Si riprese quasi subito. Aveva ancora gli occhi socchiusi, quando cominciò a sentire uno strano odore di benzina mista a olio bruciato e metallo surriscaldato, tipico dei motori quando sono accesi da tempo; lo stesso che si sente anche nelle officine meccaniche, dovuto all'olio chimico e al metallo lavorato. Le orecchie cominciarono a udire un forte rumore, roboante e sordo, un rimbombo continuo accompagnato da un fastidioso cigolio. Si strofinò di nuovo gli occhi, poi tolte le mani dal viso. Quello che vide lo fece trasalire; il fiato e le parole gli si bloccarono in gola. Riuscì soltanto a emettere un flebile rantolo di terrore. Tutto intorno a lui era diverso, troppo diverso. Si trovava in un luogo stretto e di colore chiaro, forse ‒ da quel poco che poteva vedere ‒ bianco; un posto semibuio illuminato da fioche luci elettriche. Era seduto su un pavimento metallico ruvido e freddo, la spalla sinistra appoggiata al retro di quello che gli parve essere lo schienale di una sedia, ma che a un più attento esame si rivelò essere una paratia di metallo. Gli faceva male la fronte; toccandosi si rese conto di essere fasciato. Cercò di tirarsi un po' più su, per capire meglio dove si trovasse. Fu allora che si accorse che una parte del suo corpo poggiava su qualcosa di mobile, che ruotava. Alzò gli occhi e vide le gambe di tre persone: erano vestite con abiti neri e portavano degli scarponi militari sporchi di terra, decisamente logori. Gianni si strofinò di nuovo gli occhi, chiudendoli e scuotendo la testa, ma quando li riaprì nulla era cambiato. Non poteva crederci! Tutto lasciava pensare che si trovasse all'interno di un carro armato. Si guardò ancora in giro. Era appoggiato alla lamiera che separava la camera di combattimento dal posto del pilota. Anche lui aveva una divisa nera e una “bustina” in testa, del medesimo colore; era biondo e portava sul colletto le insegne dei carristi delle SS. Gianni trattenne il fiato: che cosa diavolo gli stava succedendo? Doveva trattarsi di un sogno, non c'era altra spiegazione! Diede un'altra occhiata in giro e dovette rassegnarsi alla folle idea: da quel poco che era riuscito a vedere, e da quello che ricordava dalle foto sui libri che aveva letto, era all'interno di... un carro armato. Per la precisione, un carro TIGRE tedesco! Si rese conto di trovarsi seduto vicino alla pavimentazione della torretta girevole, proprio accanto a una delle riservette delle munizioni. - Dove sono? - domandò ad alta voce, mentre la paura e il disagio gli consigliavano di allontanarsi dallo scafo pieno di materiale esplosivo cui era appoggiato. Non ebbe risposta. Il fracasso emesso da quel gigante di ferro copriva ogni altro rumore. “Adesso capisco perché l'equipaggio usava cuffie e laringofono per comunicare!” disse fra sé. Prese coraggio e diede uno strattone alla gamba del servente al cannone. - Ehi, dove sono? Chi siete voi? - Il soldato lo guardò, gli sorrise, poi si girò verso il capocarro che sedeva alla sua destra su un seggiolino rialzato. - Comandante! Il ragazzo è sveglio. Mi sta urlando qualcosa! - L'uomo si abbassò verso Gianni. La poca luce elettrica degli interni del carro illuminò appena il suo viso rotondo. Portava un berretto con visiera recante uno stemma a forma di teschio con ossa incrociate e, più in alto, un'aquila nazista; era equipaggiato di cuffia e laringofono, sul colletto aveva le insegne delle SS e una croce di ferro era appesa alla chiusura del colletto della camicia. Gianni lo guardò a bocca aperta; se già gli sembrò pazzesco il luogo dove si trovava, ancor più assurdo gli parve il fatto di essere al cospetto di quel personaggio che tante volte aveva visto nei suoi libri. Aveva di fronte niente meno che Michael Wintermann, il Barone Nero! - Fermata! - urlò il capocarro al pilota attraverso il laringofono. L'enorme massa del Tigre si inchiodò quasi istantaneamente, beccheggiando. Gianni tirò una forte testata alla lastra d'acciaio alle sue spalle: - Ohi... che botta! - gemette strofinandosi la nuca. - Tutto bene, ragazzo? - gli domandò il soldato alle sue spalle. Ormai si poteva parlare senza bisogno di urlare. Gran parte del rumore era sparito: restava soltanto il rantolo cupo del motore che girava in folle, e che di suo era già abbastanza per infastidire le orecchie, ma non al punto di impedire la comunicazione in quello spazio ristretto. - Sì, diciamo di sì... ma si può sapere dove mi trovo? - gemette Gianni, che ancora non realizzava perché fosse lì e come ci fosse arrivato. - Beh, ragazzino, sei il sesto incomodo del nostro equipaggio! - rispose il comandante, provocando le risate degli altri quattro soldati. - Sei qui con noi per precauzione, e perché stavi per finirci sotto i cingoli quando hai attraversato la strada, pochi minuti fa! Lui è Henrich, il pilota; Karl, il servente, al cannone; Gunther, cui hai tirato i pantaloni, è il cannoniere; là davanti c'è Rudi, il marconista. Io invece mi chiamo Michael, e sono il capocarro. Tu, piuttosto, da dove salti fuori? Che cosa ci facevi qui tra i campi, in mezzo alla strada? - Gianni li guardò uno a uno, nell'ordine di presentazione. Erano ragazzi di vent'anni o poco più; solo il comandante pareva più anziano. Tutti indossavano l'uniforme nera, che conferiva loro un qualcosa di sinistro e diabolico. Lo salutarono a turno, alzando le mani inguantate, osservandolo con aria curiosa. - Non ricordo come sono finito qui... ero da tutta un'altra parte! Non capisco... So solo che ho un gran mal di testa e mi fischiano le orecchie... ma dentro cosa siamo? - domandò, facendo finta di ignorare anche quello di cui ormai era certo. - Sei a bordo del nostro carro Tigre, ragazzo, una macchina che è l'orgoglio dei reparti corazzati del terzo Reich! - rispose pomposamente il comandante. - Hai preso una gran bella botta in fronte, figliolo. Per fortuna che Henrich ha i riflessi pronti e ti ha visto attraversare appena in tempo! Sei scampato al cingolo di destra, ma se non avesse bloccato il carro in un istante, beh... credo che non saremmo qui a parlarne, adesso - . - Ma perché mi avete caricato a bordo? E comunque io che ci faccio... voglio dire... io non dovrei stare in quest'epoca! Io vivo nel 1980... non nel... in che anno siamo? - - Ehi! L'hai presa più forte di quello che pensavo, la botta in fronte! - disse il pilota ridacchiando. - 1980! Sei decisamente avanti nel tempo. Come ti chiami, a proposito? - - Gianni, mi chiamo Gianni! E sì, vivo nel 1980 e di certo non dovrei trovarmi qui con voi. Stavo appunto costruendo un modello di questo carro; ricordo che la colla che stavo adoperando puzzava tremendamente, la testa mi girava e gli occhi avevano cominciato a bruciarmi. Dopo che li ho strofinati, mi sono sentito le gambe molli e devo essere svenuto. Quando mi sono risvegliato, mi sono ritrovato qui - . - In effetti, quando ti ho investito stavi attraversando la strada senza guardare, proprio perché ti stavi strofinando gli occhi. Comunque sia, lo ripeto, mi sa che la botta in fronte è stata bella forte, se sei finito più di trentacinque anni avanti nel tempo! Bah... 1980... questa poi! - Tutto l'equipaggio rise fragorosamente, di gusto. - Non potevamo certo lasciarti incosciente, lì a bordo strada, nel bel mezzo del nulla e in piena zona di guerra - disse Rudi il marconista. - Non sapevamo nemmeno se ti saresti ripreso. Henrich, poi, aveva i sensi di colpa - . Altre risate. Gianni si passò la mano sulla fronte dolorante. Cercò di alzarsi in piedi, ma si rese conto di non riuscirci: le gambe gli tremavano, e aveva una forte nausea. Provava una sensazione strana, come quando si ha un calo di zuccheri, non ci si regge in piedi e si è scossi dai tremiti. Il poco spazio a disposizione lo fece desistere dal tentativo, quindi si lasciò cadere sul pavimento, le mani sulla fronte. - Ehi, forse è il caso che usciamo a prendere un po' d'aria. Che ne dici? - Gianni annuì con la testa. Aveva desiderato da sempre di poter visitare l'interno di un carro armato, ma la situazione e il malessere gli causavano un senso di claustrofobia mai provato. Uscire era il suo unico desiderio in quel momento, più di ogni altra cosa. I cinque soldati aprirono i portelli di torretta e scafo e saltarono fuori con l'agilità dei gatti; in un attimo furono tutti a terra. Gianni, al contrario, ci mise un po' a rimettersi in piedi. Si infilò tra la culatta del cannone calibro 88 millimetri e il sedile del cannoniere, salì sul posto del capocarro e finalmente uscì dal portello della torretta. Da quella posizione poteva vedere bene tutt'intorno: erano su una strada sterrata di campagna, in mezzo a una distesa d'erba punteggiata di boschetti piuttosto ampi. Non erano soli: voltandosi indietro, vide che facevano parte di un gruppo di sei carri Tigre, tutti molto simili e spalmati di Zimmerit, la pasta cementizia che serviva a impedire che si potessero attaccare mine magnetiche allo scafo, colorati in una tinta giallo sabbia. Erano a distanza di una decina di metri uno dall'altro, in fila ma sfalsati, per quanto la strada potesse permetterlo. Gianni si sporse sul lato sinistro, la testa che gli continuava a girare, ed ebbe così la conferma di quanto pensava: il numero 007, dipinto in rosso sul lato della torretta, gli confermò che si trovava proprio a bordo del carro di Wintermann. - Comandante! Che succede? Perché ci siamo fermati? Non mi sento molto tranquillo, in questa zona. Ormai siamo a pochi chilometri da Villers-Bocage... non vorrei trovarmi nel mezzo di un'imboscata inglese e beccarmi un confetto nel fondoschiena del carro! -
Mauro Rota
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