A Viola voleva un bene dell'anima. Se un uomo si affezionava troppo a una pecora da quelle parti la gente pensava male. Stefano viveva in una terra di pregiudizi solidi come le rocce che la circondavano. Una terra alpina ancora attraversata dagli animali selvatici. Spesso gli uomini agivano peggio delle bestie, pensava. Faceva eccezione solo per i pastori, esseri solitari e timidi, occupati unicamente a proteggere il gregge. Ogni giorno si dannavano per nutrirlo, per tenerlo al riparo dai predatori, per soccorrerlo in caso di frane e cadute nei fossi. Un buon pastore era in grado di distinguere ogni singola pecora dalle altre, anche fossero mille. Roberto gli aveva spiegato, tuttavia, che i pastori tacevano quando il muso di una vettura spingeva impaziente in fondo al gregge: erano ben consapevoli che le loro amate pecore potevano comportare un intollerabile fastidio mentre attraversavano una strada e bloccavano il traffico. E inoltre comprendevano benissimo quelli che alla loro vista storcevano il naso, complici certi odori forti che si portavano addosso come un passaporto. Stefano aveva una pecora, ma non era un pastore. Era il titolare dell'unico bar in attività nel piccolo villaggio di Capriata, nel Trentino orientale. E in quell'alba del 5 di giugno davanti alla porta del suo locale ruotò su se stesso come un pirlo, chiamando la sua pecora a più riprese. Il panorama intorno era aperto. Il suo sguardo lo percorse rapido e vagò lontano fino al fondo del crepaccio dove scorreva il torrente. L'orizzonte era sgombro sulla valle che si allungava più in là, si scorgevano le chiazze azzurre dei laghi di Levico e Caldonazzo, la Catena del Lagorai e la Cima Dodici, e poi verso ovest le vette frastagliate del gruppo del Brenta. Tempo prima, il vento portato dalla tempesta Vaia aveva soffiato alla velocità inusuale per quelle latitudini di duecento chilometri orari danneggiando ettari di boschi. In quell'orizzonte, della sua pecora non vi era alcuna traccia. Stefano si stava allarmando sempre di più. Viola non si allontana mai, pensò mentre camminava avanti e indietro controllando ogni angolo nel portico e nella stalla. C'erano alcuni sacchi di fioccato di cereali, erano ancora sigillati come li aveva lasciati due sere prima. Cominciò a correre attraverso il prato che saliva sul retro della casa e arrivò al recinto con il respiro corto. Si mise a cercare un segno. Le zolle di terra erano morbide, ma ancora leggermente croccanti a causa della brina notturna. La vasca della fontana aveva ai bordi un velo sottile di ghiaccio. Il cancello di legno era chiuso con la cordicella. Gli occhi di Stefano seguirono la traccia di un sentiero che improvvisamente si biforcava: una delle diramazioni saliva dritta come un'asta alla cima della montagna, e l'altra come un grasso serpente s'inerpicava nel bosco fino alla Malga degli Asini. In lontananza erano visibili molti tratti con ancora ai lati una certa quantità di alberi caduti alla rinfusa, sradicati dalla tempesta. Dal bar una voce lo chiamò. “Stefano!” Devo mettere in pressione la macchina del caffè, pensò scendendo verso casa di malavoglia. Si fermava a scrutare i dintorni ogni volta che con la coda dell'occhio gli pareva di intercettare un movimento anche minimo. Ma Viola non era una pecora che giocava a nascondino. Ogni mattino, appena Stefano spalancava la porta del bar, gli si avvicinava con placido ancheggiare. A volte invece rimaneva in piedi a fianco del furgone e lo fissava come a dire: “Sono qui, mi vedi?”.
L'aria buona e il panorama di Capriata erano una grande attrazione per chi arrivava dalla città. Su questo Stefano concordava, solo su questo però. Sosteneva che trasformare un villaggio di montanari in una località turistica fosse un proposito troppo ambizioso da parte dell'amministrazione locale. Capriata aveva scommesso molto sulle terme. Aveva rispolverato la tradizione vacanziera delle corti asburgiche. Ma l'idea più strampalata, secondo Stefano, era stata quella di inventarsi una leggenda e farla diventare il marchio del paesello. Una storia che spaventava i bambini, per giunta. Tutti potevano leggerla perché campeggiava sulla parete principale di una capanna di legno con il tetto muschiato all'ingresso del villaggio, sotto l'insegna smaltata di rosso con la scritta “Benvenuti a Capriata”. Ogni volta che Stefano si imbatteva nel racconto del destino toccato ai figli del re Fravort gli venivano i brividi. In ogni caso lui era della concreta opinione che mancassero adeguati intrattenimenti in paese per attirare la massa dei turisti: né le leggende né le terme asburgiche sarebbero bastate a risollevare l'economia della sua terra. Tuttavia, doveva riconoscere che un certo movimento a Capriata cominciava a esserci soprattutto grazie ad altre categorie di visitatori. Dalle sue finestre, con le tende ricamate a mezzo vetro, Stefano poteva scorgere la schiena di chi si gettava correndo dal ciglio della scarpata. Dopo pochi istanti, e sempre con un respiro di sollievo, li osservava planare, umani sospesi nel vuoto con le mani strette alla barra di un deltaplano. A Capriata si era creato un certo giro che attirava gli appassionati di questa disciplina: d'estate si mescolavano ai visitatori dei bagni termali. Questi ultimi erano perlopiù gente di una certa età che camminava con il bastone o con l'aiuto di un carrellino e che contemplava sospirando gli escursionisti muniti di scarponi e zaino sulle spalle in procinto di conquistare la cima della montagna sopra Capriata. Fino a lassù, fino a duemila metri, il sentiero era ripido e si avventuravano solo i buoni camminatori. Quando salivano per la prima volta poi ritornavano al bar di Stefano per lamentarsi di quello che avevano trovato in vetta: antenne, ripetitori e porte di ferro degli impianti sciistici. “Questa montagna ha la forma di una polenta con una manciata di coltelli conficcati al culmine”, aveva sbottato un giorno qualcuno. Stefano aveva avvertito affiorargli un risolino di scherno sul volto e aveva risposto che lui era abituato a quei coltelli fin da quando era bambino, a volte se li sentiva addosso, puntati nella schiena. In ogni stagione nel suo bar entravano cacciatori e bracconieri valligiani. Si confondevano gli uni con gli altri. I clienti quotidiani invece erano soprattutto una truppa di pensionati. Alcuni venivano dal fondovalle a bordo di Fiat Panda con il 4x4 inserito anche nel mese di luglio. Indossavano un cappello verde oliva con una piuma solitaria posato di sghembo su crani rasati e arrossati, trangugiavano grappe e vino bianco e parlavano sempre degli stessi argomenti, a cui ogni volta il barista replicava come se avesse appena sentito una novità. Proprio uno di loro lo stava reclamando al bar, ma Stefano era preoccupato per la sua pecora. Dovevano avergliela portata via. Qualche scellerato aveva rapito Viola! “Chi vuoi che ti rubi la pecora, Stefano? Non dire boiate!”, esclamò Mario dopo aver bevuto d'un fiato un bicchiere ricolmo di vino bianco. Aveva lo sguardo di un topo che scrutava di continuo intorno a sé, era sempre il primo ad arrivare. Di lì a poco lo avrebbero raggiunto gli altri compari. Ogni volta che la porta del bar si apriva per fare strada a un nuovo avventore, Stefano sperava di vedere comparire la sagoma di Viola, anche se nel locale non era mai entrata. “Che non si azzardi a passare da quella soglia”, aveva messo in chiaro sua figlia fin da subito. Certe volte Betty gli metteva soggezione. Lo imbarazzava anche quando era una bambina e osservava seria i suoi scarponi da lavoro lasciare tracce di terriccio sulle piastrelle. Una fanatica della pulizia, ecco cos'era quella ragazza. Ma era un'opinione che aveva confidato solo a Terry, perché sapeva che lei non andava in giro a sparlare degli altri. Terry aveva il carattere dei pastori. Stefano pensava che la donna avrebbe potuto vivere una vita migliore altrove, in una malga per esempio, piuttosto che lì sulla strada a prendere freddo e a respirare gas di scarico in quel distributore di carburante per dieci ore al giorno.
Milka Gozzer
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