provocatorio, pur sapendo che i mega sfigati e le super femministe non amavano essere provocati. I discorsi cadevano e ricadevano sul solito ed ennesimo argomento, come se non ce ne fossero stati altri, oppure come se non bastava riscaldare un pomeriggio austro di quella nostra estate meridionale "Il sesso!" L'argomento per noi maschietti è inutile precisarlo era pane quotidiano, un po' meno per le femminucce che si mostravano disinteressate, ma poi anche loro complici di domande e risposte pertinenti, si perché le donne è vero non sono interessate... ma curiose sicuramente sì. Mi ritrovavo sempre nel mezzo delle possibili scelte che una delle ragazze avrebbe potuto fare o meglio desiderava avere come esperienza, ̶ se pur limitata, considerata la nostra giovane età ̶ suscitando ingenue invidie da parte del resto del gruppo. Ammetto, mi sentivo spesso imbarazzato in quelle situazioni, talvolta in colpa di essere preso come oggetto del desiderio, questo accadeva spesso e alla fine me ne facevo una ragione. La realtà era quella e io non avrei potuto cambiarla. Giulia spinse con l'argomento, e come una lepre piombò sulle mie gambe, dove in quel momento mi ero appena seduto sull'unica panchina libera che c'era. Mi guardò con occhi da gatta morta e mi domandò: - E tu Alessandro, c'è l'hai un desiderio nascosto? - - Con chi? - - Diccelo! - Un calore mi penetrò per tutto il corpo, il viso arrossì improvvisamente e le mie labbra restarono tappate, sembravano sigillate l'una sull'altra, come se mi fosse stato spalmato della colla adesiva, per evitare di scandire le parole per la risposta. Feci passare parecchi secondi prima di rispondere, volevo essere sicuro di quello che stavo per dire, non volevo rendermi ridicolo oppure sciocco, ero pur sempre il bello del gruppo e non potevo assolutamente deludere le aspettative di tutte e di tutti. - Si c'è l'ho un desiderio nascosto, ma come tale deve rimanere - - Non vorrei aspettarmi un rifiuto, sento di non riuscire ad accettarlo, pertanto preferisco non dirlo! - . Un gelo sprofondò sulla maggior parte dei visi presenti, specie su quelli femminili, forse qualcuno o qualcuna si sarebbe aspettato che mi pronunciassi finalmente, o forse perché credettero che in quella risposta ci fosse qualcosa di troppo filosofico per un adolescente della mia età. Sta di fatto che rimasi lì ad aspettare che Sasà mi tirasse fuori dal solito imbarazzo, e così fece. Intervenne scatenando un ulteriore dibattito su come potesse essere il nostro domani finita la scuola, deviando in questo modo l'attenzione dei presenti, verso un successivo argomento. Fu un toccasana in quel momento. Restammo lì al parco ancora un paio d'ore, il sole ormai ci aveva salutati, e il tempo della cena stava arrivando. Le ragazze furono le prime a ricordarci che le nostre mamme si sarebbero infuriate se avessimo tardato; quindi, decidemmo di salutarci e fissare un nuovo incontro il giorno dopo, alla solita ora, al solito posto e andammo via tutti. - Ale svegliati! - - Sono ormai le dieci del mattino! - - Non puoi restare a dormire l'intera giornata! - - Non farmi esasperare! - Le urla di Angela tentavano invano di scuotermi e buttarmi giù da letto come se avessi dovuto fare una performance di tipo bungee jumping, mentre in sottofondo si sentiva la pentola che bolliva colma di sugo di pomodoro, preparato alle prime luci dell'alba. Sì, perché' Angela custodiva gelosamente le ricette di mia nonna, e una di quelle era proprio il cuocere a fuoco lento il pomodoro al mattino presto. Sasá mi aveva cercato, anzi citofonato, un'ora prima che Angela suonasse le trombe del risveglio, dicendo che aveva una cosa importante di cui parlarmi e che dovevo raggiungerlo in fretta a casa sua, praticamente due piani sopra il mio. Colazione esagerata, con nutella e fette biscottate, un tazzone di latte e caffè per deliziare il mio palato mattutino, e subito di corsa da Sasá, anche perché questa cosa che doveva parlarmi mi incuriosi un bel po'. Suonai il campanello, ma spesso dimenticavo che suonare una volta sola era praticamente inutile alla porta di casa di Sasá. Non sono mai riuscito a spiegarmelo, ma credo sia una vecchia abitudine tramandata di padre in figlio, dal nonno al padre di Sasá per intenderci. Il motivo? nemmeno Sasá mi ha mai dato una spiegazione logica - Se vuoi entrare aspetta! - questa fu la sola unica risposta. Dopo tre picchiettate al campanello, finalmente mi ricevette sua madre Annalisa, che mi invitò ad entrare e andare in camera sua, perché era lì che mi stava aspettando. - Ho pronto un lavoro per noi - mi disse. - Passeremo quasi tutta l'estate impegnati a lavorare, non puoi rifiutarti! Non puoi lasciarmi andare da solo! - mentre stringeva tra le mani il filo che collega il telefono alla presa elettrica. - Andremo a lavorare al Bar Vecchio, di fronte all'Ospedale - proseguì sfoggiando un sorriso sgargiante. - Cominciamo fra due giorni e la paga è di 50.000 lire settimanali, sette ore al giorno, mattina oppure pomeriggio ci divideremo i turni; è così che mi sono accordato con il vecchio Vincenzo, che ne pensi? - Aveva tutta l'aria di una minaccia la sua proposta, poi era ancora troppo presto per mettere in moto i miei neuroni, mi ero svegliato da poco, ma qualcosa mi fece subito intuire che poteva essere interessante, anzi lo pensai davvero, per cui non esitai a confermare la mia disponibilità. Non avevo mai lavorato in un bar, non avevo la più pallida idea di cosa e come si svolgesse il lavoro di barista. Lo intuivo quando mi capitava di entrarci per comprare qualcosa, però mi fidavo di Sása, lui mi avrebbe aiutato a superare anche questo ostacolo, in fondo ero il suo migliore amico, poi quel lavoro fu lui a propormelo, non si sarebbe tirato indietro in una mia ulteriore richiesta di aiuto qualora mi fossi trovato in difficoltà. Ne ero più che sicuro, anzi ne ero certo. “Oggi è Lunedi, il nostro primo giorno di lavoro comincia proprio di lunedì, sembra perfetto” pensai mentre il vecchio Vincenzo ci dava indicazioni dettagliate sul lavoro da svolgere. La cosa era piuttosto semplice, si cominciava alle 7.30” del mattino, una veloce ripulita al bancone e al pavimento del bar, subito dopo bisognava riempire 15 secchi di bibite freddissime, messe in freezer la sera prima, e venderle ai pazienti dell'ospedale, tutto qui. L'aspetto dei secchi lasciava un tantino a desiderare, erano gli stessi che utilizzava Angela per lavare il pavimento di casa, e per di più dello stesso colore, azzurro; ma di un contenuto appetibile considerato il caldo esasperante di quei giorni. All'interno dei secchi era già tutto predisposto per contenere un numero esatto di bottiglie di acqua, di aranciata, e Coca Cola, in modo da soddisfare qualsiasi tipo di arsura. A completamento del giro di tutti i reparti, e solo quando si erano vendute tutte le bottiglie, si poteva tornare al bar, ripartendo con un altro secchio e così via fino al termine dell'orario di lavoro. Era divertente gironzolare tra i reparti gridando: - Acqua! Aranciata! Coca! - . Le infermiere spesso mi fermavano chiedendomi il costo di una bottiglia, per poi aggiungere - Ma che bel giovanotto che sei, con quei due occhioni neri neri - Con il passare dei giorni divenni "il ragazzo dell'acqua" è così che mi chiamavano, aspettando il mio passaggio giornaliero. Riuscivo addirittura a vendere tutti i secchi di bevande in una sola mattinata, mentre Sasá aveva bisogno di più tempo affinché completasse le quindici vendite di secchi, ma lui lo immaginava e mi ripeteva spesso: - Sei avvantaggiato solo perché sei bello! È questo il motivo che ti aiuta a vendere più di me, sappilo! - . Non era affatto invidioso, lo diceva solo per mettermi di fronte alla realtà delle cose, in fondo non si sbagliava. Da parte mia c'era tutta la solidarietà e il rispetto che può avere un vero amico. A volte evitavo di competere con lui, anzi spesso mentivo, gli dicevo di aver venduto poco, solo per non sentirmi ripetere che avevo un vantaggio in più rispetto a lui, in realtà stravendevo con facilità. Ma non mi importava, ero felice così
Giuseppe Giarnera
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