- Tommaso, domani devi andare all'università per informarti su quando devi presentare l'iscrizione e quali documenti servono - . - Sì mamma, me lo hai già ripetuto tre volte questa settimana. Ci andrò - . - No, vai domani mattina. Sennò poi te ne dimentichi - . - Sì, mamma. Va bene, mamma. Come vuoi tu, mamma - . Come il rumore persistente e fastidioso di un martello pneumatico che scalpella il cervello, così era la voce di mia madre quando ripeteva all'infinito cose che, secondo lei, erano vitali che io facessi. Avevo sostenuto gli esami di maturità da qualche settimana, ma ancora la scuola non mi aveva rilasciato il diploma, senza il quale non potevo iscrivermi all'università. Volevo frequentare la facoltà di architettura, ma non avevo idea neppure di dove fosse la sede. Un compagno di classe mi suggerì, senza troppa convinzione, di andare in un ufficio che avrebbe dovuto occuparsi delle iscrizioni, nella zona nord di Messina. Sul viale san Martino trovai la fermata dell'autobus indicatomi dal mio amico e iniziai ad attendere fiducioso. Il caldo di luglio era insopportabile, avrei voluto essere al mare e farmi una nuotata, non stare al sole indossando un paio di pantaloni e una camicia grigi antracite. - Non vorrai presentarti all'università come uno straccione! Ormai sei un uomo e devi vestirti come si deve - . Aveva detto mia madre. Anche la nonna non voleva che portassi i jeans quando andavo in un ufficio pubblico. “Se ti vesti da uomo, ti tratteranno da uomo” diceva. Per fortuna ero riuscito a convincerle che mettere la cravatta sarebbe stato un po' esagerato. Mi piaceva indossare pantaloni ben stirati e camicie scure, ma non in estate. A detta di molte amiche, il fisico asciutto, l'altezza ormai stabile al metro e ottantadue e la barbetta nera che portavo ben sfoltita mi donavano un aspetto attraente. Gli occhi scuri e le ciglia folte che accentuavano l'intensità dello sguardo erano la mia arma di seduzione. Dopo una buona mezz'ora di attesa arrivò l'autobus. I sedili erano tutti occupati, rimasi in piedi vicino alla macchinetta obliteratrice. Seduta di fronte a me, una giovane donna mi osservava con insistenza. Doveva essere sulla trentina, indossava un attillato tailleur nero con una gonna poco sopra il ginocchio, uno spacco laterale mostrava una coscia abbronzata. Le lunghe gambe snelle erano accavallate provocatoriamente. I miei occhi finirono sul suo piede destro che dondolava stuzzicante, fasciato da un sandalo con un tacco a spillo vertiginoso. Il viso era perfettamente truccato, come se dovesse andare a una festa o a un incontro importante. Il sole illuminava i riflessi nocciola dei lunghi capelli che si poggiavano morbidi sulle sue spalle. Non ci conoscevamo, ne ero certo, forse mi guardava perché le piacevo e aveva voglia di guardarmi, la legge non vieta a nessuno di fissare un'altra persona, la buona educazione sì. Tornai a sbirciare fuori dal finestrino in cerca di punti di riferimento per capire quando chiamare la fermata. - Ti sei perso? - . La sua voce era morbida e calda. Mi voltai e la vidi fissarmi. Come scelgono le donne la loro preda? Come fanno a capire quale, tra mille uomini, è quello che stanno cercando? Non era mai accaduto che una donna più grande di me prendesse l'iniziativa in maniera così sfacciata. Voleva me e glielo si leggeva negli occhi color muschio, sulla bocca carnosa, su quel piede che continuava a dondolare ritmicamente come il pendolo di un ipnotizzatore. - No, non credo. Devo andare all'università - . Mi atteggiai. - All'università? - . Sorrise mostrando dei perfetti denti bianchissimi. Non attese la risposta, ma chiese quanti anni avessi. - Diciannove - . Avrei potuto mentire e darmi qualche anno di più, ma ormai avevo detto la verità. Sicuramente il suo interesse sarebbe scemato. - Oh, diciannove? - ripeté in tono canzonatorio. Gli ormoni nell'aria volteggiavano freneticamente, la chimica stava svolgendo il suo compito. La sua voce, il suo corpo, i suoi gesti, il suo respiro, la sua risata, tutto era erotico in lei. - E in quale facoltà sei iscritto? - . - Architettura - risposi senza precisare che ancora non lo ero. - Architettura - ripeté sollevando le sopracciglia, con finto tono stupito. - E dimmi: stai andando lì con quest'autobus? - . - Sì - . Iniziai a dubitare delle mie stesse risposte. - Come ti chiami? - . - Tom - . - Oh! Tom, come Tom Jerry, quelli dei cartoni animati? - . Quella conversazione iniziava a irritarmi. Perché si stava prendendo gioco di me? Mi sentii leggermente in soggezione. - Tu come ti chiami? - . Passai all'attacco. - Greta. Come Greta Garbo, l'attrice svedese. La conosci? Forse sei troppo giovane - . - La conosco - mentii. - Dove sei diretta? - . - A casa. Ti va di venire con me o fai tardi all'università? - . Avevo sentito bene? Mi stava invitando a casa sua? Cosa dovevo rispondere? Dovevo cogliere al volo l'occasione? E se fosse stata una pazza serial-killer? O una tipa che adesca ragazzini sugli autobus per poi derubarli? Mia nonna mi aveva sempre detto di non accettare niente dagli sconosciuti, di stare attento perché in un attimo ti rapiscono e ti portano via, ti drogano e non ricordi più chi sei e ti ritrovi in un altro Paese coinvolto in un traffico di organi umani. Ma non ero più un ragazzino. - Che lavoro fai? - chiesi senza mostrare alcun tatto, procrastinando la mia risposta. - Lavoro all'università - . La guardai diffidente. Mi stava mettendo alla prova? Forse le avevo dato modo di dubitare di me. Cosa avevo detto di sbagliato? Intuì le mie perplessità e chiarì. - Lavoro alla facoltà di medicina. L'università è dall'altro lato della città. Quest'autobus va nella zona sud e lì non ci sono segreterie universitarie - . Stavo andando nella direzione opposta a quella giusta. L'umiliazione era appena iniziata. - A Messina non c'è la facoltà di architettura. Si trova in un'altra città e per andarci devi prendere un traghetto, caro Tom. Se davvero questo è il tuo nome. Io scendo qui - . Scese dall'autobus. La inseguii. Avevo fatto la figura del fanfarone che si voleva dare arie, di quello che inventava storie per far colpo sulle ragazze. La fermai sul marciapiede toccandole un braccio, si voltò guardandomi contrariata da quel gesto confidenziale. Provai a giustificarmi dicendole la verità su come avessi preso il numero di autobus esatto, ma dal lato sbagliato della strada, sul fatto che stavo andando a informarmi e che non sapevo neppure dove fosse l'università. Le mostrai perfino la carta d'identità per provare la mia età e come mi chiamassi. - Tom, ti credo, lascia stare. Si vede che sei un bravo ragazzo. Vuoi venire a prendere un caffè? - . - A casa tua? - . Mi mostrai intraprendente ricordandole l'invito fattomi in precedenza. - Non perdi tempo - . - Io? Veramente me lo hai proposto tu, sull'autobus - . - Scherzo! Abbiamo parlato già troppo per i miei gusti. Seguimi - . Si voltò e iniziò a camminare svelta davanti a me, dondolando sui tacchi alti. Vederla camminare era paradisiaco: il suo corpo era il quadro della perfezione fisica, dell'armonia delle proporzioni, un dono che madre natura dà a poche donne privilegiate. Non osai chiedere perché la dovessi seguire e non potevo camminarle accanto. Faceva tutto parte del copione che stavamo recitando? Eravamo attori? Non lo so, ma mi piaceva il ruolo che mi aveva affidato. Entrò in una palazzina, salì le scale fino al primo piano e aprì uno dei due portoni che si affacciavano sul pianerottolo. Nessuna targa indicava il cognome, mi lasciò entrare e richiuse la porta dietro di me. Non ci furono preliminari, non riuscii neppure a fare un passo in avanti. M'inchiodò al portone spingendomi con il suo corpo. I suoi occhi erano fissi nei miei. Le sue mani mi spogliarono, mi accarezzarono tra le gambe e trovarono quello che stavano cercando. Volevo spogliarla, me lo impedì. Mise le braccia attorno al mio collo e con un balzo me la trovai a cavalcioni. Dovetti sostenerla con due mani per non cadere entrambi sul pavimento. Nessuno dei due parlò, solo gemiti soffocati. Appena finì, si allontanò lasciandomi senza forze, appoggiato al portone. Si accese una sigaretta. - Puoi andare. Se ti va ci vediamo domani pomeriggio. Alle 5, qui da me - . Avevo passato il test di ammissione.
Elisa Barbaro
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